Aléxandros - 1. Il figlio del sogno
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Aléxandros - 1. Il figlio del sogno

Valerio Massimo Manfredi

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Aléxandros - 1. Il figlio del sogno

Valerio Massimo Manfredi

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La bellezza del suo viso ci è stata tramandata dallo scultore Lisippo. Le sue imprese le ha raccontate la Storia: un impero sconfinato, dal Danubio all'Indo, difficile da immaginare, impossibile da credere. Ma chi era davvero Alessandro, il giovane re macedone che, nel IV secolo a.C. concepì il disegno della conquista del mondo intero, per poi morire, come Cristo, all'età di trentatré anni? Il figlio del sogno, primo capitolo di una saga esaltante e avvincente, ci narra di un uomo che fu considerato un dio, dei suoi sogni ardenti, delle passioni violente che lo consumarono fino a distruggerlo. E ci svela anche una Grecia mai vista, una civiltà che, pur nota, appare oggi sconosciuta e affascinante.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852016134

1

Olympias aveva voluto recarsi al santuario di Dodona per una strana ispirazione, per un presagio che l’aveva visitata nel sonno mentre dormiva accanto al marito, a Filippo, re dei macedoni, pieno di vino e di cibo.
Aveva sognato che un serpente strisciava lentamente lungo il corridoio e poi entrava silenzioso nella camera da letto. Lei lo vedeva ma non poteva muoversi, non poteva gridare né fuggire. Le spire del grande rettile scivolavano sul pavimento di pietra e le scaglie luccicavano con riflessi di rame e di bronzo, sotto i raggi della luna che penetravano dalla finestra.
Per un momento aveva desiderato che Filippo si destasse e la prendesse fra le braccia, la riscaldasse contro il petto muscoloso, l’accarezzasse con le sue grandi mani da guerriero, ma subito il suo sguardo era tornato a posarsi su quel drakon, su quell’animale portentoso che si muoveva come un fantasma, come una creatura magica, di quelle che gli dei suscitano a loro piacimento dalle viscere della terra.
Ora, stranamente, non le faceva più paura, non provava alcun ribrezzo, anzi si sentiva sempre più attratta e quasi affascinata da quelle movenze sinuose, da quella potenza aggraziata e silente.
Il serpe s’insinuò sotto le coperte, le scivolò fra le gambe e fra i seni e lei sentì che l’aveva presa, leggero e freddo, senza farle alcun male, senza violenza.
Sognò che il suo seme s’era mescolato a quello che il marito aveva già spinto dentro di lei con la forza di un toro, con la foga di un verro, prima di crollare vinto dal sonno e dal vino.
L’indomani il re aveva indossato l’armatura, aveva mangiato carne di cinghiale e formaggio di pecora assieme ai suoi generali ed era partito per la guerra. Una guerra contro un popolo più barbaro dei suoi macedoni: i triballi, che si vestivano di pelli d’orso, portavano berretti di volpe e vivevano lungo le rive dell’Istro, il più grande fiume d’Europa.
Le aveva detto soltanto: «Ricordati di offrire sacrifici agli dei per tutto il tempo che sarò assente e covami un figlio maschio, un erede che mi assomigli».
Poi era montato sul suo cavallo baio e s’era lanciato al galoppo con i suoi generali, facendo rintronare la corte sotto gli zoccoli dei destrieri, facendola echeggiare del fragore delle armi.
Dopo la sua partenza, Olympias fece un bagno caldo e, mentre le sue ancelle le massaggiavano la schiena con spugne imbevute di essenze di gelsomino e di rose di Pieria, mandò a chiamare Artemisia, la sua nutrice, una donna anziana di buona famiglia, dai seni enormi e dai fianchi stretti, che si era portata dall’Epiro quando era venuta per sposare Filippo.
Le raccontò il sogno e le chiese: «Mia buona Artemisia, che cosa significa?».
La nutrice la fece uscire dal bagno caldo e cominciò ad asciugarla con teli di lino egiziano.
«Bambina mia, i sogni sono sempre messaggi degli dei, ma pochi sanno interpretarli. Io penso che dovresti recarti nel più antico dei nostri santuari a consultare l’oracolo di Dodona, nella nostra patria, l’Epiro. Là i sacerdoti si tramandano da tempi immemorabili come leggere la voce del grande Zeus, il padre degli dei e degli uomini, che si manifesta quando il vento passa attraverso i rami delle querce millenarie del santuario, o quando fa sussurrare le loro foglie in primavera o in estate, o le agita secche attorno ai ceppi durante l’autunno o l’inverno.»
E così, pochi giorni dopo, Olympias si mise in viaggio alla volta del santuario eretto in un luogo di grandiosa imponenza, in una valle verdeggiante chiusa fra monti boscosi.
Di quel tempio si diceva che fosse fra i più antichi della terra: due colombe avevano preso il volo dalla mano di Zeus subito dopo che aveva conquistato il potere scacciando dal cielo il padre Crono. Una era andata a posarsi su una quercia di Dodona, l’altra su una palma dell’oasi di Siwa fra le sabbie ardenti della Libia. E in quei due luoghi, da allora, si poteva udire la voce del padre degli dei.
«Che cosa significa il sogno che ho fatto?» domandò Olympias ai sacerdoti del santuario.
Questi sedevano in cerchio su seggi di pietra, in mezzo a un prato verdissimo fiorito di margherite e ranuncoli, e ascoltavano il vento che agitava le foglie delle querce. Sembravano rapiti.
E uno di loro disse, alla fine: «Significa che il figlio che nascerà da te sarà stirpe di Zeus e di un uomo mortale. Significa che nel tuo grembo il sangue di un dio s’è mescolato al sangue di un uomo.
«Il figlio al quale darai la luce risplenderà di un’energia meravigliosa, ma come le fiamme che ardono di luce più intensa bruciano le pareti della lucerna e consumano più in fretta l’olio che le alimenta, la sua anima potrebbe bruciare il petto che la racchiude.
«Ricorda, regina, la storia di Achille, antenato della tua gloriosa famiglia: gli fu concesso di scegliere fra una vita breve ma gloriosa o lunga ma oscura. Scelse la prima: sacrificò la vita in cambio di un attimo di luce accecante.»
«È questo un destino segnato?» chiese Olympias trepidante.
«È un destino possibile» rispose un altro sacerdote. «Le strade che un uomo può percorrere sono molte, ma alcuni uomini nascono dotati di una forza diversa, che viene dagli dei e agli dei cerca di ritornare. Conserva questo segreto nel tuo cuore finché non verrà il momento in cui la natura di tuo figlio si manifesterà appieno. Allora sii pronta a tutto, anche a perderlo, perché qualunque cosa tu faccia non riuscirai a impedire che si compia il suo destino, che la sua fama si estenda sino ai confini del mondo.»
Non aveva ancora finito di parlare quando la brezza che soffiava tra le fronde delle querce si mutò quasi d’improvviso in un vento forte e caldo da meridione: in poco tempo raggiunse una tale forza da piegare le chiome delle piante e da costringere i sacerdoti a coprirsi il capo con i mantelli.
Il vento portò con sé una densa foschia rossiccia che oscurò tutta la valle, e anche Olympias si avvolse il mantello tutt’intorno al corpo e al capo e restò immobile in mezzo al vortice, come la statua di una divinità senza volto.
Il turbine passò così come era arrivato e, quando la foschia si fu diradata, le statue, le stele e gli altari che ornavano il luogo sacro apparvero coperti da un sottile strato di polvere rossa.
Il sacerdote che aveva parlato per ultimo la sfiorò con la punta del dito e l’accostò alle labbra. «Questa polvere l’ha portata il soffio del vento libico, alito di Zeus Amon che ha il suo oracolo fra le palme di Siwa. È un prodigio straordinario, un segno portentoso, perché i due più antichi oracoli della terra, separati da enormi distanze, hanno fatto sentire la loro voce nello stesso momento. Tuo figlio ha udito richiami che vengono da lontano e forse ne ha inteso il messaggio. Un giorno li udrà di nuovo all’interno di un grande santuario circondato dalle sabbie del deserto.»
Dopo aver ascoltato queste parole, la regina tornò a Pella, la capitale dalle vie polverose d’estate e fangose d’inverno, aspettando con timore e ansia il giorno in cui sarebbe nato suo figlio.
Le doglie la presero una sera di primavera, dopo che il sole era calato. Le donne accesero le lucerne e la sua nutrice, Artemisia, mandò a chiamare la levatrice e il medico Nicomaco, che già aveva avuto in cura il vecchio re Aminta e aveva presieduto alla nascita di non pochi rampolli reali, sia legittimi che bastardi.
Nicomaco si teneva pronto, sapendo che il tempo era maturo. Si cinse un grembiule, fece scaldare dell’acqua e fece portare altri candelieri perché non mancasse la luce.
Ma lasciò che la levatrice si accostasse per prima alla regina, perché una donna preferisce essere toccata da un’altra donna nel momento in cui mette al mondo suo figlio: solo una donna si rende conto del dolore e della solitudine in cui si genera una nuova vita.
Il re Filippo, in quel momento, era all’assedio della città di Potidea e per nulla al mondo avrebbe lasciato le linee di combattimento.
Fu un parto lungo e difficile perché Olympias aveva i fianchi stretti ed era di complessione delicata.
La nutrice le asciugava il sudore ripetendo: «Fatti forza, bambina: la vista di tuo figlio ti consolerà di tutto il male che devi patire in questo momento».
Le bagnava le labbra con acqua di fonte, che le ancelle cambiavano continuamente nella ciotola d’argento.
Ma quando il dolore crebbe ancora fin quasi a farle perdere i sensi, Nicomaco intervenne, guidò le mani della levatrice e comandò ad Artemisia di spingere sul ventre della regina perché lei non aveva più forza e il bambino soffriva.
Appoggiò l’orecchio sull’inguine di Olympias e poté udire il battito del piccolo cuore che rallentava.
«Spingi più forte che puoi» ordinò alla nutrice. «Il bambino deve nascere subito.»
Artemisia si appoggiò con tutto il suo peso sulla regina che, con un grido più forte, partorì.
Nicomaco legò il cordone ombelicale con un filo di lino, poi lo recise subito con le cesoie di bronzo e disinfettò la ferita con vino puro.
Il bambino si mise a piangere ed egli lo consegnò alle donne perché lo lavassero e lo vestissero. Fu Artemisia a vederlo in faccia per prima e ne restò estasiata.
«Non è una meraviglia?» chiese mentre gli passava sul viso un batuffolo di lana imbevuto d’olio.
La levatrice gli lavò la testa e quando l’asciugò non poté trattenere un moto di stupore. «Ha la chioma di un bambino di sei mesi e dei bei riflessi dorati. Sembra un piccolo Eros.»
Artemisia, intanto, lo vestiva con una minuscola tunica di lino perché Nicomaco non voleva che i bambini venissero fasciati stretti come era d’uso nella maggior parte delle famiglie.
«Di che colore ha gli occhi, secondo te?» domandò alla levatrice.
La donna avvicinò una lucerna e gli occhi del bambino si accesero di un riflesso iridescente. «Non so, è difficile dirlo. A tratti sembrano azzurri, a tratti scuri, quasi neri. Forse è la natura così diversa dei suoi genitori…»
Nicomaco intanto si occupava della regina che, come spesso succede alle primipare, sanguinava. Temendo che questo accadesse, aveva fatto raccogliere della neve sulle pendici del monte Bermio.
Ne fece degli impacchi e li applicò sul ventre di Olympias. La regina rabbrividì, spossata ed esausta com’era, ma il medico non si lasciò intenerire e continuò con gli impacchi gelati finché non vide cessare del tutto il sanguinamento.
Poi, mentre si toglieva il grembiule e si lavava le mani, l’affidò alle cure delle donne. Permise che le cambiassero le lenzuola, che le detergessero il sudore con spugne morbide imbevute d’acqua di rose, che le mettessero una camicia fresca, presa dalla sua cassapanca, e le dessero da bere.
Fu Nicomaco a presentarle il piccolo: «Ecco il figlio di Filippo, regina. Hai partorito un bambino bellissimo».
Infine uscì nel corridoio dove aspettava un cavaliere della guardia reale in tenuta da viaggio.
«Vai, corri dal re e digli che è nato suo figlio. Digli che è maschio, che è bello, sano e forte.»
Il cavaliere si gettò il mantello sulle spalle, si mise a tracolla la bisaccia e corse via. Prima che sparisse in fondo al corridoio, Nicomaco gli gridò dietro: «Digli anche che la regina sta bene».
L’uomo non si fermò neppure e poco dopo si udì un nitrito nella corte e poi un galoppo che si perse nelle vie della città addormentata.

2

Artemisia prese il bambino e lo mise sul letto accanto alla regina. Olympias si sollevò leggermente sui gomiti appoggiando la schiena ai cuscini e lo guardò.
Aveva labbra carnose e il viso roseo e delicato. I capelli, di un color castano chiaro, splendevano di riflessi dorati e proprio al centro della fronte aveva quella che le levatrici chiamavano “la leccata del vitello”: un ciuffetto di capelli sollevati e spartiti in due.
Gli occhi le parevano azzurri, ma l’occhio sinistro aveva sul fondo una specie di ombra cupa che lo faceva sembrare più scuro con il mutare della luce.
Olympias lo sollevò, lo strinse a sé e cominciò a cullarlo finché smise di piangere. Poi si denudò il seno per allattarlo, ma Artemisi...

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