Siamo convinti che le mamme e i papĂ sappiano tutto. Ma in realtĂ se lo inventano strada facendo. Ogni giorno improvvisano, si buttano, fanno buon viso a cattivo gioco (spesso per finta). Ă una cosa che ho sospettato per tutta lâinfanzia, eppure mi viene confermata solo da adulto, e solo con un poâ di aiuto dallâaldilĂ .
In una grigia sera dâautunno del 1977 sono andato a consultare una medium. Vive a Victoria, nel centro di Londra, dalle parti della zona malsana dietro Buckingham Palace, in un appartamento quasi in cima a un palazzone. Non Ăš la carovana degli zingari, ma immagino che lei si senta piĂč vicina al paradiso.
Non ho una predilezione particolare per gli spiriti (mi verrĂ molto piĂč tardi e sarĂ una dipendenza dallo spirito alcolico), perĂČ a mia moglie Andy non dispiacciono. Neanche mia madre Ăš del tutto aliena alla tavoletta Ouija. A casa nostra, ai margini occidentali della periferia londinese, mia madre, la nonna e la zia, insieme ai miei cosiddetti zii Reg e Len, tra gli anni Cinquanta e Sessanta passarono piĂč di unâallegra serata a evocare i cari estinti dallâaldilĂ . Di sicuro era meglio delle grame proposte in bianco e nero che sfarfallavano da quella televisione nuova e strana.
Il motivo per cui io e Andy andiamo a trovare questa Madame Arcati dei palazzoni Ăš un cane briccone. Ben, il nostro bel boxer, aveva lâabitudine di trascinare fuori da sotto il nostro letto una pila di coperte elettriche. Le teniamo da parte per i nostri figli, Joely di cinque anni e Simon di uno, per quando smetteranno di bagnare il letto e avranno bisogno di un poâ di calore in piĂč. Non mi Ăš passato per lâanticamera del cervello che le coperte elettriche promettono ben piĂč di un letto caldo: i fili piegati possono spezzarsi e prendere fuoco. Forse Ben lo sa.
Andy arriva alla conclusione che il rituale serale di Ben contenga elementi soprannaturali. Non che sia un veggente, ma di sicuro câĂš qualcosa che noi umani non sappiamo.
In quel periodo sono presissimo a fare concerti con i Genesis: abbiamo pubblicato il nostro album «Wind & Wuthering» e da poco ho ereditato il ruolo di cantante solista da Peter Gabriel. Sono spesso un padre e un marito assente, e pertanto mi sento sempre in difetto riguardo alle questioni domestiche e familiari. Quindi non oppongo alcuna resistenza a questa linea di condotta poco ortodossa.
E allora ecco che andiamo da una medium. Victoria brulica di gente; nellâascensore del palazzone suoniamo il campanello, parliamo del piĂč e del meno con il marito che sta guardando «Coronation Street». Non riesco a immaginarmi niente di meno spirituale. Finalmente lui si stacca dalla tv e mi fa un cenno: «Adesso puĂČ riceverla...».
Appollaiata dietro un tavolino, la medium Ăš una casalinga dallâaria banale. Nessun segno di doti soprannaturali. Anzi, ha un aspetto del tutto ordinario. Questo mi manda completamente nel pallone e in un certo senso mi delude, e ora il mio scetticismo si manifesta con un lampo di sconcerto e un pizzico di irritabilitĂ .
Dato che gli oracoli i-ching interrogati da Andy lâhanno informata che sono gli spiriti della mia famiglia a infastidire il cane, lâingrato compito di entrare nelle sale del soprannaturale tocca a me. A denti stretti racconto alla medium le imprese notturne di Ben. Lei annuisce con aria solenne, chiude gli occhi, lascia passare un intervallo di tempo significativo, infine risponde: «Si tratta di suo padre».
«Come ha detto?»
«SÏ, si tratta di suo padre che vuole che lei si prenda alcuni oggetti: il suo orologio, il suo portafoglio, la mazza da cricket di famiglia. Vuole che chieda al suo spirito di parlare tramite me? CosÏ potrebbe sentire la sua voce. Ma a volte gli spiriti non vogliono andarsene, allora la situazione diventa imbarazzante.»
Farfuglio un no. GiĂ la comunicazione con il mio defunto padre non era il massimo quando era in vita, parlargli adesso, quasi cinque anni dopo la sua morte nel Natale del 1972, tramite una casalinga di mezza etĂ in unâambientazione domestica incolore e sconcertante in un palazzone nel centro di Londra, sarebbe semplicemente strambo.
«Beâ, dice di portare dei fiori a sua madre, e di dirle che gli dispiace.»
Naturalmente, dato che ero un ventiseienne piuttosto razionale a cui piacevano le cose concrete e irreggimentate (del resto faccio il batterista) avrei dovuto liquidare il tutto come frottole da ciarlatani. Ma concordo che potrebbe esserci del soprannaturale nel fatto che il nostro cane si ostina a trascinare fuori le coperte elettriche da sotto il letto. E per giunta Madame Arcati ha detto delle cose su mio padre che non poteva sapere, soprattutto quella sulla mazza da cricket. Quella mazza da cricket ha fatto parte delle scarse attrezzature sportive del clan Collins da sempre. Al di fuori della famiglia nessuno ne conosceva lâesistenza. Non dirĂČ che ero convinto, ma sicuramente incuriosito. Io e Andy ci congediamo dallâanticamera dellâaldilĂ e rientriamo nel mondo reale. Tornati sulla terraferma, le racconto le novitĂ . La sua reazione Ăš uno sguardo chiaro tanto per i vivi quanto per i morti: «Te lâavevo detto».
Il giorno dopo telefono a mia madre e le riferisco gli accadimenti della sera prima. à una donna di indole allegra, e non la sorprendono né il mezzo né il messaggio. «Scommetto che vuole farmi avere dei fiori» dice, mezzo ridendo e mezzo schiarendosi la gola. A quel punto lei vuota il sacco. Mio padre, Greville Philip Austin Collins, non Ú stato un marito fedele per mia madre, June Winifred Strange in Collins. Era stato assunto a diciannove anni dalla London Assurance Company nella City di Londra, come suo padre, e ci aveva lavorato per tutta la vita. E «Grev» aveva usato la sua esistenza quotidiana di pendolare con la bombetta dalle nove alle cinque per mantenere una doppia vita con una ragazza del suo ufficio.
PapĂ non era un donnaiolo o uno smaccato rubacuori. Era un poâ tracagnotto, e i baffoni da aviatore non compensavano molto i capelli radi. Evidentemente ho preso la mia bellezza dalla mamma.
Ma, a quanto pare, dietro lâapparenza dellâassicuratore cortese si nascondeva unâindole da libertino. La mamma mi racconta un episodio specifico. Alma Cole era una signora adorabile che lavorava con lei nel negozio di giocattoli che gestiva per conto di amici di famiglia. Alma era del Nord dellâInghilterra e quando parlava aveva sempre un tono cospiratorio.
Lei e mia madre erano amiche, e un giorno Alma, un poâ scocciata, si lamentĂČ: «Sabato ti ho vista in macchina con Grev e non mi hai nemmeno salutata». «Mai stata in macchina con lui sabato!» Evidentemente la passeggera era lâamichetta di mio padre, che lui stava portando a fare una gita romantica sulla nostra Austin A35.
Ora, quasi cinque anni dopo la morte di papà , anche se trovo fantastico che mia madre si stia confidando cosÏ con me, sentire quelle rivelazioni mi rattrista e mi fa infuriare al tempo stesso. Ora so che il matrimonio dei miei non si Ú sciolto ma si Ú ammosciato, in parte perché mio padre era, per cosÏ dire, occupato altrove. La sua infedeltà per me era una cosa del tutto nuova.
E non poteva essere altrimenti: quando Ăš successo ero ragazzino, e a me i miei genitori erano sempre sembrati felicissimi. La vita a casa nostra mi appariva calma e normale. Semplice, diretta. Nella mia testa, mamma e papĂ erano stati felici e innamorati per tutta la durata della loro lunga vita matrimoniale.
PerĂČ io sono il piccolino di casa, ho quasi sette anni meno di mia sorella Carole e nove meno di mio fratello Clive. Probabilmente alcuni aspetti adulti della vita familiare mi sono passati sopra la testa. Ora, considerando i fatti che avevo davanti quella sera del 1977, credo di riuscire a intuire una corrente sotterranea di agitazione in casa, qualcosa che allâepoca mi era completamente sfuggito. Ma forse la corrente era quella nelle mie lenzuola: ho bagnato il letto tutte le notti fino a unâetĂ imbarazzante.
In seguito, quando riferisco quella notizia sconvolgente a Clive, lui mi dice le cose chiare e tonde. Mi ricordavo tutte quelle lunghe passeggiate che i miei fratelli improvvisamente mi portavano a fare? Quei giri pigri e confusi tra i prefabbricati del dopoguerra di Hounslow Heath con mio fratello e mia sorella? Non erano lâallegra normalitĂ di una semplice infanzia inglese di periferia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In realtĂ , ero il complice ignaro di un mascheramento delle magagne familiari.
Fatico ancora a fare i conti con il fatto che mio padre si sia comportato con leggerezza quanto ai suoi voti nuziali. La sua mancanza di rispetto per i sentimenti di mia madre va al di là della mia capacità di comprensione. E prima che qualcuno alzi la mano e dica: «Hai una bella faccia tosta a rinfacciargli una cosa del genere, Collins», lasciatemelo mettere per iscritto: capisco, ma...
Sono molto deluso dal fatto di essermi sposato tre volte. Sono ancora piĂč deluso per avere divorziato tre volte. Mi infastidisce molto meno che gli accordi con le mie ex mogli raggiungano una cifra vicina ai quarantadue milioni di sterline. E nemmeno mi secca che di quelle somme si sia parlato dappertutto. Di questi tempi non câĂš piĂč niente di privato. Ci ha pensato Internet. Inoltre, anche se i miei tre divorzi potrebbero suggerire un atteggiamento facilone nei confronti dellâidea di matrimonio in quanto tale, ciĂČ non potrebbe essere piĂč lontano dalla realtĂ . Sono un romantico che crede e spera che lâunione matrimoniale sia qualcosa da far durare e da curare amorevolmente.
Tuttavia, quel terzetto di divorzi dimostra con certezza la mia incapacitĂ di convivere felicemente con le mie compagne e di capirle. Suggerisce che io non sia stato in grado di creare una famiglia e di rimanerci dentro. Dimostra un fallimento, punto e basta. Nel corso dei decenni ho fatto del mio meglio per far marciare alla perfezione ogni aspetto della mia vita, personale e professionale; anche se spesso, devo ammetterlo, il meglio non Ăš bastato.
Eppure so bene che cosâĂš la normalitĂ , ce lâho nel DNA: ci sono cresciuto, o almeno con un suo simulacro, lĂŹ nelle periferie di Londra; ho lottato per ottenerla mentre cercavo di guadagnarmi da vivere facendo musica.
Mi sono sforzato di essere sincero sulla mia storia personale con tutti i miei figli. Li riguarda. Li condiziona. Vivono ogni giorno della loro vita con le conseguenze delle mie azioni, inazioni e reazioni. Cerco di essere il piĂč possibile franco e schietto. E lo stesso farĂČ in tutta questa storia, persino nei punti in cui non appaio esattamente candido come un giglio. In quanto batterista, sono abituato a picchiare forte. Ma ho dovuto abituarmi anche a prenderle.
E comunque, per tornare a mia madre: il suo stoicismo, la sua forza e il suo senso dellâumorismo davanti alle deviazioni di mio padre (uso questa parola di proposito) la dicono lunga su quelli della generazione della guerra, che usavano tutta la tenacia possibile per mantenere i propri impegni coniugali. Ă qualcosa da cui abbiamo tutti molto da imparare, compreso il sottoscritto.
Detto questo, quando considero la mia infanzia dalla posizione privilegiata dellâetĂ avanzata, forse lo sconvolgimento e il turbamento emotivi, di quelli che lasciano il segno, erano filtrati nella mia giovane psiche senza che me ne accorgessi.
Sono nato al Putney Maternity Hospital, nel Sudovest di Londra, il 30 gennaio 1951, terzo figlio tardivo (e del tutto inatteso) di June e Grev Collins. A quanto pare, allâinizio la mamma era andata a partorirmi al West Middlesex Hospital, ma «non mi hanno trattata bene», cosĂŹ aveva incrociato forte le gambe e se nâera andata al Putney.
Ero il primo figlio nato a Londra, dato che Carole e Clive erano nati a Weston-super-Mare dopo che tutta la famiglia era stata sfollata lĂŹ dalla London Assurance prima del Blitz. Mia sorella Carole non era felicissima della mia nascita: avrebbe preferito una sorellina. Clive, invece, era al settimo cielo: finalmente un fratellino con cui giocare a calcio, fare la lotta e, quando si annoiava di quello, da torturare con i propri calzini puzzolenti.
Avendo mia madre e mio padre rispettivamente trentasette e quarantacinque anni, il mio arrivo, per quellâepoca, faceva di loro dei genitori attempati. Ma per mia madre non era affatto un problema. Per tutta la vita fu una donna generosa e affettuosa, con una parola buona per tutti, fino alla sua morte a novantotto anni nel 2011, il giorno del suo compleanno. PerĂČ una volta diede del «testa di cazzo» a un poliziotto londinese che lâaveva ripresa perchĂ© guidava nella corsia degli autobus.
PapĂ , nato nel 1907, veniva dal quartiere allora alla moda di Isleworth, lungo il fiume, ai confini occidentali di Londra. La casa della sua famiglia era grande, buia, muffosa, piuttosto imponente, e terrificante. I suoi parenti, idem. Non ho ricordi di mio nonno, un esperto dipendente della London Assurance come sarebbe presto diventato il figlio. Ma ho ricordi molto vividi della nonna. Era affettuosa con me, mi abbracciava e aveva molta pazienza, ma sembrava rimasta allâepoca vittoriana, e come per dimostrarlo indossava sempre abiti lunghi e neri. Forse anche lei portava ancora il lutto per il principe Alberto.
Io e la mamma ci volevamo molto bene. Passavo tanto tempo nel suo umido seminterrato, a guardarla dipingere acquerelli di barche sul fiume, una passione che mi ha trasmesso.
La zia Joey, la sorella di papĂ , era una donna che incuteva soggezione, armata di sigaretta con bocchino e voce roca, un poâ come la cattiva delle Avventure di Bianca e Bernie. «Tesoooro, entra pure...» Anche suo marito, lo zio Johnny, era una sagoma. Portava il monocolo e indossava sempre completi di tweed pesante, un altro Collins del paese dimenticato dal ventesimo secolo.
Secondo la storia di famiglia, un paio di cugini di mio padre erano stati reclusi dai giapponesi nella famigerata prigione di Changi a Singapore. Erano molto stimati: erano eroi di guerra, sopravvissuti alle spietate campagne nellâEstremo Oriente. A quanto pareva, un altro cugino era il tizio che aveva introdotto per primo le lavanderie a gettoni in Inghilterra. Agli occhi della famiglia di papĂ erano tutti «qualcuno», in un modo o nellâaltro. O, in altre parole, dei veri signori. Si diceva che H.G. Wells facesse regolarmente visita ai Collins.
Chiaramente la famiglia di papĂ diede forma al suo atteggiamento, per non parlare della sua vita lavorativa, anche se, dopo la sua morte, scoprii che aveva provato a evitare lâarruolamento nella London Assurance: impiegandosi su un mercantile. Ma la sua ribellione oceanica ebbe breve durata e cosĂŹ gli ordinarono di tirarsi su e mettersi in riga sotto il giogo da venditore di polizze assicurative imposto dal padre. Il conformismo era allâordine del giorno. Sapendo questo, si potrebbe ipotizzare che papĂ fosse un poâ geloso della libertĂ offerta dagli anni Sessanta a Clive, Carole e me nei campi di cui scegliemmo di occuparci: fumettista, pattinatrice su ghiaccio, musicista. Dei lavori seri? Non secondo mio padre.
Non esistono prove che Grev Collins si sia mai abituato al ventesimo secolo. Quando entrĂČ in esercizio il gas del mare del Nord e tutte le caldaie inglesi furono convertite, mio padre cercĂČ di corrompere lâazienda del gas perchĂ© ci escludesse dalle conversioni, convinto che da qualche parte esistesse un gasometro che poteva fornire carburante in esclusiva alla famiglia Collins.
Per qualche motivo a papà piaceva lavare i piatti, e dopo il pranzo domenicale insisteva per farlo. Andava tutto bene finché in cucina non si sentiva uno schianto. Tutti si zittivano, e la mamma andava verso la portafinestra e tirava le tende. Pochi attimi dopo lo schianto si sentiva papà che imprecava, e poi il rumore di stoviglie spazzate in un recipiente. Poi la porta sul retro si spalancava e papà buttava rumorosamente le stoviglie in giardino, e le prendeva a calci, imprecando ancora ad alta voce.
«Vostro padre sta uccidendo i piatti» spiegava stancamente mia madre a noi figli c...