Letto di ossa
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Letto di ossa

Patricia Cornwell

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  1. 280 Seiten
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Letto di ossa

Patricia Cornwell

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Über dieses Buch

Alberta, Canada. Quando Emma Shubert, una famosa paleontologa, sparisce durante gli scavi in un cimitero di dinosauri, l'unico indizio utile per ritrovarla viene spedito dall'aeroporto di Boston alla casella di posta elettronica di Kay Scarpetta, direttrice del Cambridge Forensic Center, a più di tremila chilometri di distanza. Il giorno seguente nella baia di Boston viene ripescato il cadavere mummificato di una donna di mezza età insieme a una rara specie di tartaruga marina, rimasta impigliata nella rete. Coinvolta nel caso, mentre le indagini partono a ritmo incalzante, Kay comincia a sospettare da alcuni particolari che la scomparsa della paleontologa sia collegata non solo a questo evento, ma anche ad altri verificatisi molto più vicino a casa. La moglie di un imprenditore accusato di aver assoldato un killer per ucciderla è svanita nel nulla qualche mese prima dalla sua villa sull'oceano a Gloucester e una cinquantenne dal tragico passato, che vive da sola a Cambridge con la sua gatta, da tempo non dà più notizie di sé. Qual è la connessione tra questi fatti? Cosa si nasconde dietro a tutto ciò? E di chi si può fidare Kay Scarpetta per risolvere un caso così intricato? I suoi più stretti collaboratori hanno con lei un atteggiamento sfuggente: il marito Benton Wesley, l'investigatore capo Pete Marino e la nipote Lucy le nascondono forse qualcosa? Sentendosi tradita e abbandonata, questa volta Kay teme di essere davvero sola ad affrontare un nemico scaltro e pericoloso che sembra impossibile da sconfiggere. Letto di ossa è il ventesimo romanzo della serie incentrata sullo straordinario personaggio di Kay Scarpetta. Imperdibile per tutti i fan di Patricia Cornwell, è anche un ideale punto di partenza per chi voglia iniziare a seguire le appassionanti vicende dell'anatomopatologa più famosa del mondo.

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Information

Verlag
Mondadori
Jahr
2013
ISBN
9788852035616

1

Controllo l’ora sul mio megaorologio in titanio con cinturino in gomma e prendo il caffè, nero e senza dolcificante. Sento passi distanti nel corridoio dell’edificio a forma di proiettile in cui lavoro, al margine orientale del campus del Massachusetts Institute of Technology. È il quarto lunedì di ottobre e il sole non è ancora spuntato.
Sette piani sotto il mio ufficio in cima al palazzo, il traffico lungo Memorial Drive è intenso: in questa zona di Cambridge l’ora di punta comincia prima dell’alba, con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione. I fari si muovono lungo gli argini del fiume Charles, appena increspato, come occhi di insetti luccicanti. Oltre lo Harvard Bridge la città di Boston è una barriera scintillante che separa gli imperi terreni della finanza e delle università dal porto e dalla Massachusetts Bay.
A quest’ora il personale non è ancora arrivato, ma forse i passi che ho sentito sono di uno degli investigatori. Non capisco perché Toby, Sherry o chiunque sia di turno dovrebbe essere a questo piano, però.
In realtà non ho idea di chi abbia preso servizio a mezzanotte. Cerco di farmi venire in mente quali macchine ho visto nel parcheggio quando sono arrivata, un’oretta fa. I soliti SUV e furgoni bianchi e una delle nostre unità mobili per l’analisi delle prove materiali, mi pare. Non ho fatto caso a chi altro ci fosse. Ero troppo occupata a consultare il mio iPhone, con segnali acustici e messaggi a ricordarmi gli appuntamenti e le videochiamate in programma per la giornata. Oggi pomeriggio ho un’udienza in tribunale. Mi innervosisce non rendermi conto di quello che ho intorno perché sono troppo occupata a fare dell’altro.
Dovrei prestare più attenzione a ciò che mi circonda, mi rimprovero, ma non posso preoccuparmi di chi è di turno. È ridicolo che io debba pensare a queste cose. Frustrata, rifletto che a quanto pare il capo del reparto investigativo, Pete Marino, da qualche tempo a questa parte non si premura più di aggiornare il calendario elettronico. Eppure non ci vuole molto a spostare i nomi da una data all’altra, in maniera che io sappia sempre chi è in servizio. È da un po’ che Marino non lo fa più. Se ne sta parecchio per conto suo, ultimamente. Dovrei invitarlo a cena, preparargli qualcosa di buono e chiedergli come sta. Il solo pensiero mi fa venire il nervoso. Sono poco paziente in questo momento.
“Uno sconosciuto mentalmente disturbato. O forse sarebbe più corretto dire ‘malvagio’.”
Tendo le orecchie per cercare di capire chi c’è nel corridoio, ma non sento più nessuno mentre faccio ricerche in Internet, clicco su diversi file e mi arrovello sempre sugli stessi particolari, finché mi rendo conto di quanto mi senta sconfitta e di come questo mi faccia arrabbiare.
“Hai sortito l’effetto desiderato, almeno stavolta.”
Non esiste nulla di abbastanza macabro o raccapricciante da impressionarmi, avendone viste di tutti i colori in vita mia, ma ieri pomeriggio sono stata colta alla sprovvista. Stavo passando una domenica tranquilla a casa con mio marito Benton, avevo musica in sottofondo e il MacBook aperto sul bancone della cucina nel caso fosse successo qualcosa che era meglio sapessi subito. Ero rilassata e intenta a preparare uno dei piatti preferiti di mio marito, il risotto con gli spinaci come lo fanno a Sondrio, sorseggiando un Geheimrat J Riesling che mi ricordava Vienna e il motivo del nostro recente viaggio nella capitale austriaca.
Ero assorta a pensare a persone a cui voglio bene, mentre cucinavo una buona cenetta e bevevo buon vino, quando mi è arrivata un’e-mail con allegato un file video. Erano esattamente le diciotto e trenta, ora della costa orientale. Il mittente mi era sconosciuto: [email protected]. Non c’era messaggio e l’oggetto era: C.A. DOTT.SSA KAY SCARPETTA, DIRETTRICE CFC, tutto maiuscolo, grassetto, font Eurostile.
All’inizio sono rimasta semplicemente stupita dai diciotto secondi di video muto, clip copiate e incollate di una gita in barca in una parte del mondo che non ho riconosciuto. Mi sembrava un video abbastanza innocente e non mi ha detto niente la prima volta che l’ho visto. Ho pensato che me lo avessero mandato per sbaglio. Poi, però, a un certo punto il filmato finiva e appariva un’immagine volutamente scioccante, in formato JPEG.
Lancio un’altra ricerca nel cyberspazio senza riuscire a trovare niente di utile a proposito del pachirinosauro, un dinosauro erbivoro con uno spesso rigonfiamento sul muso, di forma arrotondata, e un collare osseo dotato di corna, che probabilmente gli servivano nei combattimenti con altri animali. Un bestione dall’aspetto alquanto singolare, simile a un rinoceronte, con le gambe corte e un muso grottesco, che pesava due tonnellate. Guardo il disegno e penso che mi sarebbe difficile amare un rettile con quella faccia, eppure Emma Shubert, quarantotto anni, paleontologa, amava i pachirinosauri e adesso le è stato tagliato un orecchio oppure è morta, se non tutti e due.
L’e-mail anonima è arrivata qui all’indirizzo del CFC, il Cambridge Forensic Center che io dirigo. Probabilmente lo scopo è intimidatorio: qualcuno vuole farmi paura. Penso a una barca a idrogetto che sfiora veloce un fiume migliaia di chilometri a nordovest da qui, in quella che sembra una zona sperduta del mondo. Osservo la sagoma sottoesposta, simile a un fantasma, seduta sullo sfondo, probabilmente su una panca, rivolta verso la persona che sta girando il video.
“Chi sei?”
Poi guardo la ripida parete rocciosa, che adesso so essere il letto di ossa del Wapiti, un cimitero di dinosauri. Quindi appare un’immagine JPEG, violenta e crudele.

2

È un orecchio umano, tranciato, ben definito e delicato, senza peli sulla cartilagine curva.
Un orecchio destro. Carnagione chiara, probabilmente di un bianco. Probabilmente di una donna, di sicuro non di un maschio adulto o di un bambino, ma non posso escludere che appartenga a un adolescente, maschio o femmina.
Il lobo presenta un buco al centro e il giornale sporco di sangue su cui l’orecchio è stato fotografato è facilmente identificabile: è il “Grande Prairie Daily Herald-Tribune”, il quotidiano locale della regione in cui Emma Shubert lavorava l’estate scorsa, nel Nordovest del Canada. Non riesco a vedere la data, solo il frammento di un articolo riguardante un parassita dei pini di montagna responsabile della distruzione di molti alberi.
“Che cosa vuoi da me?”
In quanto membro dell’AFME, l’Istituto di medicina legale delle Forze armate, faccio capo al dipartimento della Difesa e, se ciò allarga la mia giurisdizione a livello federale, di certo questa non arriva a comprendere il Canada. Se Emma Shubert è stata assassinata, non sta a me seguire il caso, a meno che il suo cadavere non giunga qui, a migliaia di chilometri a sudest da dove è scomparsa.
Chi è stato a inviarmi questo file e cosa ha intenzione di farmi fare? Forse quello che ho fatto dalle sei e mezzo di ieri pomeriggio.
“Avvertire le forze dell’ordine, preoccuparmi, sentirmi impotente e piena di collera” mi dico.
Sento scattare la serratura biometrica del laboratorio informatico forense, vicino al mio ufficio. I passi che ho sentito non erano di Toby né di qualche altro investigatore, bensì di mia nipote Lucy. Ciò mi sorprende e mi fa piacere perché ero convinta che non venisse al CFC stamattina. Credevo fosse in volo per New York, o forse un’altra destinazione, non lo so più. È molto occupata in questi ultimi tempi: sta mettendo a posto quella che definisce la sua “casa di campagna”, una proprietà piuttosto estesa che ha comprato a Lincoln, a nordovest di qui. E poi va e viene dal Texas per prendere l’abilitazione per l’elicottero bimotore che ha acquistato. Dice che ha problemi per i quali io non posso fare niente e mi tiene dei segreti. L’ha sempre fatto, e io immancabilmente me ne accorgo.
“Sei tu? Caffè?” le scrivo per SMS.
La vedo comparire sulla soglia, snella e in forma perfetta. Ha una maglietta nera abbastanza aderente, un paio di calzoni neri di seta, con le tasche laterali, e scarpe da ginnastica di pelle, anch’esse nere. Vedo le vene gonfie sugli avambracci muscolosi e sui polsi. Ha i capelli con i colpi di sole biondo-rossicci ancora bagnati, dopo la doccia. Ho l’impressione che sia appena uscita dalla palestra e che sia diretta a un appuntamento con qualcuno di cui non so niente, anche se non sono nemmeno le sette del mattino.
«Buongiorno.» Mi ero scordata quanto piacere mi fa stare con lei. «Credevo fossi in volo.»
«Sei arrivata presto.»
«Ho un sacco di esami istologici arretrati da fare e probabilmente non riuscirò a finirli neanche oggi» le rispondo. «E nel pomeriggio ho un’udienza in tribunale. Devo testimoniare al processo Mildred Lott. Una pagliacciata: mi hanno convocato solo per far scena.»
«Non ti illudere.» Lucy sembra preoccupata.
«Lo so, potrebbero mettermi in imbarazzo. Anzi, me lo aspetto.» La guardo, incuriosita.
«Vai con qualcuno, mi raccomando. Con Pete Marino, magari.» Si è fermata al centro della stanza con la moquette grigio canna di fucile e guarda in su, verso la cupola geodetica di cristallo.
«Eri tu che giravi per il corridoio poco fa?» domando. «Stavo cominciando a temere che si fosse introdotto un estraneo.» È il mio modo per chiederle come mai è qui.
«No, non ero io» risponde. «Sono appena arrivata. Dovevo controllare una cosa.»
«Non so chi altro ci sia, a quest’ora, in servizio» aggiungo. «Se non eri tu, chi era? Chiunque sia di turno non dovrebbe trovarsi a questo piano.»
«Sarà Marino. A quest’ora… Mi stupisco che tu non abbia notato il suo mezzo succhiabenzina nel parcheggio.»
“Senti chi parla” penso, ma non glielo dico. Mia nipote non guida niente che abbia meno di cinquecento cavalli, in genere V12, preferibilmente di fabbricazione italiana, anche se l’ultimo acquisto che ha fatto è inglese. O almeno mi pare, ma potrei sbagliarmi. Le auto potenti non sono il mio forte. Non sono abbastanza ricca per potermele permettere e, anche se lo fossi, non spenderei i miei soldi in Ferrari ed elicotteri.
«Cosa ci fa Marino qui a quest’ora?» chiedo.
«Ha mandato a casa Toby ed è restato lui, ieri sera.»
«Come sarebbe? È tornato dalla Florida ieri sera! Perché ha deciso di fare il turno di notte? Non fa i turni, lui.» Non ha senso.
«Meno male che non è successo niente di così grave da richiedere la nostra presenza sulla scena di un crimine, perché secondo me ha dormito tutta la notte. Oppure è stato su Twitter. Non va mica bene. Soprattutto fuori orario, quando gli si allentano i freni inibitori.»
«Non capisco.»
«Ti ha detto che si è portato un materasso gonfiabile in ufficio?» mi chiede Lucy.
«Non sono permessi. Chi è di turno non può dormire. Da quando in qua Marino fa i turni?» insisto.
«Da quando non va più d’accordo con la sua donna. Com’è che si chiama?»
«Chi?»
«O si dedica alle decorazioni mignon ed evita di guidare.»
Non so di cosa stia parlando.
«Succede sempre più spesso, purtroppo.» Lucy mi guarda negli occhi. «Come si chiama quella che ha conosciuto su Twitter e a cui ha dovuto dare l’unfollow in più di un modo? Quella che gli ha fatto fare delle figure meschine.»
«Cosa sono le “decorazioni mignon”?»
«Decorazioni fatte con bottiglie mignon di liquori, che prima si beve. Io non ti ho detto niente.»
Ripenso all’11 luglio, compleanno di Marino, che non è mai stato un giorno di festa per lui e lo è sempre meno col passare degli anni.
«Dovresti chiederlo a lui, zia Kay» dice Lucy.
Mi viene in mente quando siamo andati a trovare Marino nella sua nuova casa, nella zona ovest di Cambridge.
Una casa di legno con un giardino minuscolo, caminetti funzionanti e pavimenti “di vero parquet”, come dice lui vantandosi. Nel seminterrato ha installato una sauna e un laboratorio e ha messo un punching-ball per darsi delle arie. Quando sono arrivata, con una quiche di asparagi e un salame di cioccolato bianco, l’ho trovato in cima a una scala, intento ad appendere una fila di teschietti di vetro che si accendevano e si spegnevano. Mignon di vodka Crystal Head, che ordina direttamente dalla distilleria per le sue “creazioni”, mi ha spiegato, ancor prima che io gli facessi domande. Ho dato per scontato che li avesse comprati vuoti e all’ingrosso. “Mi preparo per Halloween” mi ha detto, tutto ...

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