Imprevedibili sprazzi di paternità
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Imprevedibili sprazzi di paternità

Michael Chabon

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Imprevedibili sprazzi di paternità

Michael Chabon

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L'anno prima di pubblicare il suo romanzo d'esordio, il futuro premio Pulitzer Michael Chabon si ritrova a parlare, a una festa, con uno scrittore affermato, che gli somministra senza mezzi termini un consiglio non richiesto: "Non fare figli" dice. "Ecco quanto. Non ne fare. È tutta qui la legge della vita." A vent'anni di distanza, dopo quattro figli fatti e numerosi libri pubblicati, è a questo scambio di battute che Chabon affida l'apertura della raccolta che avete in mano, pensata per essere una meditazione estrosa ed elegante - niente di meno rispetto a quanto ci ha abituati il suo sguardo obliquo e sempre centratissimo - su cosa significhi essere genitori oggi. C'è, in questa sottile e impagabile collezione di pensieri, che prende spunto da episodi autobiografici, un tentativo sincero e meditato di mettersi in ascolto dei propri figli, di guardarli e capire quale sia il limite dell'intervento, delle parole da usare, della libertà da dare. Che poi, forse, è proprio lo stesso atteggiamento dello scrittore davanti a una nuova storia.

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Ometto

Con mezz’ora di ritardo, e precedendo il suo custode – era sempre un passo avanti al suo vecchio e pesante custode – Abraham Chabon entrò placido nella stanza in cui lo stilista Virgil Abloh stava presentando in anteprima la collezione di Off-White per la primavera/estate 2017 a un gruppetto di giornalisti, direttori di riviste e responsabili degli acquisti. Abe aveva un fare impacciato, le guance arrossate, ma i suoi movimenti, per quanto un po’ tesi, avevano una grazia innegabile. «Placido» era davvero l’unico termine possibile.
«Ecco, lui, proprio di questo parlavo» disse Abloh, sorridendo a Abe dal centro della stanza, la soffitta di un vecchio studio fotografico nel Quartiere Latino: un reticolo di travi d’acciaio e grandi assi di pino a terra, ogni superficie imbiancata a calce tranne le griglie oblique dei lucernari sul tetto spiovente. Dalle sedie pieghevoli di fronte alle finestre dell’atelier, direttori e acquirenti si voltarono per vedere di cosa parlasse Abloh. Così fecero i quattro modelli allineati, in varie posture cadenti, davanti al pubblico sulle sedie pieghevoli. Quando il suo custode lo raggiunse, Abe sembrava già avere addosso tutti gli sguardi dei presenti. La gente svelta non fa mai entrate in grande stile.
«Vieni qui da me» disse Abloh. Era un omone, ben piazzato, di formazione architetto, che nei primi anni Duemila era sbucato dall’effervescente nube intellettuale – fatta per un terzo di hip-hop, un terzo di faccia tosta e un terzo di burla astuta alla Malcolm McLaren – che circondava Kanye West, come lui di Chicago. Abloh si era fatto un nome nella moda nelle frange avanguardiste dello streetwear, serigrafando strisce pedonali oblique e motti criptici su magliette Champion tinta unita e sulle Rugby Ralph Lauren di flanella, queste ultime fondi di magazzino poi rivendute a multipli esorbitanti dei loro prezzi al dettaglio originari. Abe trovava che Virgil Abloh fosse «da paura», il riconoscimento più alto che poteva concedere a qualcuno o a qualcosa.
«Vieni, vieni qui. Ma guarda come stai!»
Abe fece come gli veniva detto, con le maniche rimboccate, le mani ficcate nelle tasche, i lembi della camicia grigioverde pallido appena infilati nei pantaloni spigati grigi. Sul davanti la camicia gli cadeva giusta, ma era un po’ troppo ampia e sul dietro gli si gonfiava sopra il bordo del cinturino nero. Era una Maison Margiela, un taglio impeccabile, con il colletto stretto e i bottoni rivestiti che le davano un’eleganza minimal. Abe l’aveva comprata il giorno prima, in saldo, da Tom Greyhound, un negozio del Marais. Portava un paio di Adidas Raf Simons argento da 400 dollari, comprate a 250 su adidasx.com, e un paio di calzini da atletica di Off-White. Se li era tirati su fino alle ginocchia, dove incontravano i risvolti dei pantaloni, da strillone d’inizio secolo. Si era guadagnato i soldi per comprare le «Raf» rastrellando le foglie dai vicini, riordinando i cassetti e gli armadi di casa, facendo commissioni e altri lavoretti. I suoi genitori gli avevano regalato, in occasione del suo bar mitzvah, i soldi che aveva usato per comprare la camicia di Margiela, e i pantaloni venivano proprio dal completo Appaman che aveva indossato al bar mitzvah. Abe aveva tredici anni e tre mesi, e non aveva bisogno di farsi dire come stava da Virgil Abloh né da nessuno. Lo sapeva benissimo da sé.
«Ciao» disse Abe a Abloh con la sua voce ruvida – bassa e roca, da sempre, ancora più grave in quel momento e che a volte, in maniera imprevedibile, si incrinava. «Sono Abe.»
Alcuni dei presenti già conoscevano Abe – nome che spesso veniva pronunciato Ah-, come il cognome del primo ministro giapponese, dagli addetti francesi che avevano inserito il suo nominativo nelle liste degli invitati alle quattordici sfilate a cui doveva partecipare nel corso della Settimana parigina della moda uomo. Lo avevano incontrato o visto in giro. Era quasi sempre, e di gran lunga, il più giovane tra il pubblico, e forse sarebbe bastato quello a renderlo più unico che raro, pure se non si fosse vestito con una premura e una studiata disinvoltura tanto evidenti. Ma erano i suoi abiti e il modo in cui li portava a richiamare l’attenzione dei giornalisti, e alcuni si erano interessati abbastanza da intervistarlo in via ufficiale. Le domande erano all’incirca sempre le stesse: cosa gliene pareva di questa o di quest’altra collezione? Cosa lo aveva spinto a interessarsi alla moda? Sognava di fare lo stilista, un domani? Come mai era venuto alla Settimana della moda?
Sono qui con il mio papà, come regalo di bar mitzvah, lui è uno scrittore e sta scrivendo un articolo sul nostro giro alla Settimana della moda per «GQ». Nella moda so che voglio fare qualcosa, ma non so cosa, forse disegnare; ogni tanto faccio qualche schizzo, quasi sempre di streetwear, mi piace usare tessuti e stampe che uno non si aspetta, tipo, che ne so, un motivo giapponese per un bomber, o un principe di Galles per una salopette. A farmi interessare alla moda è stato mio fratello più grande, è iniziato tutto con le sneaker e poi da lì la cosa è cresciuta, e adesso di moda uomo ne capisco più di lui. La collezione mi è sembrata interessante, oppure Mi è sembrata strepitosa, oppure Mi è sembrata un po’ noiosa, insomma, non brillava, questa settimana abbiamo già visto un sacco di trench, oppure La qualità sartoriale non mi sembrava il massimo, oppure Era pazzesca, oppure Era una bomba, oppure Era da paura.
Il suo custode notò che, quando parlava con i giornalisti, Abe trovava sempre il modo di citare le foglie rastrellate e i cassetti riordinati, consapevole dell’atmosfera di privilegio e lusso che permeava il mondo della moda. Sapeva che per molti ragazzini della sua età – ;compresi alcuni suoi cari amici – comprarsi un paio di sneaker «bomba» richiedeva un sacrificio più grande e più importante di quanto non lo fosse per lui e la sua famiglia. Ma non affrontava mai direttamente i risvolti etici dell’indossare una camicia che gli era costata 225 dollari in saldo. Non si avventurava in approfondite analisi economiche o sul senso dello stile come un Roland Barthes in miniatura traboccante di acume critico e paradossi.
Abe era soltanto un ragazzino che amava i vestiti. Amava parlarne, guardarli e indossarli, e in fatto di abbigliamento da uomo, specialmente le fasce più trendy dello streetwear, la sapeva lunga. Era in grado di ripercorrere la carriera di Raf Simons, da Raf a Jil Sander a Dior, e ultimamente a Calvin Klein. Sapeva identificare a prima vista gli stilisti di innumerevoli capi di abbigliamento da uomo – sneaker, camicie, giacche, pantaloni – e quando non ne era sicuro, le ipotesi che avanzava erano sensate, ragionate e spesso azzeccate.
Sembrava avesse memorizzato una fittissima tabella di marea delle ultime tendenze della moda nei loro flussi e riflussi, per poi liquidare una proposta in passerella con un raggelante «bello, se fossimo nel 2014» o «già un po’ inflazionato l’anno scorso». Il gusto, rispecchiato dai capi che indossava, era impeccabile, interessante e, a modo suo, audace.
Occorrono un amore profondo per gli abiti e una buona dose di fortuna per imbattersi in qualcuno che voglia discorrere di moda maschile innovativa a un concerto dei Rush, eppure un anno prima del suo viaggio a Parigi, dopo l’ultimo concerto della band canadese al Madison Square Garden, Abe era riuscito a imbattersi in John Varvatos. Aveva trascorso la giornata accompagnando il suo custode attonito in un pellegrinaggio per SoHo, da Supreme a Bape a Saint Laurent a Y-3, e adesso, con le orecchie ancora rintronate dall’ultimo bis (Working Man), eccolo a presentare un dettagliato rapporto a Varvatos, con tanto di chiose e annotazioni, su tutti i look che aveva visto in città. Terminato il resoconto, Varvatos si era rivolto al custode di Abe – un fan sfegatato dei Rush che di Abe era ovviamente anche il padre – e aveva detto: «Dove lo hai preso, questo ragazzino?».
«Non ne ho proprio idea» avevo risposto.
Abe si era rivelato tardi anche alla sua famiglia, quarto di quattro, con una sorella prima e una dopo il fratello maggiore. Quando arriva il quarto figlio, in genere i fratelli sono ormai riusciti a dividersi fra loro tutta una serie di tratti, talenti, capricci, difetti, fobie e punti di forza. Trovare la propria peculiarità, per il quarto, è spesso un fardello e una sfida tutta particolare.
Nel caso di Abe non era mai sembrata una sfida, per nulla, e se era un fardello, era anche un dono: dal momento in cui era diventato se stesso, ciò che rendeva Abe diverso – dai fratelli, dai compagni di classe, da quasi tutti i bambini mai esistiti – era quanto fosse a suo agio con il suo essere diverso. Tutti vogliono distinguersi dai più, ma pochissimi di noi hanno la stoffa, e ancora meno il fegato, di reggere il peso schiacciante del conformismo. Quello era sempre stato il dono raro di Abe, che non solo sapeva distinguersi e reggere, ma anche farlo con stile. E per lui il modo più efficace di esprimere la sua peculiarità, con il massimo dello stile, era vestirsi.
Quando Abe era piccolissimo, così come accade a molti altri bambini, «vestirsi» voleva dire «da supereroe». A tre anni era fermamente del parere che un costume da Wolverine giallo acceso e celeste, o un cappuccio da pipistrello con le orecchie pendenti, fossero un abbigliamento adatto a ogni occasione. Più avanti ci fu un’intensa avventura con una splendida tenuta western d’epoca da cowboy canterino: cappello nero, camicia rossa con ricami bianchi, gilet e copripantaloni neri dai conchos cromati, stivali neri. Quando iniziò a frequentare l’asilo, però, scoprì che indossare costumi a scuola era non solo scoraggiato o consentito solo in giorni speciali, come al nido: era proibito. Per giunta gli sarebbe costato indubbiamente una mole di scherno intollerabile. La reazione di Abe fu quella di escogitare, d’istinto e in privato, una sorta di costume segreto che avrebbe formalmente rispettato i dettami dell’«abbigliamento normale» e del regolamento scolastico. Negli anni seguenti, con sempre maggiore frequenza, andò a scuola vestito da adulto: un adulto sciccoso.
Aveva idee solo vaghe e alquanto fumettistiche su ciò che costituisce lo stile di un maschio adulto, incentrate su alcuni capi base, fra cui borsalini, cardigan, camicie, bretelle e papillon. Aveva una giacchetta di tweed che per lui era fonte di grande potere, grande quanto il potere dell’armatura di Iron Man della Marvel. Aveva un emblema ricamato su una toppa all’altezza del taschino, e lo rendeva felicissimo. Arrivato in terza elementare portava a scuola quasi tutti i giorni il suo costume da uomo adulto. Lo prendevano in giro; ogni tanto uno dei suoi due cappelli a tesa floscia gli veniva strappato dalla testa e lanciato qua e là nel cortile. Ma le prese in giro non eccedevano mai la volontà o la capacità di sopportazione di Abe, né la gioia che ricavava dallo smarrirsi nei vestiti. E la sua perseveranza ostinata inaugurò uno schema che si sarebbe ripetuto di lì in avanti, man mano che il suo gusto si faceva più raffinato e sofisticato: a poco a poco, uno alla volta, fra gli altri ragazzi della sua classe spuntarono borsalini, un pork pie qui, un trilby lì. Non era insolito vedere uno degli ex persecutori di Abe sfoggiare un cardigan o una cravatta con la clip.
Certe sere me ne stavo sulla porta della sua camera, a osservarlo mentre rivedeva accuratamente il look che aveva scelto di indossare a scuola l’indomani. Disponeva gli elementi componendo una sorta di autoritratto bidimensionale sul pavimento – camicia Oxford infilata sotto la giacca sportiva di cotone, pantaloni attillatissimi (con le fasce elastiche regolabili in vita allungate per chiudersi all’ultimo bottone), calzettoni a losanghe, il tutto coronato dall’onnipresente cappello – e cercavo di capire cosa ci trovasse di bello quel bambino nel vestirsi ogni giorno come un Ronald Colman in miniatura a zonzo per le campagne della Ruritania. Gli piaceva l’attenzione, anche se negativa? Stava cercando, tramite i vestiti, di distinguersi dagli altri ragazzini, o i vestiti erano per lui soltanto l’espressione più immediata del fatto di essere nato diverso? Stava cercando di isolarsi, o semplicemente non riusciva a farne a meno?
Intorno al periodo in cui Abe stava per passare alla scuola media, il mio figlio maggiore sviluppò un forte interesse per i vestiti, specialmente lo streetwear, grazie a un ...

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