V.
La lenta fondazione dello Stato democratico
1. Il processo di transizione
Il crollo del regime fascista avvenne nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, quando il Gran Consiglio del fascismo approvò l’ordine del giorno (proposto da Dino Grandi) che invitava il duce a restituire il comando delle forze armate al re, ripristinando nello stesso tempo «tutte le funzioni statali». Con questo atto il vertice costituzionale del regime spinse alle dimissioni il duce del fascismo-capo del governo e sollecitò la Corona a riprendere la guida del paese. Fu la fine dell’esperienza statale-monarchica fascista, accelerata dall’arresto, su ordine del re, di Mussolini e dall’immediata nomina a presidente del Consiglio del maresciallo Pietro Badoglio. Si è a lungo discusso su questo passaggio storico, così come si è a lungo parlato di un colpo di Stato o del gesto suicidario del regime.
L’uscita di scena del duce non diede seguito alla nomina di un nuovo capo di governo scelto in una rosa di nomi proposti dal Gran Consiglio, come imponeva la procedura costituzionale istituita dal fascismo, ma fu un atto unilaterale del sovrano di fronte alle dimissioni di Mussolini; tuttavia si trattò di una «forzatura» regia legittima, per molti versi, e rimase in qualche modo all’interno del quadro costituzionale. Del resto, il re aveva conservato, da solo o insieme al Gran Consiglio, il potere di revoca del primo ministro. Certo, poi sul piano politico il fascismo non seppe sopravvivere alla fine del suo capo e la Corona accelerò il crollo di tutta l’impalcatura istituzionale del regime.
Nel volgere di qualche settimana furono sciolti gli organi e gli enti costituzionalizzati del fascismo, ad iniziare dalla Camera dei fasci e delle corporazioni già l’8 agosto del ’43, e questo in un momento di difficoltà anche nell’azione politico-economica. Infatti il governo fascista, per fare fronte alle spese militari, era stato costretto a produrre cartamoneta, alimentando in questo modo l’inflazione; e per contenerne la rapida crescita si trovò costretto ad emettere titoli di Stato che, in maniera forzosa, furono acquistati da banche e privati. Il rapporto debito/Pil raggiunse il 110%, ma la crescita dell’inflazione in quel periodo fu così elevata da riportarlo, nel giro di soli quattro anni, al 40%, anche se l’economia italiana venne investita da una spirale che durò fino al 1948.
Quindi l’onda inflazionistica si era trasformata in iperinflazione e premeva sui problemi strutturali dello Stato italiano, come l’arretratezza economica, il dualismo territoriale, l’alto tasso di disoccupazione, i danni dei bombardamenti sulle attività produttive e il disavanzo della bilancia dei pagamenti, che era stato esasperato dalla politica protezionistica fascista. In questo contesto, le esigenze del bilancio si erano ridotte, anche per merito del ministro del Tesoro Marcello Soleri e grazie ad alcuni fattori contingenti: l’irrisorietà dell’onere del servizio di interessi sul debito pubblico a causa dell’inflazione, la cessazione rapida degli oneri per la guerra e per le colonie, il basso livello degli stipendi dei pubblici funzionari rispetto a quelli precedenti il conflitto bellico.
Se è vero che quando crollò il regime fascista si innescò una forte crisi dello Stato, è anche vero che quest’ultimo non cadde completamente, e inoltre – aspetto assai rilevante – rimase nelle sue mani una quota enorme dell’economia nazionale, difficilmente paragonabile alle altre realtà europee, che disponevano di una vasta funzione pubblica dell’economia.
Certo, il crollo dello Stato ebbe effetti di frantumazione nella società, spogliata degli apparati istituzionali e afflitta dalla violenza e dall’immiserimento sociale che la guerra stava lasciando. Tuttavia, come la storiografia ha ormai mostrato da tempo, a partire però dalle osservazioni di un giurista, Massimo Severo Giannini, ci furono alcuni fattori complessi che impedirono la forte discontinuità nella costruzione di uno Stato nuovo, determinando viceversa una lenta – anzi molto lenta – fondazione.
Secondo la nota «formula» di Claudio Pavone, tali fattori di partenza possono essere ristretti a quattro: l’insufficiente risposta della Resistenza al problema dello Stato e la provvisorietà (e debolezza) dei Comitati di liberazione nazionale tra il secondo governo Bonomi e il primo di De Gasperi; il peso politico-amministrativo degli Alleati come fattore di restaurazione-ricostruzione del sistema politico e la Repubblica sociale italiana come elemento di continuità; i compromessi da cui nacque la Costituente e la scarsa originalità (e fragilità) della Costituzione; infine, l’inefficacia delle sanzioni contro il fascismo e quindi dell’epurazione, insieme alla permanenza del personale prefettizio e alla persistenza del parastato.
Questa formula fu poi rivista dallo stesso Pavone in altri suoi saggi in cui insistette sulla forte rottura istituzionale introdotta dal varo della Costituzione repubblicana, seppure all’interno di un percorso statale che aveva assimilato profondi caratteri autoritari negli apparati, nelle norme e nelle procedure. Tali caratteri favorirono la persistenza di strati e inclinazioni politiche del vecchio Stato italiano accentrato, riplasmato dal fascismo, e che si ritrovavano nella rigida azione di controllo della stampa, nella solidità delle basi corporative di una larga parte delle organizzazioni professionali e sociali, ma anche nelle rappresentanze economiche territoriali, come ad esempio le Camere di commercio.
2. La continuità
Quindi, già dopo il 25 luglio 1943, con la fine del regime, lo Stato subì una frattura che separò la burocrazia «romana» dagli apparati fascisti. Con la creazione in settembre della Repubblica sociale italiana, dopo la fuga dal Gran Sasso di Mussolini grazie al sostegno tedesco, alcune strutture ministeriali vennero trasferite nel Nord del paese per essere integrate nella costituenda repubblica; ad esempio, gli uffici del dicastero di Grazia e giustizia furono stabiliti a Brescia, mentre la direzione per gli istituti di prevenzione e pena fu collocata a Cremona.
La Repubblica sociale, che si estese inizialmente sul territorio dell’Italia centro-settentrionale, riorganizzò la propria struttura parastatale attraverso una distribuzione non sempre coerente degli apparati in alcune città: Salò, che insieme alla zona del Lago di Garda era una sorta di centro di riferimento, Brescia, Padova, Verona, Milano. Del resto la repubblica di Mussolini non si trasformò mai in uno Stato compiuto, in una repubblica presidenziale, dotato di una costituzione (che in realtà fu scritta, ma mai applicata) e di un parlamento, ma assunse i caratteri di una debole struttura istituzionale e amministrativa, guidata da un presidente, duce e ministro degli Esteri, e da un consiglio dei ministri con competenze, sulla carta, legislative, di autorità sul territorio, sulla moneta e sull’organizzazione delle forze armate. Nel suo anno e mezzo di vita rimase più che altro un protettorato tedesco, una repubblica senza uno sviluppo reale delle istituzioni politiche, spesso gestite, viceversa, dai comandi militari dall’esercito tedesco occupante.
Comunque, la ricerca storica ha messo in evidenza come la Rsi, che si considerava la legittima prosecutrice dell’ordinamento statutario fascista, abbia fornito un intrinseco e sottile appoggio alla continuità dello Stato. In realtà il governo fascista, riconosciuto formalmente dal Terzo Reich (con scambio di ambasciatori), esercitò il potere politico tramite un’azione di stabilizzazione dell’apparato amministrativo (e ministeriale), sebbene sul piano storico abbia scarsamente inciso; vuoi per l’effimera esistenza, vuoi per il legame stretto con l’occupante tedesco, che la riteneva alla fine un mero serbatoio di milizie, vuoi per il costante coinvolgimento non sempre efficace dell’esercito repubblichino nella repressione dei movimenti resistenziali, a causa anche della crescente azione militare organizzata dai Comitati di liberazione nazionale. In realtà la Rsi rimase un governo locale e non riuscì a compiere la vera trasformazione in compagine statale e in degna continuatrice dello Stato italiano, come anelava. Questo avrebbe significato anche riconquistare il territorio della Penisola e quindi occupare il «Regno del Sud», rimasto ai Savoia; non ne ebbe mai la capacità militare e politica.
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