Don Chisciotte della Mancia
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Don Chisciotte della Mancia

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Miguel de Cervantes

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Don Chisciotte della Mancia Ăš il famosissimo romanzo dello spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, pubblicato in due volumi nel 1605 e 1615. È considerato un capolavoro della letteratura mondiale e i due protagonisti, Don Chisciotte e Sancio Panza, sono tra i piĂč celebrati personaggi della letteratura di tutti i tempi. Con oltre 500 milioni di copie Ăš il romanzo piĂč venduto della storia. In questa edizione le complessive 661 (310+351) note sono state posizionate rispettivamente alla fine della Prima Parte e della Seconda Parte per agevolare la lettura del testo.

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Informations

PARTE SECONDA

CAPITOLO I

DELLA CONVERSAZIONE CHE IL BARBIERE E IL CURATO EBBERO CON DON CHISCIOTTE RIGUARDO ALLA SUA MALATTIA
Nella seconda parte di questa storia e terza uscita di don Chisciotte racconta Cide Hamete Benengeli che il curato e il barbiere stettero quasi un mese senza vederlo per non rinnovargli e richiamargli il ricordo delle cose passate. Non per questo perĂČ tralasciarono di andare a trovare la nipote e la governante, esortandole a badare di custodirlo bene con dargli a mangiare cose nutrienti e adatte per il cuore e per il cerebro, da dove, come s’inferiva chiaramente, dipendeva tutto il suo malanno. Esse dissero che questo appunto facevano e avrebbero fatto con ogni affettuosa cura possibile, perchĂ© notavano che il loro Signore, di tanto in tanto, cominciava a dar segni di essere pienamente in cervello. Della qual cosa molto si rallegrarono il curato e il barbiere, sembrando loro di aver fatto proprio bene a riportarlo incantato sul carro da buoi come si Ăš raccontato nella prima parte di questa grande e altrettanto esatta storia, nell’ultimo capitolo 12. Determinarono quindi di andarlo a visitare e di constatare il suo miglioramento, quantunque ritenessero quasi impossibile che questo ci fosse davvero, rimanendo d’accordo perĂČ di non toccarlo sopra nessun punto circa la cavalleria errante, per non mettersi al rischio di avere a scucire quelli della ferita che erano stati dati cosĂŹ di fresco.
Andarono, infine, a fargli una visita e lo trovarono seduto sul letto, con indosso un camiciotto di baietta verde e in capo un berretto toledano di lana rossa, tanto magro e risecchito che pareva null’altro che un corpo mummificato. Li ricevette egli molto cordialmente e, richiesto della sua salute, parlĂČ di sĂ© e di come si sentiva, molto assennatamente e con eleganza di espressione. Nel corso della conversazione poi vennero a trattare di quel che si dice ragione di Stato e modi di governare, correggendo quest’abuso e riprovando quell’altro, riformando un costume e dando il bando ad un altro, divenendo ciascuno di loro tre un nuovo legislatore, un moderno Licurgo, un Solone nuovo di zecca. Essi riformarono lo Stato per modo da parer proprio che l’avessero messo in una fucina e ne avessero tratto uno ben diverso da quello che vi avevano posto. Or don Chisciotte parlĂČ con tanta saggezza su tutti gli argomenti toccati che i due suoi esaminatori credettero di sicuro che fosse del tutto guarito e pienamente in cervello.
Si trovarono presenti alla conversazione la nipote e la governante che non si stancavano di ringraziare Dio al vedere il loro signore cosĂŹ assolutamente in sĂ©. Il curato tuttavia, rimutandosi dal primo proposito che era di non toccarlo in cose cavalleresche, volle provare a fondo se la guarigione di don Chisciotte fosse apparente o reale: cosĂŹ, d’uno in altro argomento, venne a dire di certe notizie giunte dalla capitale; fra le quali, ritenersi per certo che il Turco calava con una potente flotta, che non si sapeva quale fosse il suo disegno nĂ© dove volesse scaricarsi sĂŹ gran nembo 13. Con questo timore, che quasi ogni anno ci chiama alle armi, tutta la cristianitĂ  stava sull’attenti, e Sua MaestĂ  aveva fatto munire le coste di Napoli, della Sicilia e dell’isola di Malta. A ciĂČ rispose don Chisciotte: — Sua MaestĂ  ha operato da prudentissimo guerriero col munire i suoi Stati in tempo, perchĂ© non alla sprovvista abbia a coglierlo il nemico; ma se si accettasse un mio consiglio, io gli consiglierei di usare un provvedimento al quale, ora come ora, Sua MaestĂ  dev’essere molto lontano dal pensare.
Come il curato udĂŹ ciĂČ, disse fra sĂ©: «Che Dio ti tenga per le sue sante mani, povero don Chisciotte, perchĂ© mi pare che dall’alta cima della tua pazzia tu precipiti nel profondo abisso della tua scempiaggine! Ma il barbiere, che giĂ  aveva avuto lo stesso pensiero del curato, domandĂČ a don Chisciotte qual era il suo consiglio circa il provvedimento che diceva sarebbe bene accettare; perchĂ© poteva anche darsi che fosse tale da doversi aggiungere nell’elenco di tanti inopportuni suggerimenti che si sogliono dare ai principi.
— Il mio, mastro Tosa, — disse don Chisciotte — non ù già inopportuno, ma opportunissimo.
— Non dico per questo — soggiunse il barbiere, — ma perchĂ© l’esperienza ha dimostrato che tutti o la piĂč parte dei progetti che vengono dati a Sua MaestĂ  o sono inattuabili, o stravaganti, o dannosi al re od al regno 14.
— Il mio pertanto — rispose don Chisciotte — nĂ© Ăš inattuabile nĂ© stravagante, bensĂŹ il piĂč facile, il piĂč giudizioso, il piĂč sagace e spicciativo che possa mai venire in mente a progettista alcuno.
— Troppo indugia vossignoria, signor don Chisciotte — disse il curato.
— Io non vorrei — osservĂČ don Chisciotte — che a dirlo ora io qui, domattina fosse arrivato agli orecchi dei signori del Consiglio e un altro prendesse per sĂ© i ringraziamenti e il premio della fatica mia.
— Per me — disse il barbiere — do la mia parola e qui e davanti a Dio di non dire a chicchessia 15 a nessuno al mondo, quel che vossignoria abbia mai a dire: giuramento questo, che ho imparato dalla storia del prete che, cantando il Prefazio, fece sapere al re chi era il ladro che gli aveva rubato le cento doppie e la mula vagabonda 16.
— Non m’intendo di storielle io — disse don Chisciotte; — ma so che questo giuramento vale, perchĂ© so che il signor barbiere Ăš uomo dabbene.
— E se anche non fosse — disse il curato — io gli fo credito e mi rendo mallevadore per lui, che, cioĂš, in questa faccenda egli non parlerĂ  piĂč che non parli un muto, sotto pena di pagare quanto sarĂ  giudicato e sentenziato.
— E per vossignoria chi garantisce signor curato? — disse don Chisciotte.
— La mia professione, che ù di esser segreto — rispose il curato.
— Perdinci! — disse allora don Chisciotte. — Che altro Ăš a fare se non che Sua MaestĂ  ordini per pubblico banditore che si raccolgano nella capitale, un giorno stabilito tutti i cavalieri erranti che vagano per la Spagna? Anche non ne venisse che mezza dozzina, non potrebbe fra loro intervenire uno il quale, da solo, bastasse a distruggere tutta la potenza del Turco? Mi stiano attente le signorie vostre e mi seguano. Forse che Ăš cosa nuova che un solo cavaliere errante disfaccia un esercito di duecentomila uomini come se tutti avessero una gola sola o tutti fossero di pasta frolla? Mi dicano un po’: quante storie son piene di siffatte meraviglie? Avrebbe dovuto (maledetto me, chĂ© non voglio dir altri!), avrebbe dovuto vivere, oggi, il famoso don Belianigi, o qualcuno di quelli dell’infinita stirpe di Amadigi di Gaula! Se oggi vivesse qualcuno di essi e si affrontasse col Turco, in fede mia che a questo non assicurerei di vincerla! Ma Dio soccorrerĂ  il popolo suo e procurerĂ  qualcuno, se non cosĂŹ prode come i cavalieri erranti del tempo passato, che almeno non sia da meno di loro nel coraggio. Dio mi capisce e non dico altro.
— Ahi! — disse a questo punto la nipote. — Possa io morire ammazzata se il mio signore non vuol tornare a fare il cavaliere errante!
Al che disse don Chisciotte: — Cavaliere errante ho io da morire e scenda o salga pure il Turco quando gli piaccia e con quante piĂč forze potrĂ . Torno a dire: Iddio m’intende.
Disse allora il barbiere: — Prego caldamente le signorie vostre di permettermi di raccontare un fatterello accaduto a Siviglia, che ho proprio voglia di narrarlo, poichĂ© qui cade bene a proposito.
AssentĂŹ don Chisciotte, prestarono attenzione il curato e gli altri, ed egli incominciĂČ cosĂŹ: — Nel manicomio di Siviglia c’era un tale che i parenti vi avevano rinchiuso perchĂ© privo di senno. S’era laureato in Leggi Canoniche a Ossuna, ma, secondo l’opinione di molti, anche se si fosse laureato a Salamanca, sarebbe stato sempre un matto. Or questo dottore, dopo alcuni anni di reclusione nel manicomio, si mise in capo di essere savio e pienamente in sĂ©. CosĂŹ immaginandosi quindi, scrisse all’Arcivescovo supplicandolo vivamente e con espressioni molto bene acconce che lo facesse liberare da quella calamitĂ  in cui viveva, poichĂ© ormai, per misericordia di Dio, aveva recuperato il senno perduto; che perĂČ i suoi parenti, per godere la parte del suo patrimonio lo lasciavano in quel luogo, e contro il vero, chiedevano che fosse ivi lasciato sino alla morte. L’arcivescovo, persuaso dai molti messaggi bene scritti e ben ragionati, ordinĂČ a un suo cappellano d’informarsi dal direttore del manicomio se era vero ciĂČ che quel dottore gli scriveva, che in pari tempo parlasse col matto e che, se gli sembrava rinsavito, lo cavasse di lĂ  e lo liberasse. CosĂŹ fece il cappellano, ma il direttore gli disse che quel tale era ancora matto; che, sebbene molte volte discorresse come persona di grande intendimento, alla fine dava la stura a tante scimunitaggini che, nel numero e nella qualitĂ , uguagliavano le cose dette sensatamente prima, come poteva farsene l’esperienza, parlandogli. Il cappellano volle farla. Messo in cospetto del matto, parlĂČ con lui per piĂč d’un’ora, nĂ© in tutto quel tempo il matto disse pur una parola incoerente e stravagante; anzi discorse cosĂŹ assennatamente che il cappellano fu costretto a credere che il matto era rinsavito. Fra l’altro, questi gli disse che il direttore gli era ostile per non perdere i regali che gli facevano i suoi parenti affinchĂ© dicesse che ancora era matto pur con qualche lucido intervallo; come pure che il suo maggior nemico in quella sventura era il suo vistoso patrimonio, poichĂ© per goderselo i suoi avversari lo denigravano in malafede e sollevavano dubbi circa la grazia che nostro Signore gli aveva fatto con rimutarlo da animale in uomo. Infine, egli parlĂČ in modo da fare sospettare del direttore, apparire avidi e disumani i parenti e se stesso cosĂŹ sensato che il cappellano si decise a condurselo con sĂ© acciocchĂ© l’Arcivescovo lo vedesse e toccasse con mano la veritĂ  di quella faccenda. CosĂŹ onestamente credendo, il buon cappellano chiese al direttore che al dottore facesse dare gli abiti con cui era entrato nel manicomio; e il direttore tornĂČ a dire che badasse a cosa faceva, perchĂ©, senza dubbio alcuno, quegli era ancora matto. A nulla valsero i suoi consigli e avvertimenti perchĂ© il cappellano desistesse del menarselo via. Il direttore, vedendo che era ordine dell’Arcivescovo, obbedĂŹ e il dottore fu rivestito dei suoi abiti che erano nuovi e decorosi. Come si vide egli rivestito da savio e svestito da pazzo, pregĂČ insistentemente il cappellano che gli facesse la caritĂ  di permettergli di andare a prender commiato dai matti suoi camerati. Il cappellano disse di volerlo accompagnare e vedere i matti che c’erano nella casa. Salirono di sopra, quindi, e, con loro, alcuni i quali si trovarono presenti.
Giunto il matto presso a una gabbia dove si trovava un pazzo furioso, per quanto fosse allora calmo e quieto, gli disse: — Fratello caro, veda se ha da comandarmi qualcosa, chĂ© io me ne vado a casa, essendosi Dio compiaciuto, per infinita bontĂ  e misericordia sua, senza alcun merito mio, di restituirmi il senno. Son bell’e guarito ormai e bene in me, giacchĂ© all’onnipotenza di Dio nulla Ăš impossibile. Abbia grande speranza e fiducia in Lui, che come ha fatto tornar me nello stato di prima, vi farĂ  tornare anche lei, se confida in Lui. SarĂ  mia cura di mandarle dei manicaretti, e lei li deve mangiare assolutamente; perchĂ© deve sapere che secondo me - e sono uno che ben l’ha provato - tutte queste nostre pazzie derivano dall’avere lo stomaco vuoto e il cerebro pieno di vento. Si faccia animo, si faccia animo, perchĂ© l’abbattimento nelle sventure rovina la salute e apporta la morte.
SentĂŹ tutto questo discorso del dottore un altro pazzo che era in un’altra gabbia di fronte a quella del furioso e che, rizzandosi su da una vecchia stuoia dov’era sdraiato tutto nudo, domandĂČ gridando chi era colui che se n’andava guarito e rinsavito. Il dottore gli rispose: — Son io, fratello, che me ne vado, poichĂ© ormai non ho piĂč bisogno di stare altro tempo qui: della qual cosa ringrazio infinitamente il cielo che mi ha fatto sĂŹ grande favore.
— Ponete mente a cosa dite, dottore, che il diavolo non v’inganni — soggiunse il pazzo; — fermatevi e rimanete zitto e cheto qui in casa vostra, che così vi risparmierete di tornare.
— Io so che son guarito — replicĂČ il dottore, — e non ci sarĂ  motivo di rifare la via crucis.
— Voi guarito? — disse il pazzo. — Va bene; si vedrĂ ; andate con Dio; perĂČ vi giuro per Giove, la cui maestĂ  io rappresento sulla terra, che soltanto per questa colpa che oggi commette Siviglia col cavarvi da questa casa e col ritenervi per savio, io le infliggerĂČ tale un castigo che ne resti il ricordo nei secoli dei secoli, e cosĂŹ sia. Non sai tu, povero dottorello, che ben potrĂČ farlo, poichĂ©, come dico, sono Giove Tonante ed ho nelle mani i fulmini incendiari con cui posso e soglio minacciare e distruggere il mondo? Con un mezzo soltanto tuttavia voglio punire questo popolo d’ignoranti, cioĂš con non far piovere su di essa nĂ© in tutto quanto il suo distretto e circondario per tre anni interi, che si conteranno dal giorno e dal momento in poi in cui questa minaccia Ăš stata proferita. Tu libero, tu guarito, tu in senno, ed io matto ed io malato ed io legato...? CosĂŹ penso di far piovere come a impiccarmi.
Stettero attenti a sentire i circostanti le parole gridate dal pazzo, ma il nostro dottore, rivolgendosi al nostro cappellano e prendendolo per le mani, gli disse: — Non se ne preoccupi vossignoria, nĂ© ci faccia caso a quello che ha detto questo matto: che se lui Ăš Giove e non vorrĂ  far piovere, io che sono Nettuno, il padre e il dio delle acque, farĂČ piovere tutte le volte che me ne verrĂ  voglia e che sarĂ  necessario.
Al che rispose il cappellano: — Nondimeno, signor Nettuno, non converrà crucciare il signor Giove: vossignori...

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