Eccomi in Giappone.
E, per ritrovare la mia femminilitĂ , repressa durante lâadolescenza, decido di prendere lezioni di kabuki, alta forma di teatro danza in cui perĂČ gli attori possono essere soltanto uomini.
Comunque, la mia insegnante di kabuki Ăš una donna, perchĂ© sono le donne a insegnare agli uomini a essere donna. Le donne, qui in Giappone, hanno molto rispetto dellâaltro sesso e, andando oltre il mito delle geishe, una personalitĂ ben definita.
Chi potevo trovare di meglio, io, che spesso venivo considerata un tipo mascolino?
Io voglio essere al cento per cento tutti e due i sessi, penso, perché al cento per cento tutti e due mi sento.
E cosĂŹ per un mese seguo le pesanti lezioni âmedievaliâ di questa danza-teatro: per lâesattezza venti lezioni di âLion Danceâ. Senza dormire o quasi, perchĂ© ogni sera mi mangio il gelato al tĂš verde.
Ma non ho piĂč paure, solo coraggio.
La maestra Ăš stupenda, Ăš completamente rapita da me, si esalta, chissĂ come mi vede. E una sera mi invita a casa sua, dove mi serve il tofu fatto in casa: una bontĂ unica. Buonissimo.
E intanto mi affina nellâarte del kabuki, insegnandomi anche a camminare tenendo in mano il ventaglio.
Per una come me, che viene dalle arti marziali come il karate e il tai chi, col kabuki comincio a camminare come una piuma.
«Se riesci a mettere femminilitĂ nei tuoi gesti» mi dice lei «sarai ancora piĂč forte.»
Con lâarte di usare il ventaglio mi sembra di imparare a scacciare via il nero intorno a me. Lo apro e lo chiudo, assaporo il suo suono, lo sventolo delicatamente come una poesia nellâaria, con quel modo di muovermi senza che nessuno si accorga che mi muovo, un modo che io, da elefante cucciolo che sono, faccio fatica a comprendere.
Lei mi vede possente, marziale. Dâaltronde le arti che ho imparato a Milano per difendermi da sola a qualcosa saranno servite.
E in questa meravigliosa Tokyo che mi entra nello sguardo, tutta stirata di effetti di luce dalla mattina alla sera, io rovesciata dentro e senza dormire mai, incontro Hiromi Ito, in arte Phew, unâartista elettro-noise che viene dal punk e di cui Conny Plank aveva prodotto il disco. Il suo era lâunico indirizzo che avevo.
Un incontro pazzesco.
Arriva camminando su due piedi che volano, e con in mano un cestino di fiori, stile Ikebana. Poi fa un inchino, compita, il che, per un giapponese, vuol giĂ dire grande affetto.
Io provo a salutarla con un bacio-e-abbraccio allâitaliana, ma vedo che non Ăš abituata.
Le dico che, per prima cosa, vorrei vedere uno spettacolo di teatro noÂŻ o di kabuki.
Fa una faccia tipo âoh no, veramente?â. Un misto tra un âche schifoâ alla giapponese e âmi ero dimenticata che esisteva questo tipo di teatroâ.
Ma poi sorride. «Va bene.»
Mi fissa ancora un poâ, crede che lâidea non mi divertirĂ , ma io insisto che mi interessa, e alla fine prenota.
Arriva a prendermi allâhotel con tante scatoline di sushi.
Le dico: «Grazie, non ho fame...».
«Ma no» mi fa lei, «servono a teatro.»
«Ah, okay.»
Lo spettacolo, infatti, dura quattro ore, non finisce mai. E a ogni intervallo tutti mangiano, almeno tre volte. CosĂŹ pure io mi adeguo e mangio.
La sera tuttâaltro programma: andiamo a vedere un gruppo punk che suona.
Che sballo, sono ritmi tiratissimi, simili a quelli di certe band che avevo sentito in Germania, ma sembrano strani.
Dico a Hiromi: «Ma voi come sentite il battere e il levare?».
«Oh, sorry, io non ci penso mai.»
«Ma voi lo sentite tutto in quattro? Avete gli accenti? Andate in tre o in sei? Gli stornelli ce li avete anche voi?»
Ride. «I am, hu/hu/hu!», e fa il gesto con il braccio in avanti, in one senza two.
«Ah, tutto in battere come punto forte principale?»
«SÏ, me too.»
Le faccio un esempio del mio ritmo toscano.
E ride ancora. Ah ah, sÏ quello anche qui, prima, dice, «but now here only four/four».
âTradizioneâ, parola in estinzione.
Infatti, chi se ne frega della tradizione? No, a noi ce ne frega. Ride, ci tiene ma ha perso la speranza, o meglio no, non del tutto. Infatti quasi piange quando mi racconta che lei, dopo aver litigato con RyuÂŻichi Sakamoto, ha poi trovato se stessa e il suo paese grazie a Conny Plank e Moebius.
Dopo qualche giorno io e Hiromi ci troviamo nel mio albergo a Tokyo per una session insieme con un pianoforte elettrico, che mi sono fatta arrivare.
Entra e mi dice: «Questo non Ú un hotel giapponese, Ú un hotel fatto per gli occidentali».
«Ah bene» faccio io, «allora magari mi fai vedere uno veramente giapponese, io non voglio fare la turista.»
Intanto Hiromi prova a improvvisare con la voce. Vorrei scrivere una canzone con lei, ma mentre lâaccompagno mi accorgo che non câĂš una tonalitĂ a cui fa riferimento, e penso che probabilmente il suo Ăš un tradizionale modo giapponese di sentire la musica e che ha difficoltĂ ad adeguarsi al concetto di tonalitĂ occidentale. Forse prende dei quarti di tono, sento, e infatti perchĂ© non cantare anche i quarti di tono, che un pianoforte non ha, ma il moog, il synth, per esempio, sĂŹ?
E poi dicono che câĂš gente stonata... Non Ăš vero, non esiste lo stonato, lo stonato Ăš solo una persona a cui hanno rubato la propria cultura per sostituirla con un indottrinamento musicale.
Intanto si prende un treno velocissimo che porta a Kyoto in un batter dâocchio.
Hiromi parla poco, mi spiega perĂČ comâĂš il Giappone, mi fa conoscere il cibo vero, non quello che si trova nei ristoranti in Europa, e mi porta nei templi e nei giardini zen, mi fa conoscere il Silenzio e il rapporto che i giapponesi hanno con la morte. Un rapporto di accettazione, in cui la morte Ăš una cosa normale, di vita quotidiana.
I giapponesi non hanno paura di morire, mi racconta, o almeno lei non ce lâha, e la religione non Ăš una religione, Ăš una celebrazione, e la si pratica anche nella vasca da bagno, quando si ha un momento in cui si puĂČ finalmente pensare a se stessi. Almeno, lei fa cosĂŹ.
Mi dice che Conny ha combattuto troppo contro il cancro, lâha preso di punta, come sfida.
Anche lei, come me, con la sua scomparsa si Ăš trovata senza un riferimento, lui era lâunico che aveva capito il suo modo di cantare e difeso la sua cultura.
«Ci manca molto» diciamo, e facciamo un brindisi col sake nei bicchieri quadrati di legno.
Si beve e ci si rilassa, in questo albergo di Kyoto dove le camere sono veramente giapponesi.
«Bello» le dico io mentre mi stendo sul tatami. Non câĂš un letto, no, il letto Ăš rasoterra, e mi accorgo che le pareti di carta di riso disegnano non-confini.
Le chiedo: «Ma qui, scusa, non ci sono pareti? Si dorme tutti insieme?».
«No, non ci sono. Guarda lĂŹ per terra, câĂš il tatami, quello Ăš il letto, e io dormo poco distante. Là » mi indica.
«Ah, va bene, buonanotte allora.»
Mi giro e mi rigiro, e nella notte sento un odore di bruciato.
«Aiuto, che succede?»
Mi guardo intorno e câĂš Hiromi, seduta con tanti piccoli vulcanini che fumano su tutte e due le sue braccia aperte e rivolte verso lâalto.
«Oh Hiromi, ma che fai?»
Dice: «Non ho sonno e uso questo sistema per cercare di dormire».
Boh, non capisco, penso, e mi rimetto a dormire.
Al mattino ci aspetta unâaltra giornata in giro a conoscere il suo mondo, con la sua ospitalitĂ simile a quella dei siciliani che, in modo sempre unico, ti offrono quello che hanno della propria terra.
Nel frattempo io e Hiromi ci conosciamo meglio, e vedo che lei si apre un poâ. Mi racconta del fidanzato che sta per sposare, ma ci divorzia giĂ mentre mi dice che Ăš un maguro, parola giapponese che sta per âtonnoâ, e dice che lo lascerĂ proprio perchĂ© troppo maguro, e poco sensibile. Insomma, da noi diresti un âottusoâ. Ce la ridiamo a pensare al suo fidanzato come a un pesce, con lei che ha cambiato idea e non ci vuole piĂč andare a nozze.
Insomma, tutto il mondo Ăš paese, e non mi piace dire âi giapponesiâ, âi tedeschiâ, âgli americaniâ, âgli italianiâ, âi maschiâ, âle femmineâ, ecce...