Avevo sei anni. Ero a Kyoto. Non so perchĂ© quel pomeriggio mio padre era nervoso e mi ha incolpato di avere fatto cadere dellâinchiostro su un libro e averlo rovinato. Io il libro non lâavevo proprio toccato. Ma lui ha insistito che ero stata io e che mentivo per non farmi rimproverare. Lâaccusa mi Ăš sembrata enorme e talmente ingiusta che ho pensato di suicidarmi per provargli che dicevo la veritĂ . Poi ho riflettuto che era stupido morire solo per dimostrare la propria innocenza: lâavrei punito con un dolore bruciante, ma allo stesso tempo avrei impedito a me stessa di crescere e di curiosare sul mondo e sulle cose, il che mi dispiaceva. Allora ho deciso: sarei scappata di casa e non ci sarei tornata mai piĂč.
Non volevo vivere in una famiglia che non credeva alle mie parole e mi accusava ingiustamente. Perfino mia madre, che di solito era conciliante e generosa, si Ăš messa contro di me quando ha visto che avevo le dita sporche di inchiostro. Ma io mi ero macchiata tentando di trascrivere un carattere giapponese su un foglio bianco. Il libro di mio padre non lâavevo nĂ© visto nĂ© toccato. Credevano alle dita sporche di inchiostro e non alle mie parole, una cosa gravissima per me.
Il mio bellissimo e giovanissimo padre si Ăš accorto che non câero quando la mia giovanissima e bellissima madre ha preso a chiamarmi senza risposta. Sono cominciate le ricerche, prima quasi distratte e poi sempre piĂč allarmate. Se in casa non câero e nel giardinetto minuscolo non mi si trovava, dove stavo? Che qualcuno mi avesse rapita? Proprio un mese prima era uscita sui giornali la notizia di una bambina della mia etĂ che era sparita, forse portata via, non si sapeva nĂ© dove nĂ© perchĂ©.
Dopo la casa e il giardino, i miei hanno cominciato a cercarmi per strada, nel vasto quartiere dove abitavamo dalle casupole ammucchiate, i tanti caffĂš al cui ingresso pendevano centinaia di striscioline di stoffa che frullavano e dondolavano a ogni ingresso e i mille negozietti da cui proveniva un profumo di tsukemono e di riso bollito. Ma nessuno aveva visto una bambina bionda di sei anni che camminava da sola per le strade di Kyoto. I miei genitori erano disperati e non hanno fatto che correre da una parte allâaltra della cittĂ . Non trascurando gli ospedali e i pronto soccorso.
Poi, verso sera, quando si sono ritirati per riposare un momento prima di ricominciare la ricerca, Ăš arrivata una telefonata della polizia municipale: «La bambina Ăš qui, si chiama Dacia? Venite a prenderla». «Lâavete trovata? E dove? Sta bene?» «Sta benissimo.» «Dove dobbiamo venire?» «Al distretto di polizia del quartiere di Higashiyama.»
I miei sono accorsi. E appena hanno aperto la porta, mi hanno vista seduta sul tavolo della questura con tutti i poliziotti intorno che si divertivano a sentirmi parlare nellâaffrettato dialetto di Kyoto. Raccontavo che in casa non ci stavo bene, che volevo andare via dalla cittĂ , che avrei lavorato, e anzi chiedevo che mi prendessero alla polizia, che sarei stata una brava indagatrice.
I miei sono rimasti di stucco, dopo tante ore di apprensione, nel vedermi cosĂŹ allegra e spensierata, seduta con le gambine ciondolanti, i sandaletti di pelle rossiccia coperti di polvere, che chiacchieravo tranquillamente con i poliziotti in cerchio intorno a me.
Mi aspettavo dei terribili rimproveri. Invece mia madre mi ha stretta al petto ripetendo accorata: «Non farlo mai piĂč, non farlo mai piĂč!», e mi bagnava i capelli di lacrime. Mio padre brontolava che ero una testarda e dovevo imparare a non comportarmi come una incosciente. Non gli ho risposto perchĂ© non volevo umiliarlo davanti ai poliziotti, ma avrei voluto dirgli che lâincosciente era lui che non aveva creduto alle mie parole sincere ma solo a un indizio accusatore.
Quella notte ho dormito benissimo. Avevo sfogato la mia indignazione per lâingiustizia subita e sapevo che mio padre non avrebbe piĂč osato incolparmi di cose che non avevo fatto. Avrebbe scandagliato meglio le apparenze e creduto alle mie parole piĂč che agli indizi. Sapevo, ma lâhanno capito anche la mia adorabile Topazia dai grandi occhi azzurri e le labbra coralline e il mio adorato Fosco dagli occhi castani pieni di ironia e grazia, che la mia reazione di fronte ai soprusi sarebbe sempre stata drastica e decisa. Eppure non avevo un cattivo carattere: ero allegra, ben disposta verso gli altri e gentile. Solo quando mi trovavo davanti a una ingiustizia, venivo invasa da una indomabile indignazione che mi portava a forme stravaganti di ribellione, a volte calmissima e determinata, a volte agitata e pronta a reazioni che non riuscivo a frenare.
Mi sono chiesta in seguito se la rivolta contro lâingiustizia nasca da un sentimento spontaneo, naturale, magari ereditato in famiglia o se venga da una formazione culturale. Sapevo che mia nonna Yoi, la scrittrice mezza inglese e mezza polacca, era stata una donna ribelle, sapevo che mio padre, quando il nonno gli aveva messo in mano la tessera del Fascio perchĂ© «CosĂŹ potrai lavorare», gliela aveva stracciata in faccia e non si erano parlati per dieci anni. Sapevo che mia madre aveva deciso, senza consultarsi con mio padre, che non avrebbe firmato per la Repubblica di SalĂČ, pur certa che lâaspettava il campo di concentramento. Varie forme di ingiustizia a cui nonne, padri, madri hanno reagito con fermezza, confidando sulle proprie convinzioni piuttosto che sui doveri sociali imposti dal momento storico. Erano stati esortati, rimproverati, minacciati, ma nessuno aveva potuto fermarli.
Possiamo considerarla una ereditĂ questo sentimento di rivolta contro le ingiustizie, che filtra per via parentale da cervello a cervello, da cuore a cuore? Oppure si tratta di un istinto che la natura ci mette a disposizione di fronte alle difficoltĂ della vita? A tuttâoggi non ho una risposta chiara. Incontro persone che sono sensibili ai soprusi e persone che non lo sono. Eppure ho lâimpressione che questo senso di ribellione sia piĂč vicino a un istinto che a una costruzione culturale. Lâistinto, perĂČ, se non viene coltivato, sollecitato, puĂČ addormentarsi e andare in letargo.
Le domande incalzano oggi come incalzavano allora. Fin da piccola rompevo le scatole agli adulti perchĂ© rispondessero alle mie domande insistenti: papĂ , cosâĂš la giustizia? Ci sono delle cose che mi sembrano giuste e altre che mi sembrano ingiuste, ma chi decide il giusto e lâingiusto? E se per alcuni il giusto sta da una parte e per altri il giusto sta da unâaltra parte, dove si trova il giusto in assoluto? A questa domanda ne seguiva a rotolo unâaltra: ma papĂ , esiste un giusto in assoluto? E poi ancora: il desiderio di giustizia nasce da un diritto calpestato? O Ăš solo lâorgoglio umiliato che cerca rivincita? Mio padre mi rispondeva quando aveva tempo, in fretta e senza molta pazienza, aveva altro da fare. Mia madre, alle stesse domande, replicava: «SĂŹ, bambina mia, la giustizia esiste e sta dentro di te prima che nelle leggi e nelle regole stabilite». Risposte che mi sembravano vaghe, per cui andavo a cercare altri pareri nei libri, nelle parole dei saggi. Ma spesso anche quelle mi suonavano vaghe e contraddittorie.
Chi crede in un Dio che governa i cieli, mi dicevo, pensa che la giustizia discenda dallâalto e che sia un codice che distingue il buono dal cattivo, il bello dal brutto, dando per scontato che il bello e il buono vinceranno sicuramente alla fine del mondo. Dio padre tiene in mano una bilancia, immaginavo, su cui pesa i peccati e le buone azioni. E da come pende il piatto, stabilisce le punizioni o concede i premi. Il piĂč grande dei quali Ăš quello di volare come un uccello dalle ali dâoro e sedersi accanto a lui, cibandosi di nuvole e di venti. Da quale parte penderĂ la bilancia?
Chi ha fede pensa che il mondo sia costruito intorno al bene. Dio rappresenta questo bene e quindi non puĂČ che applicare la giustizia con equitĂ e senza prevenzioni. Chi crede non ha dubbi: Dio Ăš buono, il cielo Ăš benigno e il fine non puĂČ che essere la felicitĂ eterna.
Ma qui mi sembrava di entrare in un ginepraio: da dove viene il male, mi ostinavo a chiedere nelle mie riflessioni bambinesche, se Dio, che rappresenta lâuniverso, vuole solo il bene? E perchĂ© non riesce a vincerlo visto che Ăš onnipotente? Si direbbe che Dio abbia bisogno del male per affermare il bene, concludevo. Ma allora, si potrebbe pensare, Ăš lui stesso che inventa il male come suo antagonista? Ma il male puĂČ essere solo unâinvenzione immaginaria e non una realtĂ ? Possibile che Dio giochi con i due poli dellâesistenza?
In effetti come si riconoscerebbe il bene se non esistesse il male? Da qui, riflettevo, nasce lâidea della caduta, della tentazione e del libero arbitrio. Lâuomo Ăš libero di agire come vuole, sia nel bene sia nel male. Sapendo perĂČ che il male sarĂ punito e il bene premiato. Lâetica quindi non mette sullo stesso piano il bene e il male, ma dĂ al bene un valore che il male non ha. Anzi, ci dice che il giusto comportamento sta nellâaccettare la guerra fra bene e male e seguire sempre il bene.
Se invece alla fine non ci fosse un Dio che amministra la giustizia? Questo era lâinterrogativo piĂč doloroso. Se lâuomo fosse un prodotto del caso, venuto fuori da una serie di trasformazioni e di combinazioni chimiche di acque, gas, minerali e luci che hanno originato un corpo pensante, casualmente vivente su uno dei pochissimi pianeti in un equilibrio instabile, ma pure miracoloso, fra lâesplosione e la quiete, in una corsa incomprensibile verso non si sa dove?
Se lâuomo, mi dicevo rabbrividendo nel mio kimono a fiori, non fosse altro che una creatura nuda che sogna e immagina un universo a sua misura? Ma non sarĂ che lâuniverso, con le sue crudeli implosioni, le sue temperature glaciali o infuocate, la sua mancanza di ossigeno, le sue corse furibonde, i suoi buchi neri, il suo tempo circolare e misterioso, Ăš talmente poco umano da fare pensare che la vita sia un meraviglioso caso, tanto raro da non avere lâuguale fra i miliardi di corpi celesti? Le domande e le ipotesi saltavano su come pulci affamate: in un mondo fortuito, come e quando si sarebbe formato questo sentimento del giusto e dellâerrato nel susseguirsi di condizioni naturali che hanno portato dal fondo degli oceani un organismo unicellulare a evolversi in una creatura complessa che si chiama essere umano?
Lâetica, insomma, se non viene da un Dio giudice, da dove nasce? E se non esiste una tavola delle leggi, composta dai sacerdoti per i fedeli, da dove sorgerebbe il sentimento del giusto e dellâingiusto? Si tratta solo di norme che lâuomo si dĂ per fare sopravvivere il genere umano? Esiste quella che viene chiamata anima, ma che si potrebbe anche chiamare coscienza, capace di sentimenti che riguardano la paritĂ , il rispetto, la sinceritĂ , il saper distinguere il vero dal falso, la capacitĂ di mettersi nei panni dellâaltro, la chiarezza, il disinteresse, lâonestĂ intellettuale? Possiamo dire che esiste qualcosa di sacro e di miracolosamente significante in mezzo a un caos senza significato? Possiamo pensare che ci sia in noi un piccolo giudice che osserva, indaga, paragona, confronta, e decide dove sta il giusto e dove lâingiusto?
Ă chiaro che quando lâingiustizia ci tocca da vicino, siamo piĂč rapidi, pronti a riconoscerla e opporci. Ma quando lâingiustizia colpisce chi non conosciamo, quando queste persone sono lontane, ci si puĂČ aspettare una reazione uguale? Oppure vale il principio del âlontano dagli occhi lontano dal cuoreâ? Esiste davvero quel piccolo giudice interiore che Friedrich Hegel ha chiamato Coscienza e che Sigmund Freud ha ribattezzato con il severo nome di Super-io?
Questa erano le riflessioni che ho cominciato a pormi quando ero nel campo di concentramento di Nagoya, dove libri non ce nâerano e io mi rivolgevo ai miei genitori come a persone-libro. Domande che ho continuato a proporre ai miei insegnanti una volta tornata in una scuola italiana, condiviso coi miei compagni, e che ho ripetuto imperterrita anche dopo, quando mi sono sposata con Lucio il pittore, convinta che mettere su famiglia, inventare progetti per il futuro sarebbe stato un modo di trovare le risposte. La giustizia non sta prima di tutto nello stabilire un rapporto di armonia affettiva col mondo? Lâarmonia, se profonda, non contiene in sĂ© la giustizia?
Quando ho perso mio figlio, con cui conversavo di notte sotto le coperte e a cui raccontavo del mondo aspettando che nascesse; quando a tradimento quel bambino con cui giocavo segretamente e giĂ tenevo in braccio prima ancora che avesse aperto gli occhi Ăš morto, sono stata sul punto di morire anchâio. Una cosa strana era successa nel mio ventre senza che lo sapessi. Il piccolo, anzichĂ© nutrirsi di una placenta che lo avvolgeva protettivamente, a furia di voltarsi e rivoltarsi aveva schiacciato proprio il cuscino che avrebbe dovuto nutrirlo. In medicina si chiama âplacenta previaâ.
Quando, dopo un lungo travaglio e ore di tentativi vani di salvarlo, mi Ăš stato detto che il bambino era morto, il sentimento dellâingiustizia subita mi Ăš saltato addosso come una onda furiosa e mi ha soffocata. PerchĂ©, mi ripetevo ostinata e piangente, perchĂ© un bambino delizioso, dai grandi occhi azzurri come la nonna e la madre, il ciuffo castano come il padre, doveva andarsene cosĂŹ presto? Per quale ragione un bambino che giĂ mi parlava, mi prendeva a calci per gioco, rideva se gli facevo il solletico, mugolava di felicitĂ pregustando un futuro in comune, se ne doveva andare cosĂŹ, senza salutare? PerchĂ© un utero caldo e accogliente doveva trasformarsi in una tomba gelata?
Tanto ero attaccata a lui che non volevo lasciarlo andare. I medici poi mi hanno detto che mi davano per persa, perché mi rifiutavo di espellere il bambino morto e cacciavo fuori tanto sangue che presto sarei rimasta senza. Loro continuavano a tirare, a trafficare per portarlo al mondo, ma il piccolo si aggrappava al mio ventre e io a lui. Alla fine hanno provato a tagliare la carne, come fa il cacciatore della fiaba per tirare fuori Cappuccetto Rosso dalla pancia del lupo, ma era troppo tardi.
Io tenevo gli occhi chiusi e mi dicevo che se doveva andare via quel piccolo tesoro, che avevo coccolato e accarezzato per mesi, sarei andata via con lui. Se dobbiamo morire, moriamo insieme, diceva il mio corpo e si stringeva a quel bambino che avevo tanto desiderato e tanto amato prima ancora di conoscerlo. Mi hanno salvata, contro la mia volontĂ , e quello strappo non lâho mai dimenticato. Un senso di ingiustizia che ha dato linfa e spessore a tutte le altre ingiustizie che ho subĂŹto e che ho visto subire.
Ă giusto lasciare morire la madre con il figlio? O Ăš giusto cercare di tenerla in vita a tutti i costi? Ă piĂč umano salvare la madre o il figlio? Adrienne Rich, in quel bellissimo libro che si chiama Nato di donna, racconta che il parto in origine era una pratica solo femminile, fatta da âmani di carneâ, che sono poi state sostituite da âmani di ferroâ, ovvero dal forcipe. Le tenere ma robuste mani di carne si portavano appresso una sacralitĂ che permetteva alle donne di esprimere un potere prestigioso: il potere di dare la vita che Ăš allâorigine di tutte le cose. Ma con lâandare del tempo e con la divisione sempre piĂč astuta e intelligentemente costruita dei compiti, le donne sono state espropriate della sacralitĂ della vita, e confinate nel limbo dellâinconsistenza, lontane dalla vera responsabilitĂ generativa che piano piano Ăš stata attribuita solo allâuomo.
Per sancire questo passaggio, su cui alcuni studiosi vicini allâIlluminismo come John Stuart Mill e Friedrich Engels hanno scritto, si eleva alto e potente il messaggio greco trasportato in scena da Eschilo. Oreste, che ha ucciso la madre adultera, viene inseguito dalle Erinni che difendono i diritti delle madri. Il giovane matricida che corre disperato per mari e monti senza pace, punito per un delitto fino ad allora considerato imperdonabile, chiede ad Apollo, il nuovo dio della democrazia periclea, di istruire un processo per giudicare il suo delitto. Apollo lo accontenta. Ma nel tribunale degli dĂši saranno chiamate tutte divinitĂ maschili. La sola figura femminile sarĂ Atena, che non ha madre nĂ© mai lâavrĂ , essendo nata dalla testa di Zeus, e quindi non conosce nĂ© si interessa ai diritti della maternitĂ .
La sentenza di Apollo, che tutti gli dĂši approveranno allâunanimitĂ , sarĂ definitiva per il futuro delle donne: Oreste Ăš innocente perchĂ© non ha infierito sul principio della vita, ma ha solo colpito il corpo che conteneva e conservava servilmente il seme del padre, lâunico vero generatore di vita. Con questo argomento che mette a tacere per sempre le Erinni difenditrici del diritto materno (leggendo Eschilo ho sempre pensato che le Erinni che si trasformano in Eumenidi acconsentono un poâ troppo facilmente alle sentenze e mi sono chiesta: lo fanno per viltĂ , per paura, o con saggezza si rimettono al piĂč forte?), il rapporto fra i due sessi cambia in maniera chiara e definitiva. Da allora in avanti lâuomo sarĂ signore e padrone della continuitĂ della specie. Le d...