I tre decenni che vanno dal 1884 al 1914 separano il XIX secolo, conclusosi con la corsa alla conquista dellâAfrica e la nascita dei pan-movimenti, dal XX, apertosi con la prima guerra mondiale. Si usa indicarli come lâepoca dellâimperialismo, caratterizzata da una quiete stagnante in Europa e da una frenetica ridda di avvenimenti in Asia e in Africa1. Taluni suoi aspetti fondamentali appaiono cosĂ vicini ai fenomeni totalitari del XX secolo che si Ăš tentati di considerare lâintero periodo come la quiete che precede la tempesta, una fase preliminare delle successive catastrofi. Dâaltronde, la tranquillitĂ e la sicurezza sono ancora cosĂ predominanti nella coscienza dei suoi uomini politici che quasi tutte le fonti ufficiali, anche quando si tratta di documenti rivoluzionari, parlano chiaramente il linguaggio del XIX secolo. Ci Ăš difficile guardare con occhio non prevenuto questo passato recente, eppure giĂ cosĂ lontano, perchĂ© conosciamo la fine di questa storia e sappiamo che essa ha portato a una rottura quasi completa con tutte le tradizioni dellâoccidente. Peraltro, dobbiamo ammettere una certa nostalgia per questa «etĂ aurea della sicurezza» (Stefan Zweig), in cui persino la crudeltĂ e lâorrore osservavano ancora determinate regole, non superavano determinati limiti e, tutto sommato, si poteva ancora contare sul buon senso. CosĂ vicini come siamo cronologicamente a questo passato, le nostre esperienze politiche, i campi di concentramento e le fabbriche della morte, ce lo rendono non meno remoto degli altri periodi della storia occidentale.
In Europa il fatto centrale dellâepoca imperialista fu lâemancipazione politica della borghesia, che fino allora era stata la prima classe nella storia a conquistare la preminenza economica senza aspirare al dominio politico. La borghesia si era sviluppata di pari passo con lo stato nazionale, nel suo ambito; e per principio questo rimaneva al di sopra di una societĂ divisa in classi, la governava. Anche dopo essersi affermata come classe dominante, essa gli aveva lasciato le decisioni politiche. Soltanto quando lo stato nazionale si dimostrĂČ una struttura inadatta per lâulteriore espansione dellâeconomia capitalista, il conflitto latente fra stato e societĂ si trasformĂČ in una lotta aperta per il potere. Durante lâepoca dellâimperialismo nessuna delle due parti conseguĂ una vittoria decisiva. Le istituzioni nazionali resistettero dovunque alla brutalitĂ e megalomania delle aspirazioni imperialistiche, e i tentativi della borghesia di usare lo stato e i suoi strumenti di violenza per i propri scopi economici ebbero solo in parte successo. CiĂČ cambiĂČ quando la borghesia tedesca puntĂČ tutte le sue carte sul movimento hitleriano nella speranza di ottenere il potere con lâaiuto della plebaglia. Era comunque giĂ troppo tardi. Essa riuscĂ a distruggere lo stato nazionale, ma la sua fu una vittoria di Pirro, perchĂ© la plebaglia si rivelĂČ desiderosa e capace di assumere in proprio la guida politica e la esautorĂČ insieme con le altre classi e istituzioni.
Espansione e stato nazionale
«Lâespansione Ăš tutto», diceva Cecil Rhodes, e si rammaricava al vedere ogni notte in cielo «le stelle⊠questi vasti mondi che non si possono mai raggiungere. Annetterei i pianeti se potessi»2. Egli aveva scoperto il principio basilare della nuova epoca: in meno di due decenni i possedimenti coloniali britannici si arricchirono di 4 milioni e mezzo di miglia quadrate e 66 milioni di abitanti, quelli francesi di 3 milioni e mezzo di miglia quadrate e 26 milioni di abitanti; nel frattempo i tedeschi crearono un nuovo impero di un milione di miglia quadrate e 13 milioni di indigeni, e il Belgio, mercĂ© lâiniziativa strettamente personale del re, acquistĂČ un territorio di 900 mila miglia quadrate con una popolazione di 8 milioni e mezzo3. Eppure, in uno sprazzo di saggezza Rhodes riconobbe lâintrinseca follia del principio e il suo contrasto con la condizione umana. Naturalmente, nĂ© lâintuizione nĂ© la tristezza ne modificarono la politica. Egli non sapeva cosa farsene dei lampi di saggezza che lo portavano cosĂ oltre le normali capacitĂ di un affarista ambizioso con una marcata tendenza alla megalomania.
«La politica mondiale Ăš per una nazione quel che la megalomania Ăš per lâindividuo»4, disse Eugen Richter, il capo del partito progressista tedesco, pressappoco nello stesso momento storico, e a proposito dello stesso fenomeno. Ma la sua opposizione alla proposta bismarckiana di appoggiare le compagnie private nella creazione di basi commerciali e marittime mostrava chiaramente che egli capiva ancor meno di Bismarck le necessitĂ economiche nazionali. Coloro i quali combattevano o ignoravano lâimperialismo (Eugen Richter in Germania, Gladstone in Inghilterra, Clemenceau in Francia) sembravano aver perso il contatto con la realtĂ , e non rendersi conto che il commercio e lâeconomia avevano giĂ coinvolto ogni paese nella politica mondiale. Il principio nazionale portava al provincialismo, e la battaglia contro la follia di una politica che poteva reggere solo se continuava nel movimento espansionistico era perduta.
Gli statisti che si opponevano coerentemente allâespansione imperialista rimanevano immuni da tale follia, ma commettevano pesanti errori. CosĂ Bismarck, nel 1871, aveva respinto lâofferta dei possedimenti francesi in Africa in cambio dellâAlsazia-Lorena, e ventâanni dopo acquistĂČ Helgoland cedendo alla Gran Bretagna lâUganda, Zanzibar e Vitu: due regni per una vasca da bagno, come gli rimproverarono, non senza ragione, gli imperialisti tedeschi. CosĂ negli anni ottanta Clemenceau attaccĂČ il «partito degli agiati», dalla mentalitĂ imperialistica, che voleva inviare in Egitto un corpo di spedizione contro gli inglesi, e trentâanni dopo, nellâinteresse di unâalleanza anglo-francese, cedette alla Gran Bretagna i pozzi petroliferi di Mossul. CosĂ Gladstone venne accusato da Cromer in Egitto di essere un uomo a cui non si potevano tranquillamente affidare i destini dellâimpero britannico.
Era abbastanza comprensibile che degli statisti, i quali ragionavano principalmente dal punto di vista del territorio nazionale, diffidassero dellâimperialismo; solo che era in gioco molto piĂș di quelle che definivano «avventure dâoltremare». Essi sapevano per istinto, piĂș che per ragionamento, che questo nuovo movimento dâespansione, in cui il patriottismo si manifestava «nel modo piĂș utile ed efficace col guadagnar denaro» (HĂŒbbe-Schleiden), e la bandiera nazionale era registrata come un «attivo commerciale» (Rhodes), avrebbe finito per distruggere il corpo politico dello stato nazionale. Nella storia piĂș recente le imprese di conquista e la fondazione di imperi erano cadute in discredito per buone ragioni. Esse erano state compiute con successo soltanto da forme statali basate, come la repubblica di Roma, principalmente sul diritto, perchĂ© alla conquista era seguita lâintegrazione dei popoli piĂș eterogenei mercĂ© lâimposizione di una legge comune. Invece lo stato nazionale, basato sul consenso attivo di una popolazione omogenea al suo governo («le plĂ©biscite de tous les jours»5), mancava di un simile principio unificatore e, in caso di conquista, doveva assimilare anzichĂ© integrare, imporre il consenso anzichĂ© la giustizia, cioĂš degenerare in tirannide. GiĂ Robespierre se nâera reso conto quando aveva esclamato: «PĂ©rissent les colonies si elles nous en coĂ»tent lâhonneur, la liberté».
Lâespansione come fine supremo e permanente era lâidea centrale dellâimperialismo. PoichĂ© non implicava nĂ© il temporaneo saccheggio del territorio conquistato nĂ© la definitiva assimilazione dei suoi abitanti, era un concetto assolutamente nuovo nella storia. La sua originalitĂ (che sorprendeva perchĂ© i concetti radicalmente nuovi sono rarissimi in politica) era invero apparente, dovuta al fatto che si trattava di un concetto non realmente politico, che traeva origine dal campo della speculazione commerciale, in cui espansione significava continuo ampliamento della produzione industriale e delle transazioni economiche caratteristiche del XIX secolo.
Nella sfera economica lâespansione era un concetto adeguato perchĂ© lo sviluppo industriale era una realtĂ operante. Essa significava aumento dellâeffettiva produzione di beni da usare e consumare. Tali processi produttivi sono di per sĂ© illimitati, trovano un limite soltanto nella capacitĂ dellâuomo di produrre il suo mondo, organizzarlo, equipaggiarlo, migliorarlo. Quando nellâultimo terzo del secolo scorso la produzione e lo sviluppo economico rallentarono, gli ostacoli non furono tanto economici quanto politici: la rivoluzione industriale urtava contro i confini del territorio nazionale, la fabbricazione e la distribuzione dei suoi prodotti dovevano fare i conti con una molteplicitĂ di popoli organizzati in sistemi politici molto diversi.
Lâimperialismo nacque quando la classe dominante cozzĂČ contro le limitazioni nazionali allâespansione dei suoi affari. La borghesia si dedicĂČ alla politica spinta dalla necessitĂ economica; perchĂ©, se non voleva buttare a mare il sistema capitalistico, basato sulla legge del costante sviluppo industriale, doveva imporre questa legge ai rispettivi governi proclamando lâespansione come il fine ultimo della politica estera.
Con la parola dâordine «espansione per lâespansione» cercĂČ di indurre i governi nazionali a porsi sul piano della politica mondiale. Non ci riuscĂ mai del tutto. Da principio il nuovo indirizzo proposto sembrĂČ condurre a una specie di equilibrio naturale, perchĂ© piĂș nazioni lo adottarono contemporaneamente, in competizione lâuna con lâaltra. Nella sua fase iniziale lâimperialismo potĂ© ancora apparire in realtĂ come una lotta fra «imperi concorrenti», ed essere distinto dallâ«idea dâimpero nellâantichitĂ e nel Medioevo, che concerneva una federazione di stati soggetti allâegemonia di uno di essi, e abbracciava⊠lâintero mondo conosciuto»6. Tuttavia tale competizione era soltanto uno dei molti residui del passato, una concessione al principio nazionale ancora dominante, secondo cui lâumanitĂ era una famiglia di popoli gareggianti fra loro, o alla convinzione liberale che la libera concorrenza stabilisse automaticamente i propri limiti, proteggendo il «gioco delle libere forze» e impedendo che un concorrente liquidasse tutti gli altri. Lungi dallâessere il risultato inevitabile di misteriose leggi economiche, questo felice gioco delle forze dipendeva abbondantemente, lĂ dove sussisteva, dalle istituzioni politiche, giuridiche e poliziesche, che precludevano ai concorrenti lâuso della pistola. Una competizione fra giganteschi complessi economici, che orgogliosamente si fregiavano del titolo di «impero» ed erano armati fino ai denti, non poteva concludersi che con la vittoria di uno e la morte degli altri. Infatti la concorrenza, al pari dellâespansione, non racchiude in sĂ© un principio politico; entrambe hanno bisogno di un potere politico che le freni e le controlli.
La struttura politica, a differenza di quella economica, non puĂČ espandersi allâinfinito, perchĂ© non si basa sulla produttivitĂ umana, che Ăš invero illimitata. Di tutte le forme di ordinamento statale, quella nazionale Ăš la meno adatta allâestensione perchĂ© il consenso che ne Ăš alla base viene difficilmente ottenuto da popoli sottomessi. Uno stato nazionale non potrebbe mai soggiogare popoli stranieri mantenendo pulita la sua coscienza, perchĂ© ciĂČ Ăš possibile soltanto quando il conquistatore Ăš convinto di imporre una legge superiore a dei barbari7. Esso, invece, concepisce la sua legge come il distillato di una sostanza nazionale unica che non vale fuori del suo popolo e oltre i confini del suo territorio.
Dovunque si Ăš presentato nella veste di conquistatore, ha infatti destato la coscienza nazionale e la volontĂ dâindipendenza nel popolo vinto, mandando a monte il tentativo di costruzione di un impero duraturo. CosĂ i francesi trattarono lâAlgeria come una provincia del territorio metropolitano, ma non poterono imporre le proprie leggi alla popolazione araba. Continuarono a rispettare la legge islamica e accordarono ai loro cittadini musulmani lo statut personnel, creando lâassurdo ibrido di un territorio nominalmente francese, che era giuridicamente parte integrante della Francia quanto il dipartimento della Senna, ma i cui abitanti non erano cittadini francesi.
I «costruttori imperiali» inglesi, fiduciosi nella conquista come metodo permanente di governo, non riuscirono mai a incorporare i loro immediati vicini, gli irlandesi, nellâampia struttura del British Empire o del Commonwealth of Nations. E quando, dopo la prima guerra mondial...