L'uomo del porto
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L'uomo del porto

Cristina Cassar Scalia

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  1. 328 pagine
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L'uomo del porto

Cristina Cassar Scalia

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Informazioni sul libro

Vincenzo La Barbera, professore di filosofia presso il liceo classico, era un tipo solitario, che usava come casa una vecchia barca a vela ormeggiata nel porto ed era amatissimo dagli studenti. Niente debiti, né legami con la malavita. Eppure qualcuno lo ha ucciso, lasciando il suo corpo nel letto dell'Amenano, un corso d'acqua che secoli fa un'eruzione dell'Etna ha ricoperto di lava e che ora scorre sotto il centro storico della città. Vanina Guarrasi - la cui esistenza si è complicata, casomai ce ne fosse bisogno, per via di una minaccia di morte giunta dalla mafia palermitana - prende in mano l'indagine. Di indizi, nemmeno l'ombra. Il mistero è assai complesso, e forse ha le sue radici nel passato ribelle della vittima. Per risolverlo, però, Vanina potrà contare ancora una volta sull'aiuto dell'impareggiabile commissario in pensione Biagio Patanè.- Ma 'sto fiume da dove salta fuori? - chiese Vanina.
- L'Amenano è. Sa, il fiume sotterraneo che scorre sotto la città -. Spanò indicò il soffitto. - La vede la lava che lo seppellí?
Vanina alzò gli occhi. Se la sentí quasi addosso, l'eruzione del 1669.
- Perciò una colata lavica in teoria può arrivare fino a qua.
- In teoria sí, se si riapre qualche cratere piú basso, - confermò l'ispettore, placido.
Tipico del catanese purosangue, considerare l'Etna non come un vulcano capace di distruggerti casa, ma come una gigantessa iraconda con cui convivere e dalla quale lasciarsi ammaliare e dominare. Fatalisticamente. Vanina, che catanese non era, ma che anzi proveniva dalla città rivale, all'idea di vivere alle pendici della muntagna ancora non ci aveva fatto del tutto l'abitudine. Distolse gli occhi dalla lava e tornò a occuparsi del suo nuovo morto ammazzato che, cosí a sensazione, non pareva dei piú ordinari.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858436318

1.

La mattinata prometteva bene. Il sole s’era appena affacciato all’orizzonte e la pietra lavica dei palazzi e delle strade di Catania iniziava ad assorbire il calore dei primi raggi. Il profilo del Duomo si slanciava su un cielo limpido che piú azzurro non poteva essere, e che contrastava con il grigio e il bianco della cupola. Mattia camminava svelto per via Etnea, le mani affondate nelle tasche dei jeans, le spalle strette nell’eskimo verde chiuso fin sotto il mento. L’aria fresca gli sferzava il viso assonnato, ancora solcato dai segni del cuscino. Un piede dopo l’altro, lo sguardo fisso sul basolato. Stavolta non ce l’avrebbe fatta, inutile prendersi in giro. Tre materie in due mesi potevano essere un obiettivo realizzabile per i suoi colleghi, la cui unica occupazione era lo studio a tempo pieno della medicina, ma non certo per lui, costretto a farsi in quattro tutte le sere in un pub pur di sbarcare il lunario.
La testa altrove, rischiò di andare a sbattere il naso contro il Liotro. Alzò gli occhi sulla statua e salutò con un cenno quell’elefante maestoso che ogni giorno lo accoglieva nel salotto di pietra della città. A quell’ora del mattino il crocevia tra via Etnea e via Vittorio Emanuele era pressoché deserto, ma i bar avevano già aperto. Mattia s’infilò in quello d’angolo e chiese un caffè doppio.
L’uomo dietro il bancone glielo serví.
– Un cornetto? Una raviola? – gli propose.
– No, grazie.
– Un iris, fritto un momento fa?
Mattia scosse il capo.
Quello non si diede per vinto. – Una brioscia, allora, calda calda.
Tanto fece che lo convinse.
Brioche in mano, Mattia riprese la sua strada. Rallentò davanti alla fontana dell’Amenano, nota ai catanesi come acqua a linzolu per la forma che l’omonimo fiume sotterraneo assume attraversandola in verticale e ricadendo giú in una cascata sottile come un lenzuolo. È l’unico punto in cui questo si manifesta in superficie, poi ritorna subito nelle viscere della città.
Mattia risalí idealmente il suo corso, che l’avrebbe condotto dritto dritto al luogo di lavoro, che proprio ingrottata sul letto dell’Amenano aveva la saletta piú suggestiva. Attraversò la Pescheria, lo storico mercato del pesce di Catania già animato di voci e con i banchi pronti per accogliere gli avventori quotidiani, e s’infilò nelle stradine che portavano al locale. La piazzetta davanti all’entrata era deserta, come ovvio a quell’ora. La porta accanto, invece, era socchiusa. Mattia si avvicinò e all’improvviso si trovò davanti Elettra, una dei due responsabili della struttura. La sua preferita.
Occhi semichiusi, viso piú assonnato del suo.
– Mattia! Come mai qui a quest’ora?
– Ciao Ele. Ieri sera s’è fatto piú tardi del solito, avevo ancora un capitolo da studiare e ho chiesto a Sergio se potevo completare stamattina le pulizie della grotta –. Sergio era il socio di Elettra.
– Le chiavi ce le hai? – s’informò la ragazza, chiudendosi il giubbotto. Di giorno lavorava come maestra in una scuola materna di Acireale.
– Sí, certo, ho quelle dell’ingresso laterale, cosí scendo direttamente nella grotta.
Elettra si chiuse la porta alle spalle e lo precedette; teneva lo scooter proprio lí accanto.
– Vabbe’, Mattia, buon lavoro –. Si abbassò sulle ginocchia per sganciare la catena di sicurezza dalla ruota.
Mattia s’incantò a guardarla. Si auto-insultò: ma puoi essere cosí inchiappato? Sei mesi che te la sogni pure la notte e manco un passo avanti riuscisti a fare?
– Mattia, mi hai sentito?
Cadde dalle nuvole. – Eh?
Elettra pareva seccata. – La porta, come mai è aperta?
La porta? Quale porta? Ah, sí, quella del… No che non è ape…
– Strano, – fece Mattia, stupito.
– Non è che te la scordasti ieri sera?
– No, no. Sono uscito dall’ingresso principale. Poi non lo so che è successo. Però mi pare strano che Sergio l’abbia dimenticata, è cosí preciso.
La spinse ed entrò. Elettra mollò lo scooter e gli andò dietro. Scesero i gradini di pietra lavica con cui si accedeva alla grotta e accesero la luce, volutamente fioca. Nella prima saletta era ancora tutto apparecchiato, come lo aveva lasciato Mattia. Fecero gli ulteriori gradini che congiungevano la saletta con la grotta vera e propria, quella nella quale scorreva l’Amenano, e dov’erano sistemati solo tre tavolini.
– C’è una puzza strana, – disse Elettra. Mattia annuí, l’aveva avvertita anche lui.
Avvicinandosi alla grotta, l’aria, sempre piú umida e rarefatta, amplificava gli odori. Ma quello era un tanfo strano. Dolciastro.
Mattia accese le luci. L’immagine che gli comparve davanti, illuminata dai faretti disseminati nel letto del fiume, non l’avrebbe dimenticata mai piú.

2.

Il sonno, per natura difficoltoso e dalla vita reso agitato, del vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, detta Vanina, da una settimana a quella parte s’era popolato di tutti i sogni che in trentanove anni non aveva mai fatto. O di cui perlomeno non riusciva a conservare memoria. Incubi, troppo spesso, assolutamente prevedibili date le circostanze. Un garbuglio di elementi presi qua e là da ogni esperienza vissuta, che la sua mente rimescolava con l’estro di uno chef creativo, e in cui Palermo era sempre l’elemento preponderante. Il protagonista piú frequente, manco a dirlo, era suo padre: l’ispettore Giovanni Guarrasi. Vanina avrebbe voluto poter decidere quando svegliarsi, in modo da estrapolare solo il bello di quelle apparizioni oniriche, risparmiandosi invece l’epilogo, che purtroppo era sempre lo stesso. Approfittare della temporanea possibilità di abbracciarlo senza poi essere costretta a rivederlo ancora una volta disteso su un marciapiede, il corpo martoriato dai proiettili, e sentirsi di nuovo come quel giorno: inerme, indifesa, impotente. Con la differenza che nel sogno non era piú una bambina, era una donna. E non era affatto indifesa: era un funzionario di polizia, e le sarebbe bastato estrarre la Beretta d’ordinanza dalla fondina per modificare il corso degli eventi. Se solo ogni volta a quel punto non si fosse svegliata, sudata quasi avesse corso una maratona e col cuore fuori dal petto.
Vanina accese lo schermo dell’iPhone e lesse l’ora: le sette. Eccola là, l’altra novità dell’ultima settimana. Mai nella sua vita le era successo, come invece accadeva in quei giorni, di abbandonare il letto prima ancora che la sua batteria di sveglie iniziasse a suonare. Disattivò le prime due sul telefono e si alzò. Si trascinò in cucina e disinserí la terza, quella meccanica, che quando iniziava a suonare, vibrando sui piedini, non dava tregua finché qualcuno non premeva con forza il tasto metallico sul bordo superiore.
Con un occhio chiuso e uno aperto si preparò il caffè, due capsule in una tazza, e si diresse verso il soggiorno per berlo davanti alla vetrata che dava sull’agrumeto. Aprí la tenda e si mise nell’angolo da cui si vedeva l’Etna, che in una giornata cosí limpida pareva disegnata. Aprí l’anta a scorrimento per mettere fuori un braccio e capire se la temperatura da inizio di dicembre le avrebbe consentito di fumare fuori la prima Gauloises della giornata quando qualcuno le si parò davanti facendole fare un salto di un metro. La tazzina volò via e il caffè si sparse per la stanza andando a colpire perfino la libreria dove Vanina custodiva la sua preziosa collezione di vecchi film. Il pigiama non ebbe miglior sorte.
– Ecchemminchia, Lo Faro! – vociò il vicequestore.
L’agente Lo Faro si tirò indietro, bordeaux per l’imbarazzo.
– Mi scusi, capo.
Vanina lo fulminò.
– Qualcuno ti diede il permesso di chiamarmi capo?
Il ragazzo scosse la testa.
– No, dottoressa. È che io credevo… – si fermò.
– Che cosa credevi? Che siccome t’hanno messo a farmi da scorta, ipso facto eri diventato uno dei miei?
Solo i piú fidati, quelli che lei considerava la sua vera squadra, potevano chiamarla capo. L’agente ancora non s’era guadagnato la posizione, anzi pareva mettersi d’impegno per non guadagnarsela mai.
Lo Faro non rispose.
Vanina moderò il tono.
– Che ci fai lí, non dovresti startene al palo davanti al cancello d’ingresso?
Cosí aveva deciso il primo dirigente Tito Macchia, Grande Capo della Mobile di Catania e suo diretto superiore, e cosí Vanina aveva accettato che fosse. Obtorto collo, come del resto aveva acconsentito all’assegnazione di quella scorta, pur essendo convinta di non averne alcun bisogno. Ma una minaccia di morte è una minaccia di morte, e quando capita certi meccanismi si mettono in moto da soli.
– La signora Bettina fu, – si giustificò Lo Faro, – mi offrí il caffellatte e una fetta di ciambella e mi invitò ad accomodarmi dentro, ma io non volevo perdere d’occhio casa sua, perciò la signora mi disse di sedermi qua, che secondo lei era pure il lato piú vulnerabile di tutta la casa. Secondo me ha ragione, dottoressa. Qualcuno qua ci dovrebbe stare sempre.
Ogni giorno Bettina, l’ultrasettantenne vicina di casa, nonché proprietaria del rus...

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