La terra, la storia e noi
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La terra, la storia e noi

Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz

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La terra, la storia e noi

Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz

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Gli storici della scienza francesi Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz analizzano il modo in cui politica ed ecologia si sono intrecciate nei secoli, collocando storicamente l'"Antropocene", l'era geologica in cui l'azione dell'uomo sta interessando il pianeta più di qualsiasi forza naturale. La loro esplorazione dei fattori economici e sociali alla base del cambiamento climatico fornisce strumenti che più che aggiungere uno strato di complessità propongono un insieme di connessioni e collegamenti che semplificano e aprono gli occhi.Il libro rivela come la spinta a creare una società usa e getta ecologicamente pericolosa sia in corso da molto più tempo di quanto si possa pensare, e indica una strada precisa, al di là delle retoriche, spiegandoci che esiste un altro modo per fare il punto sull'economia di un paese. La Terra, la storia e noi è lo stato dell'arte definitivo sulla crisi globale che stiamo vivendo, ma è anche un'analisi lucida che reca con sé un messaggio importante: il destino della Terra è nelle nostre mani.

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Informazioni

TERZA PARTE

QUALI STORIE PER L’ANTROPOCENE?

5

TERMOCENE. UNA STORIA POLITICA DELL’ANIDRIDE CARBONICA

Tutti conoscono la curva simbolo dell’Antropocene, che mostra la crescita esponenziale delle emissioni di CO2 negli ultimi due secoli. Eppure, curiosamente, nessuno ne ha mai scritto una storia, quantomeno una storia sufficientemente dettagliata, che permetta di capire, per esempio, quanta parte di responsabilità abbia avuto l’una o l’altra scelta tecnologica nella crisi climatica attuale: l’automobile ha prodotto maggiori o minori quantità di CO2 rispetto all’agricoltura industriale? E quanta ne ha prodotta il trasporto su strada rispetto al trasporto ferroviario e fluviale?
O ancora: quali sono le istituzioni che ci hanno portato sulla strada della catastrofe climatica? Quali grandi processi storici (imperialismo, guerra e preparativi della guerra, globalizzazione economica, fordismo, motorizzazione, periurbanizzazione…) bisogna mettere prioritariamente in relazione con quella curva? Sono tutte domande al momento senza risposta, che costituiscono l’oggetto di ciò che proponiamo di chiamare “storia del Termocene”.1
La riflessione politica e il dibattito pubblico risentono di questa carenza di prospettiva storica: in mancanza di conoscenze accurate, le narrazioni spontanee della crisi ambientale si perdono in critiche indistinte, che chiamano in causa il capitalismo in generale o, peggio ancora, la “modernità”. Quanto agli antropocenologi, abbiamo visto la loro tendenza a proporre narrazioni infrapolitiche, che pongono l’accento sulla demografia o sulla crescita economica.

Una storia di addizioni

Qual è la differenza tra la storia del Termocene da noi auspicata e la storia dell’energia in voga oggigiorno?
Per effetto della crisi climatica, si assiste a un rinnovato interesse per la storia dell’energia. Secondo alcuni studiosi, l’analisi delle “transizioni energetiche” del passato permetterebbe di individuare le condizioni in grado di farci approdare a un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili,2 mettendo così in discussione l’attuale focalizzazione del dibattito sulla produzione. Nelle transizioni del passato, infatti, è stata determinante la domanda: è stata l’automobile a creare l’industria petrolifera, così come la lampadina a incandescenza ha creato le centrali elettriche, e non viceversa. Analogamente, la storia sembra esprimersi a favore di un sostegno pubblico di lunga durata alle energie rinnovabili: gli imprenditori che per primi adottarono nuove fonti di energia hanno svolto un ruolo cruciale nel perfezionare i motori e il loro rendimento, e tale processo incrementale ha potuto realizzarsi soltanto in situazioni di nicchia. Per esempio, le prime macchine a vapore in Inghilterra erano talmente poco performanti da poter essere impiegate solo in prossimità delle miniere di carbone. La storia, infine, mette in discussione la pertinenza degli attuali obiettivi di efficienza energetica. Per un verso, rapportati alla tendenza misurata a partire dal 1880, non appaiono particolarmente ambiziosi;3 per l’altro, la storia dell’energia conferma la grande intuizione di Jevons: consumando meno carbone, le macchine a vapore diventano più redditizie, per cui ne aumenta l’utilizzo e alla fine il consumo nazionale di carbone risulta accresciuto. Questo tipo di effetto-rimbalzo è stato individuato in diversi settori. In Gran Bretagna, per esempio, tra il 1800 e il 2000 il prezzo della luce (misurata in lumen) è sceso di tremila volte ma il consumo è aumentato di quarantamila.4 L’effetto-rimbalzo varia a seconda dei beni e dell’elasticità della domanda rispetto al prezzo, ma globalmente l’efficienza energetica è stata vanificata dalla crescita economica.
Nonostante questi risultati pratici, la storia dell’energia basata su un approccio gestionale poggia su un equivoco di fondo: ciò che studia come “transizione energetica” corrisponde in realtà con estrema precisione all’esatto opposto del processo auspicabile ai nostri giorni nel contesto della crisi climatica e del picco del petrolio.
La brutta notizia, se la storia ci insegna davvero qualcosa, è che le transizioni energetiche non sono mai esistite. Non siamo passati dal legno al carbone, poi dal carbone al petrolio, quindi dal petrolio al nucleare. La storia dell’energia non è una storia di transizioni, ma di “addizioni” successive di nuove fonti di energia primaria. Questo errore di prospettiva dipende dalla confusione tra relativo e assoluto, tra locale e globale: è vero che nel XX secolo l’uso del carbone è diminuito rispetto a quello del petrolio, ma in termini assoluti il consumo non ha fatto che aumentare e a livello globale non se ne è mai bruciato tanto come nel 2014.
La storia dell’energia deve quindi liberarsi in primo luogo del concetto di transizione, che si è imposto in ambito politico, mediatico e scientifico proprio per esorcizzare i timori legati alla “crisi energetica”, espressione all’epoca dominante. Tra il 1975 e il 1980 il termine energy transition (non a caso preso in prestito dalla fisica atomica), coniato da alcuni think tank, venne reso popolare da potenti istituzioni: l’Energy Information Administration americana, il Segretariato svedese per lo sviluppo strategico del futuro, la Commissione trilaterale, la Comunità economica europea e varie lobby industriali. Nella maggior parte dei casi indica la necessità di ricorrere a carburanti alternativi: su tutti il nucleare, ma anche gas e petrolio di scisto, carbone e carburanti sintetici.5 Parlare di transizione anziché di crisi rendeva il futuro molto meno ansiogeno, perché lo ancorava a una razionalità pianificatrice e gestionale.6 Il successo ulteriore del concetto di transizione, anche e soprattutto negli ambienti ecologisti (si veda la solar transition degli anni Ottanta), è attribuibile a una visione del progresso tecnologico articolata in grandi fasi successive e scandita dall’innovazione.
Per un verso, tuttavia, tale nozione impedisce di cogliere la persistenza dei vecchi sistemi energetici, e per l’altro sovrastima l’importanza dei fattori tecnologici a scapito delle scelte economiche. Torniamo al caso del carbone: i consumi mondiali sono passati da 7,3 a 8,5 miliardi di tonnellate tra il 2008 e il 2012. Se il grosso della crescita è dovuto alla Cina (da 3 a 4,1 miliardi), anche in Europa determinati settori “tornano” al carbone in funzione dello scenario economico. All’inizio di questo decennio, ad esempio, a causa del boom del petrolio di scisto (shale gas) negli Stati Uniti, il prezzo del carbone americano era sceso abbastanza perché fosse conveniente sostituirlo al gas russo. In Gran Bretagna, tra il 2011 e il 2012, la quota di elettricità prodotta a partire dal carbone è passata dal 30 al 42 per cento; in Francia è aumentata del 79 per cento.7 Da questo punto di vista il carbone non può essere considerato un’energia più “vecchia” del petrolio; anzi, potrebbe anche esserne il successore.
Un esempio tratto da un libro di Kenneth Pomeranz, La grande divergenza, permette di capire cosa ciò comporti per la storiografia. Prendiamo in considerazione due tecnologie: da un lato la macchina a vapore, dall’altro le fornaci cinesi che consumano meno energia di quelle europee. Come giudicarne l’importanza storica? Perché la macchina a vapore è parsa degna d’interesse, mentre le fornaci vengono generalmente ignorate? Il motivo risiede nella grande abbondanza di carbone: la capacità di ricavarne maggiore energia non appare più così determinante e quindi le fornaci cinesi sono relegate alle note a piè di pagina.8 Se le miniere di carbone inglesi avessero dato segnali di esaurimento a partire dal 1800, la gerarchia d’importanza si sarebbe invertita. I cambiamenti climatici e il picco del petrolio convenzionale pongono dunque il tema della direzione nella storia delle tecnologie, ci obbligano a riconsiderarne gli oggetti e a pensare a una storia “disorientata”.
Per liberarsi dell’idea di transizione la storia dell’energia dovrebbe abbandonare gli ambiti tradizionali e studiare le situazioni del passato in cui alcune società sono state costrette a ridurre i consumi energetici. La crisi degli anni Trenta potrebbe fornire esempi interessanti al riguardo, dal momento che le emissioni di CO2 negli Stati Uniti passarono da 520 a 340 milioni di tonnellate e quelle della Francia da 66 a 55 milioni. In quest’ultimo caso la diminuzione dipese non solo dalla recessione, ma anche dall’evoluzione differenziata dei prezzi: durante la crisi quello del carbone aumentò del 40 per cento, mentre l’indice generale dei prezzi ristagnava. Sempre nel corso degli anni Trenta registrarono un picco anche i combustibili legnosi, prima di calare irrimediabilmente dopo la seconda guerra mondiale.9 Uno storico della decrescita energetica potrebbe poi studiare il caso della Germania del dopoguerra (da 185 a 32 milioni di tonnellate di carbonio) o, più vicino a noi, il crollo dell’Unione Sovietica (606 milioni di tonnellate nel 1992, 419 milioni nel 2002). In entrambi i casi la produzione è calata pesantemente (il Pil dell’Urss si è dimezzato tra il 1992 e il 2002).10
I casi della Corea del Nord o di Cuba dopo il crollo dell’Urss permettono di dare un significato concreto a ciò che può nascondersi dietro il dolce eufemismo di “transizione energetica”. Tra il 1992 e il 1998, privata del petrolio sovietico a buon mercato, l’agricoltura nordcoreana, fondata sulla meccanizzazione e sulle sostanze chimiche, vede calare della metà i raccolti di mais, grano e riso. Il regime nordcoreano dà priorità all’approvvigionamento di carburante per l’esercito, lasciando morire per carestia da seicentomila a un milione di persone (il 3-5 per cento della popolazione), prima di decidersi a chiedere l’aiuto alimentare internazionale.
Nello stesso periodo Cuba, privata del petrolio sovietico e sotto embargo americano, deve affrontare per una decina di anni (il “Período especial”) una situazione che presenta alcune analogie con quella che si prospetta alle nostre società industriali. Per risparmiare energia, gli orari di lavoro nell’industria vengono ridotti, il consumo domestico di elettricità è razionato, l’uso della bicicletta e del car sharing diventa generalizzato, il sistema universitario viene decentralizzato, si sviluppano il solare e i biogas (fino a fornire il 10 per cento dell’elettricità). Nel settore agricolo il rincaro dei pesticidi e dei fertilizzanti chimici, molto energivori, spinge i cubani verso l’innovazione: controllo biologico degli infestanti per mezzo di insetti predatori, fertilizzanti organici, periurbanizzazione dell’agricoltura che consente di riciclare i rifiuti organici; ma alla fine il cibo viene pesantemente razionato.11 Il periodo speciale modifica profondamente la costituzione fisica dei cubani: nel 1993, all’apice della crisi, la razione giornaliera scende a millenovecento chilocalorie. In media ciascun cubano perde cinque chili di peso, con un conseguente calo delle malattie cardiovascolari (–30 per cento).12 La cosa più inquietant...

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