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La filosofia contemporanea
Dal paradigma soggettivista a quello linguistico
Lucio Cortella
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La filosofia contemporanea
Dal paradigma soggettivista a quello linguistico
Lucio Cortella
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Una ricostruzione del discorso filosofico dell'epoca contemporanea che ha l'intento di offrire al lettore un quadro interpretativo unitario dello sviluppo della filosofia dalla crisi del sistema hegeliano a Habermas. Delineando un itinerario attraverso una serie di scuole, autori e testi, Lucio Cortella rende evidente il passaggio dal paradigma del soggetto, dominante nella modernitĂ , al paradigma centrato sul linguaggio, che ha caratterizzato la riflessione contemporanea.
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Thema
PhilosophieV.
Il pensiero neopositivistico-analitico
La critica del paradigma soggettivistico caratterizza sia il neopositivismo sia la filosofia analitica, due tradizioni che, se per certi aspetti possono essere tenute distinte, per altri si intrecciano fra loro non solo per un approccio e per temi spesso vicini ma anche per il fatto che alcuni dei loro esponenti possono essere attribuiti senza forzature allâuna o allâaltra. Valga per tutti la figura di Wittgenstein, che con il suo Tractatus ha indubbiamente influenzato tutta la prima fase del neopositivismo e che con la riflessione degli anni Trenta, culminata nelle Ricerche filosofiche, è stato allâorigine di molta parte della filosofia analitica nella seconda metĂ del Novecento.
La determinazione dei confini fra neopositivismo e filosofia analitica è esercizio non sempre facile e comunque controverso. Il motivo di ciò risiede non tanto nella difficoltĂ di individuare i caratteri del neopositivismo quanto nello stabilire che cosa si intenda propriamente con âfilosofia analiticaâ. Ne esiste infatti una versione âampiaâ e una piĂš âristrettaâ.
Secondo la versione piĂš ampia, analitica può essere detta quella filosofia che si basa appunto sullâanalisi, cioè sulla scomposizione dei concetti, sullâesplicitazione dei presupposti inespressi, sullâargomentazione, sullâindividuazione di paralogismi e fallacie. Intesa in questi termini la definizione di âfilosofia analiticaâ indica non tanto una scuola filosofica quanto uno stile, un modo di concepire lâesercizio filosofico. Non è difficile però individuare lâosservanza di quello stile in molta parte della tradizione filosofica (pensiamo qui allâOrganon aristotelico o allâopera logica di Leibniz). Ma secondo gli analitici contemporanei in quei pensatori del passato vanno riconosciuti non tanto dei protagonisti quanto dei precursori del movimento analitico. Questo infatti assumerebbe dei contorni definiti con lâopera di Gottlob Frege (1848-1925), George E. Moore (1873-1958) e Bertrand Russell (1872-1970), ovvero con lâapplicazione di quello stile filosofico al linguaggio, come oggetto privilegiato se non esclusivo dellâindagine filosofica. In questa versione âampiaâ il neoÂpositivismo non sarebbe cosa diversa dalla filosofia analitica ma piuttosto si rapporterebbe ad essa come la specie al genere. Esso infatti si caratterizzerebbe per lâattenzione privilegiata verso un certo tipo di linguaggio, quello scientifico. Non a caso i neopositivisti stessi riconobbero il loro debito nei confronti del pensiero di Frege e Russell.
Secondo la versione piĂš âristrettaâ la filosofia analitica sorgerebbe invece in Inghilterra negli anni Trenta (anni in cui viene fondata a Cambridge ÂŤAnalysisÂť, la rivista ufficiale del movimento), influenzata soprattutto dal nuovo corso che Wittgenstein stava imprimendo al suo pensiero. Essa si caratterizzerebbe per lâattenzione al linguaggio nella molteplicitĂ delle sue forme, senza privilegiare il paradigma del linguaggio scientifico o perseguire lâideale di una formalizzazione del linguaggio. La filosofia analitica si contrapporrebbe quindi sia al neopositivismo (di cui abbandonerebbe il programma scientista e la stessa teoria empirica della conoscenza) sia al formalismo logico di Frege, Russell e Carnap. Ă allâinterno di questa autocomprensione piĂš ristretta che la filosofia analitica per una certa fase è stata identificata con il tipo di filosofia che si praticava negli anni Cinquanta e Sessanta nelle UniversitĂ di Cambridge e Oxford, ovvero la cosiddetta ordinary language philosophy. In realtĂ lâidea che il linguaggio ordinario costituisca una sorta di norma o contenga la vera saggezza, quella del senso comune, è caratteristica solo di una parte del movimento analitico contemporaneo (di quella parte in cui la figura piĂš rappresentativa è quella di John Austin). La filosofia analitica nel suo complesso si caratterizza invece per lâattenzione alla molteplicitĂ dei linguaggi, da quello etico a quello religioso, da quello metafisico a quello giuridico, da quello psicologico a quello logico-matematico, e dunque non può essere ridotta a filosofia del linguaggio ordinario.
Molto piĂš specifiche sono invece le caratteristiche del movimento âneopositivisticoâ. La sua nascita viene generalmente fatta coincidere con la costituzione nel 1924, attorno alla figura di Moritz Schlick (1882-1936), del cosiddetto ÂŤWiener KreisÂť, cui prendono parte filosofi, matematici e scienziati, fra i quali Neurath, Carnap, Hahn e Frank. Il suo programma è caratterizzato da un orientamento rigorosamente empiristico e dal metodo dellâanalisi logica, nonchĂŠ dallâidea che solo le proposizioni verificabili empiricamente abbiano senso, ovvero le proposizioni delle scienze empiriche. Un discorso a parte meriterebbe la figura di Ludwig Wittgenstein, che del movimento neopositivistico non fece mai parte e la cui concezione filosofica esposta nel Tractatus logico-philosophicus costituĂŹ tuttavia costante oggetto di ispirazione e dibattito nelle riunioni del circolo.
Qual è allora il senso di mettere assieme neopositivismo e filosofia analitica, che una certa interpretazione vedrebbe addirittura contrapposti?
Il primo motivo è di carattere storico. I neopositivisti si videro costretti dallâavvento del nazismo ad emigrare nei paesi anglosassoni, dove la loro originaria concezione venne a âliberalizzarsiâ soprattutto a contatto con la tradizione del pragmatismo americano. In tal modo il neopositivismo americano finĂŹ per assumere proprio quei tratti pragmatici che la filosofia analitica inglese era andata assumendo sulla spinta del ânuovo corsoâ wittgensteiniano. Esemplare è sotto questo profilo la figura di Quine, che ha condiviso il programma neopositivistico delle origini, ha contribuito poi alla sua evoluzione, prendendo le distanze da alcune sue tesi fondamentali, e che infine è diventato il rappresentante piĂš significativo della filosofia analitica americana del Novecento.
Il secondo motivo è di carattere teoretico. Il neopositivismo e la filosofia analitica sono concordi non solo nellâassumere il metodo filosofico dellâanalisi ma anche nellâindividuare nel linguaggio lâoggetto privilegiato di questâanalisi. Ora è ben vero che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, molti esponenti della filosofia analitica hanno cominciato a mettere in discussione quel privilegio, spostando la loro attenzione sulla filosofia della mente o riabilitando il realismo ontologico. Ma la centralitĂ del linguaggio non è mai stata messa in discussione. Semmai si è assistito allâapertura e allâesplorazione di nuovi territori a partire proprio dallâanalisi linguistica.
Il linguaggio è dunque il vero tema della tradizione neopositivistico-analitica (in ciò assolutamente solidale con la tradizione, per molti versi a essa opposta, della fenomenologia e dellâermeneutica). Che il linguaggio abbia un valore paradigmatico risulta evidente giĂ nel Tractatus di Wittgenstein. Tuttavia è in seguito allâulteriore radicalizzazione subita negli anni successivi dal movimento neopositivistico (in particolare col fisicalismo) che esso giunge ad avere una collocazione ancora piĂš rilevante, una collocazione che la vecchia tradizione filosofica europea avrebbe qualificato come trascendentale. E tuttavia accanto a questo sviluppo, che per certi versi sembra accompagnare quello coevo dellâermeneutica heideggeriana, si affaccia anche lâesigenza di de-assolutizzare il linguaggio, ovvero di ripensarlo in connessione con quegli elementi pragmatici di natura extralinguistica, solo alla luce dei quali esso può presentarsi nella sua autentica dimensione e completezza. Il razionalismo critico popperiano rappresenta sotto questo profilo lâavvio di quella fase pragmatica nel neopositivismo che aprirĂ la strada alla cosiddetta epistemologia post-neopositivistica.
Lo stesso processo avviene allâinterno della filosofia analitica, in cui allâanalisi logica del primo Russell si sostituisce progressivamente lâindagine sul linguaggio ordinario, nel quale svolgono un ruolo centrale le pratiche dâuso e le abitudini linguistiche. Di tale svolta pragmatica le Ricerche filosofiche di Wittgenstein rappresentano il testo esemplare. In esse la centralitĂ del linguaggio si riconferma proprio a partire dal riconoscimento delle sue componenti non linguistiche. E la cosiddetta filosofia post-analitica, tipica del pensiero americano nella seconda metĂ del Novecento, ne costituisce la prosecuzione ideale, caratterizzandosi per lâoriginale intreccio di linguaggio, naturalismo, realismo e pragmatismo.
5.1. Wittgenstein: Tractatus logico-philosophicus (1921)
5.1.1. Il mondo è tutto ciò che accade
La prima proposizione del Tractatus (ÂŤil mondo è tutto ciò che accadeÂť) enuncia fin da subito il radicale approccio antisoggettivistico di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Nel mondo non si danno nĂŠ soggetti, nĂŠ ragioni, nĂŠ norme, nĂŠ enti metafisici. Lâunica cosa che noi possiamo dire è che esso è un accadere di fatti.
Wittgenstein precisa subito dopo: ÂŤIl mondo è la totalitĂ dei fatti non delle coseÂť (Wittgenstein 1921, prop. 1.1). Ciò che noi osserviamo nel mondo non sono degli enti (le cose). Queste infatti non ci appaiono mai come entitĂ isolate, astratte dal loro accadere e determinabili per sĂŠ sole, ma sempre e solo in connessione fra di loro, ovvero come fatti. Un fatto è dunque un evento complesso, che noi possiamo certamente scomporre, raggiungendo quindi la dimensione delle cose o degli enti (quelli che Wittgenstein chiama ÂŤoggettiÂť104), ma quando lo abbiamo scomposto abbiamo perso la sua dimensione reale, il suo essere un evento reale. Gli oggetti (gli enti) non appartengono alla realtĂ : essi infatti non accadono (ciò che accade è solo il fatto) e tuttavia senza di essi non potrebbero sussistere nemmeno i fatti. Dunque gli oggetti sono solo la possibilitĂ del mondo reale, ovvero il mondo prima della sua configurazione fattuale, lâinsieme di tutte le possibilitĂ del mondo. Un oggetto è reale solo in quanto è accaduto, cioè solo in quanto è âinâ un fatto.
Lâontologia del Tractatus non è unâontologia fondata sullâente ma sul fatto, ovvero è una ontologia dellâaccaduto, che prima di accadere non ha alcuna realtĂ . E lâaccadimento è per definizione assolutamente casuale. La prima proposizione che in italiano viene tradotta con ÂŤil mondo è tutto ciò che accadeÂť suona in modo ben piĂš radicale in lingua tedesca, dove sta scritto ÂŤDie Welt ist alles, was der Fall istÂť, ovvero (letteralmente) ÂŤil mondo è tutto ciò che è il casoÂť. Esso è un accadimento assolutamente casuale, senza leggi, senza ordine, senza necessitĂ .
Ritorna qui il grande tema annunciato dalla filosofia di Nietzsche (e poi ripreso da Heidegger), lâassoluta insensatezza del mondo, la vana pretesa di trovare una ragione ultima delle cose, una spiegazione in grado di ricondurre lâaccadere a un ordine, a una logica immanente.
Gli stati di cose sono indipendenti lâuno dallâaltro (prop. 2.061). Dal sussistere o non sussistere dâuno stato di cose non può concludersi al sussistere o non sussistere dâun altro (prop. 2.062).
In nessun modo può concludersi dal sussistere dâuna qualsiasi situazione al sussistere dâuna situazione affatto diversa da essa (prop. 5.135). Un nesso causale che giustifichi una tale conclusione non vâè (prop. 5.136). Gli eventi del futuro non possiamo arguirli dai presenti. La credenza nel nesso causale è la superstizione (prop. 5.1361).
Il mondo non è logico, non ha ordine nÊ connessione. Dunque non esistono l...