Alle origini del linguaggio umano
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Alle origini del linguaggio umano

Il punto di vista evoluzionistico

Francesco Ferretti

  1. 192 Seiten
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Alle origini del linguaggio umano

Il punto di vista evoluzionistico

Francesco Ferretti

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«Indagare l'origine del linguaggio in un'ottica evoluzionistica significa analizzare l'avvento delle capacitĂ  verbali nei termini delle abilitĂ , piĂč semplici e di base, giĂ  presenti in altri animali o nelle altre specie di ominidi che hanno segnato il percorso evolutivo dell'Homo sapiens.»Francesco Ferretti spiega perchĂ© le teorie di Darwin applicate alla filosofia del linguaggio sono l'unica via per comprendere natura e origine del nostro parlare.Guarda la presentazione di Francesco Ferretti

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Information

Jahr
2014
ISBN
9788858116715

1. ComplessitĂ 

Per la rabbia, non riusciva nemmeno a parlare. Il 1869 fu un anno amaro per Darwin: un anno di tradimenti e delusioni. Dapprima Alfred Wallace. Nella recensione della decima edizione dei Principles of Geology di Charles Lyell (uno dei testi di base della formazione del pensiero darwiniano), il coinventore della teoria della selezione naturale aveva cambiato bruscamente prospettiva: a riprova della radicale diversità degli umani rispetto agli altri animali, egli sosteneva che la coscienza e il cervello non potevano essere spiegati in riferimento alle leggi naturali. Darwin stava lavorando all’Origine dell’uomo e il cambiamento di prospettiva di Wallace gli apparve come un fosco presagio. E il peggio doveva ancora arrivare.
Il 3 giugno dello stesso anno, St. George Mivart, un discepolo di Thomas Henry Huxley, divenne membro, fortemente voluto dal suo maestro, della Royal Society. Mivart ricambiĂČ i darwinisti con una serie di scritti (apparsi sul periodico cattolico «Month») che attaccavano in modo esplicito e senza mezzi termini la teoria dell’evoluzione. E non era tutto: non appena Darwin ebbe consegnato all’editore le bozze dell’Origine dell’uomo (15 gennaio 1871) comparve On the Genesis of Species il libro che puĂČ essere considerato come il «piĂč devastante attacco globale arrivato a Darwin in tutta la sua vita» (Desmond e Moore, 1991, trad. it. p. 657). CosĂŹ come Wallace, anche Mivart metteva in risalto la debolezza esplicativa della teoria della selezione naturale nel dar conto delle proprietĂ  piĂč peculiari (e piĂč nobili) degli esseri umani. Wallace, tanto per non smentirsi, si schierĂČ dalla parte di Mivart confidando a Darwin che trovava del tutto convincenti gli argomenti antiselezionisti avanzati nel libro. Un attacco del genere lasciĂČ Darwin completamente scosso e senza parole: doveva correre immediatamente ai ripari.
Secondo quanto scritto in On the Genesis of Species, se la teoria della selezione naturale fosse vera, il mondo organico (la straordinaria bellezza e armonia delle sue manifestazioni) sarebbe soltanto il prodotto accidentale del caso. Al carattere accidentale della genesi degli organismi, Mivart contrapponeva una concezione dell’evoluzione governata da «spinte e tendenze interne»: una connotazione fortemente finalistica dello sviluppo della vita organica. Come sottolinea Browne (1996), in effetti Mivart «optĂČ per un compromesso teologico, sostenendo che il processo di variazione fosse guidato dall’alto da qualcuno in grado di indicare un progetto o una direzione nel processo evolutivo» (ivi, p. 330). Spiegare il processo evolutivo in termini teleologici – con il richiamo al disegno di un architetto divino – significava tradire il fondamento stesso della teoria darwiniana. Eppure non era la teleologia di Mivart a impensierire di piĂč Darwin.
La critica che piĂč gli dava da pensare era l’argomento degli «organi incipienti». È utilizzando tale argomento che Mivart sosteneva che le differenze caratteristiche che distinguono le specie «avrebbero potuto essersi sviluppate improvvisamente invece che gradualmente» (Mivart, 1871, p. 34) e che dunque la selezione naturale non poteva essere il dispositivo alla base del processo evolutivo. Con l’argomento degli organi incipienti Mivart colpiva uno dei nodi centrali della teoria darwiniana: il gradualismo – la successione di modificazioni numerose, successive e lievi che Darwin aveva posto a fondamento della propria ipotesi interpretativa.
Oltre a un evidente potere intrinseco, l’argomento degli organi incipienti fa affidamento su una forte plausibilitĂ  intuitiva (non Ăš un caso che argomenti dello stesso tenore di quelli di Mivart vengano riproposti nel dibattito odierno contro la teoria dell’evoluzione). La questione degli organi incipienti merita un’analisi accurata perchĂ© tocca un problema di fondamentale importanza per comprendere l’origine e la natura del linguaggio: la relazione tra complessitĂ  ed evoluzione. Nella sua critica alla selezione naturale, Mivart faceva leva sull’inefficacia esplicativa delle giustificazioni in termini gradualistici della comparsa di organi «straordinariamente complessi» come gli occhi o le ali. In casi di questo tipo, l’argomento di Mivart si mostra fortemente persuasivo: a cosa potevano legittimamente servire le variazioni iniziali di organi la cui funzione Ăš tale solo quando l’organo Ăš pienamente costruito? Su cosa poteva operare la selezione naturale se la funzione di un organo Ăš tale solo quando quell’organo Ăš pienamente sviluppato? Se la selezione naturale Ăš incapace di spiegare l’origine di organi complessi in termini gradualistici, allora c’ù solo un’altra spiegazione da prendere in considerazione: la complessitĂ , in natura, dipende da un evento improvviso in grado di costituirla in un sol colpo. Il caso dell’occhio (ma anche quello dell’ala) Ăš l’esempio che, a partire da Mivart, viene sollevato piĂč di sovente.
Che l’occhio umano sia un sistema straordinariamente complesso Ăš un fatto difficilmente contestabile: esso Ăš composto da numerose unitĂ  strutturali legate tra loro da una rete molto sofisticata di relazioni. Secondo l’argomento degli organi incipienti un dispositivo del genere non puĂČ essere il prodotto evolutivo di modificazioni numerose, successive e lievi perchĂ© le funzioni che lo caratterizzano come un tutto unitario non sono riscontrabili nelle parti costituenti prese singolarmente: la tesi di Mivart Ăš, in effetti, che «dal momento che risultano inutili fin quando non si siano sviluppate le connessioni richieste, tali complesse e simultanee coordinazioni non avrebbero mai potuto essere state prodotte a partire da inizi infinitesimali» (Mivart, 1871, p. 35). In una prospettiva del genere, solo un occhio completamente sviluppato Ăš in grado di assicurare la visione; un occhio allo stadio iniziale, incapace di vedere, non Ăš propriamente un occhio: il sistema pienamente sviluppato, in buona sostanza, presenta tratti non conciliabili con l’opera della selezione naturale. Le critiche di Mivart permangono invariate sino ai nostri giorni; ecco un esempio tratto da Hitching (1982):
L’occhio o funziona nella sua totalità o non funziona affatto. Com’ù dunque possibile che esso sia pervenuto a evolversi per mezzo di miglioramenti darwiniani lenti, costanti, di una piccolezza infinitesimale? È davvero plausibile che migliaia e migliaia di mutazioni casuali fortunate si siano verificate per coincidenza, così che il cristallino e la retina, che non possono lavorare l’uno senza l’altra, si siano evoluti in sincronia? Quale valore di sopravvivenza potrebbe esserci in un occhio che non vede? (citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 117).
L’argomento degli organi incipienti tocca alla radice il presupposto gradualistico del darwinismo. Il punto in discussione Ăš chiaro: se non Ăš possibile dar conto della formazione di organi complessi in termini di modificazioni numerose, successive e lievi, allora la complessitĂ  dei sistemi organici o si dĂ  tutta insieme o non puĂČ darsi affatto. PoichĂ©, dunque, la complessitĂ  non puĂČ essere spiegata facendo appello alla selezione naturale, l’unica spiegazione possibile della presenza in natura di sistemi complessi Ăš la loro dipendenza da un atto di creazione. Il carattere tutto-o-nulla attribuito ai sistemi complessi si sposa felicemente con la tesi dell’architetto divino: tali sistemi esibiscono in effetti un «progetto» e un «fine», due proprietĂ  particolarmente ambite in un matrimonio del genere.
Progetto e fine presuppongono un progettista in grado di far convergere la struttura progettata e il fine per cui Ú progettata. Si tratta della dottrina del «disegno intelligente» tornata recentemente alla ribalta ad opera dei neocreazionisti americani (Behe, 2006; per una discussione critica, cfr. Pievani, 2006; Franceschelli, 2005). Tale dottrina vanta antecedenti illustri: nella Natural Theology (1802), William Paley mostra la necessità di un architetto divino presentando il famoso argomento per analogia, esemplificato dal caso di un orologio:
Attraversando una brughiera, supponiamo che io avessi urtato col piede contro una pietra, e che qualcuno mi avesse chiesto in che modo la pietra fosse venuta a trovarsi lĂ : io avrei forse potuto rispondere che, a quanto ne sapevo, quella pietra poteva trovarsi lĂ  da sempre: nĂ© forse sarebbe stato molto facile dimostrare l’assurditĂ  di quella risposta. Supponiamo perĂČ che io avessi trovato al suolo un orologio, e che mi fosse stato chiesto in che modo l’orologio si trovasse lĂ : io non avrei certo potuto pensare alla risposta che avevo dato prima, ossia che, a quanto ne sapevo, l’orologio poteva essere lĂ  da sempre (Paley, 1802, p. 7; citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 21).
L’argomento per analogia utilizzato da Paley si puĂČ estendere a tutti gli organi di straordinaria perfezione e complessitĂ . Di piĂč, si puĂČ estendere a tutta la grandiosa armonia e perfezione dell’universo: come un orologiaio deve aver progettato l’orologio, allo stesso modo dobbiamo pensare a un progettista divino per dar conto del progetto finalistico che Ăš alla base di ogni aspetto dell’universo. L’argomento per analogia ha un forte impatto intuitivo: ai tempi in cui studiava a Cambridge per diventare un pastore anglicano, lo stesso Darwin lo aveva trovato straordinariamente convincente.

1. Il «colpo da maestro» di Darwin

Ripresosi dallo stato di frustrazione dovuto agli attacchi di Wallace e Mivart, Darwin iniziĂČ a pensare alle possibili contromosse. Mivart (piĂč di Wallace) meritava una lezione: l’argomento degli organi incipienti, in effetti, oltre a mettere in discussione la teoria della selezione naturale, proponeva una concezione della natura umana totalmente inaccettabile per Darwin. Nell’Origine dell’uomo il padre dell’evoluzionismo aveva portato il suo discorso alle estreme conseguenze: considerando le attivitĂ  intellettuali e morali umane nel quadro della selezione naturale, egli aveva reso gli esseri umani animali tra gli altri animali.
Per Mivart un’operazione del genere era improponibile; la sua idea era in effetti che l’agire libero e responsabile degli umani fosse spiegabile soltanto in riferimento a un’anima sovrannaturale: gli umani – piĂč simili agli angeli che agli altri animali – erano per Mivart entitĂ  qualitativamente diverse da tutte le altre specie animali. In una prospettiva di questo tipo, ovviamente, le capacitĂ  piĂč tipiche della natura umana, quelle piĂč «nobili» (come la coscienza o il sentimento morale), non erano giustificabili in termini di selezione naturale. Per Darwin, gli argomenti di Mivart erano mossi dal «fanatismo religioso»: la stesura della sesta edizione dell’Origine delle specie era l’occasione giusta per dargli una lezione.
Come sostengono Desmond e Moore (1991), la risposta di Darwin alle obiezioni di Mivart fu un vero «colpo da maestro». Egli aveva ben chiara l’importanza delle critiche mosse alla teoria della selezione naturale: sapeva bene che la dimostrazione anche di un solo caso di organo complesso non interpretabile nei termini di modificazioni numerose, successive e lievi avrebbe comportato il cedimento dell’intera teoria. Dopo la lettura del libro di Mivart, tuttavia, Darwin rimase saldo sulle proprie convinzioni: l’argomento degli organi incipienti si dimostrava del tutto compatibile con la teoria della selezione naturale.
In risposta a Mivart, Darwin utilizza due ordini di giustificazioni. La prima Ăš che non Ăš richiesto che un’ala o un occhio siano in grado di volare o vedere sin dallo stato iniziale: certi organi hanno cambiato funzione nel corso del tempo (le vesciche natatorie trasformatesi nei polmoni degli anfibi, ad esempio). Una prospettiva del genere, come vedremo nei prossimi capitoli, conoscerĂ  uno sviluppo di grande rilievo (anche per il tema dell’origine del linguaggio) con la teoria dell’«exattamento» di Gould e Vrba (1982). La seconda giustificazione ha a che fare con la questione specifica dei rapporti tra gradualismo e selezione naturale: per quanto l’idea che un organo complesso come l’occhio abbia potuto formarsi attraverso piccoli passi intermedi possa apparire poco convincente, Ăš possibile dimostrare «l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essendo ogni grado utile per chi lo possiede» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239).
Darwin ha ragione: non Ăš necessario che per avere un ruolo adattativo un organo debba essere pienamente efficace. L’efficacia non Ăš una caratteristica del tipo tutto-o-nulla; esistono diverse forme di occhio: alcune piĂč sofisticate, altre meno, ma tutte ugualmente adattate alla vista. Dawkins (1986; 1996) ha descritto in modo particolareggiato i passaggi graduali dell’apparizione dell’occhio umano (i quaranta tortuosi sentieri che aiutano la visione a scalare il «Monte improbabile»). Egli contesta l’idea che un occhio al cinque per cento non serva alla sopravvivenza perchĂ© chi lo possiede non Ăš in grado di vedere: un requisito cosĂŹ forte Ăš richiesto soltanto da quanti sostengono che il vedere (o il volare) siano capacitĂ  che si danno del tutto non si danno affatto. Scrive Dawkins (1986):
Un antico animale in possesso del 5 per cento di un occhio avrebbe potuto usarlo in effetti per qualcosa di diverso dalla vista, ma appare almeno altrettanto probabile che lo usasse per avere una vista al 5 per cento. (...). Una vista che ù pari al 5 per cento della tua o della mia ù senza dubbio molto preferibile all’essere del tutto senza vista. Così una vista all’un per cento ù preferibile alla totale cecità. E il 6 per cento ù meglio del 5 per cento, il 7 per cento ù meglio del 6 per cento, e così via salendo su per la serie graduale continua (ivi, trad. it. p. 119).
E prosegue:
Non solo Ăš chiaro che avere parte di un occhio sia meglio che non avere affatto occhi, ma troviamo anche una serie plausibile di strutture intermedie fra gli animali moderni. CiĂČ non significa, ovviamente, che queste strutture moderne rappresentino realmente dei tipi ancestrali, ma dimostra che forme intermedie sono capaci di funzionare (ivi, trad. it. p. 124).
Queste considerazioni di Dawkins sono estremamente importanti per far fronte all’argomento degli organi incipienti; ogni grado di efficienza funzionale (per quanto minimo) offre un appiglio alla selezione naturale: vedere anche solo un po’ Ăš sicuramente meglio che non vedere affatto, ovvero Ăš adattativamente proficuo. Il discorso di Dawkins procede mostrando le mutazioni graduali che permettono il passaggio dalla macchia fotosensibile dello stato iniziale alla forma «a fossetta» che porta tale macchia a formare prima un proto-cristallino e poi un cristallino vero e proprio, sino ad arrivare allo sviluppo di un occhio pienamente formato. In un’ottica del genere, anche gli organi incipienti hanno una funzione adattativa: l’argomento di Mivart (e dei suoi emuli contemporanei) non Ăš dunque un buon argomento a favore della critica della selezione naturale e del gradualismo da essa implicato. È possibile pensare la conquista del «Monte improbabile» nei termini di una complicazione successiva di strutture: in un’ottica del genere l’evoluzione Ăš interpretabile nei termini di una complicazione di stadi che vanno dal semplice al complesso. Fine del problema? Non proprio.
La risposta di Dawkins (e di Darwin) all’argomento della inutilitĂ  degli organi incipienti in riferimento alle pretese entitĂ  semplici di partenza sembra aprire un nuovo fronte problematico. I naturalisti sono attratti dalle cose semplici (costruire l’impresa scientifica a partire dal basso su solide palafitte): a dare avvio al processo di costruzione dell’occhio Ăš sufficiente un recettore sensibile alla luce. Come sostiene Darwin, sotto un livello di semplicitĂ  di questo tipo non Ăš legittimo scendere; chiedersi come un dispositivo cosĂŹ semplice possa avere avuto origine Ăš ovviamente una domanda interessante, ma non Ăš una domanda che deve riguardare la teoria della «trasmutazione» delle specie: «come un nervo sia diventato sensibile alla luce non ci riguarda piĂč del modo come la vita stessa si sia originata» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239). Con argomenti di questo tipo la questione degli organi di estrema complessitĂ  e perfezione sembra finalmente rientrare nei canoni di una visione naturalistica. Bastano questi argomenti a placare gli animi irati dei creazionisti? No, ovviamente.
Diversamente dai naturalisti, i creazionisti sono attratti dalla complessitĂ  (un creatore divino Ăš incline a fare cose complicate, dopotutto). Il ricorso al gradualismo Ăš possibile soltanto a patto di porre entitĂ  semplici all’origine della concatenazione, ma non tutti i creazionisti sono disposti a considerare realmente semplici le entitĂ  chiamate in causa per dare avvio al processo evolutivo. Quanto sono davvero semplici le supposte entitĂ  semplici da cui prenderebbe avvio l’evoluzione di un organo? Quanto Ăš possibile fare appello alla semplicitĂ  chiamando in causa nell’evoluzione dell’occhio entitĂ  quali una macchia sensibile alla luce? È su questo aspetto della questione che l’offensiva dei critici dell’approccio darwiniano sembra trovare nuovi punti d’appiglio. Behe (2006), ad esempio, nega decisamente che la macchia fotosensibile, da cui avrebbe inizio il processo di complicazione gradualistica alla base della formazione dell’occhio, possa essere considerata in termini di semplicitĂ ; dal suo punto di vista, le supposte entitĂ  semplici di partenza sono in realtĂ  entitĂ  estremamente complesse: con una mossa del genere Behe apre la strada a una concezione molto piĂč radicale di complessitĂ .

2. Semplici complessitĂ 

L’idea che la complessitĂ  debba dipendere da un atto di creazione Ăš ben esemplificata dagli argomenti che Behe (un fautore del «disegno intelligente») porta in favore della «complessitĂ  irriducibile». Cosa si deve intendere con tale espressione? La risposta a questa domanda Ăš, di nuovo, ben esemplificata dal caso dell’occhio:
La «macchia sensibile alla luce», che Dawkins prende come punto di partenza, per funzionare richiede una cascata di fattori, fra i quali la 11-cis-retinale e la rodopsina. Dawkins non ne fa menzione. E da dove Ăš venuta fuori la «fossetta»? Una palla di cellule – di cui la fossetta deve essere fatta – tenderĂ  ad essere tondeggiante, a meno che non venga tenuta nella forma corretta da un sostegno molecolare. Dozzine di proteine complesse, infatti, sono coinvolte nel compito di mantenere la forma della cellula, ed altre dozzine controllano la struttura extracellulare; in mancanza di queste, le cellule prendono la forma di tante bolle di sapone. Queste strutture rappresentano forse delle mutazioni verificatesi di colpo, in una sola volta? Dawkins non ci dice come si sia giunti all’apparente semplice forma «a fossetta» (Behe, 2006, trad. it. pp. 70-71).
Secondo Behe, le presunte entitĂ  semplici poste alla base del processo evolutivo sono in realtĂ  entitĂ  estremamente sofisticate. Sono piĂč che complesse: sono irriducibilmente co...

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