La valle dei maghi
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La valle dei maghi

Kamal Abdulla

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La valle dei maghi

Kamal Abdulla

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Romanzo di grande suggestione, La valle dei maghi recupera tutto il fascino dell'Oriente e delle sue fiabe, catapultando il lettore nel cuore di un mondo i cui abitanti possono dominare il tempo e lo spazio. Come ne Il manoscritto incompleto, il lettore si incammina su più vie narrative caratterizzate da uno stile traforato, lirico e di finissima lavorazione, che ricorda il fiore dell'arte islamica con le sue decorazioni e i suoi motivi. Kamal Abdulla realizza un'opera in cui alla bellezza del sogno e alla sua poesia si contrappongono oscure passioni come la sete di vendetta, l'oltraggio e la ferocia. L'umanità non sembra tuttavia irrecuperabile: una luce di speranza rischiara le coscienze degli uomini, nell'auspicio che i figli non ripetano gli stessi errori dei loro padri. La valle dei maghi crea un ponte simbolico fra culture. Occidente e Islam condividono molto più di quanto credano.

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Información

Año
2021
ISBN
9788831492164
LA VALLE DEI MAGHI
Mancava un soffio… Se si fosse sforzato ancora un po’ a protendere le braccia verso l’alto, avrebbe potuto toccare le stelle. Karavanbashi non riusciva a staccare gli occhi carichi di stupore da quegli astri stanchi, viziati da innumerevoli sguardi, e che si spargevano proprio sopra di lui come una manciata di sale. Passò molto tempo prima che finalmente staccasse gli occhi da quel magico spettacolo e iniziasse a guardarsi attorno… Cavalli, muli, cammelli: tutti, a modo loro, si stavano preparando un posto dove trascorrere la notte. Col respiro pesante, la carovana si stava lentamente immergendo nel silenzio della notte. Solo a tratti si udiva il mugghìo irrequieto di qualche cammello, accucciato di fianco agli altri, oppure il nitrito di un cavallo; in lontananza latrava un cane, che, confuso con l’ululato di un lupo, s’insinuava angoscioso nel cuore degli uomini, come quando si incontra un viandante solitario lungo il cammino. Null’altro poteva infrangere quel sinistro silenzio incombente. Tutt’attorno gli uomini avevano già acceso i fuochi che, esausti come il faticoso giorno che andava a concludersi, non erano più fiamme ma solo sparsi tizzoni covati sotto la cenere. Ricoperti di lichene, i cammelli giacevano immobili come sassi, mentre i cavalli e i muli erano pietrificati dalle tenebre.
***
La grande carovana, fermatasi per la notte proprio in quel punto, con tutti i suoi animali, servi, uomini e schiavi, aveva percorso un lungo ed estenuante cammino; casa era ormai vicina. Karavanbashi lo percepiva anche dal colore del terreno che mutava lentamente e che, a ogni passo della carovana, si induriva sempre di più per il gelo. A Dio piacendo, una volta a casa, anche la paura di incontrare banditi e rapinatori li avrebbe abbandonati. In quegli istanti però, sebbene si trovassero sulla via di casa, la paura, come il puzzo di una carogna putrescente, non smetteva di incalzarli. Con la coda dell’occhio, Karavanbashi scorreva soddisfatto le alte figure delle ombre che fianco a fianco camminavano a passo scandito: i guardiani. Li conosceva bene tutti e tre, e si fidava ciecamente di loro. Quando erano ancora in patria li aveva sottoposti a numerose prove e solo in seguito aveva accettato di prenderli nella sua carovana.
I guardiani si avvicinarono fingendo di non averlo riconosciuto, e il loro capo, seguendo il rituale stabilito, gli chiese come si chiamasse la notte. Fra sé e sé Karavanbashi pensò: E se non te lo dicessi, che mi fai?, ma ad alta voce proferì: «Orizzonte rosso porpora». I guardiani gli passarono accanto e svanirono nell’oscurità.
Ogni notte aveva il suo nome. Era l’eunuco Ibrahim aghà, la persona a Karavanbashi più cara e fidata, a darle il nome, e ogni mattina lo diffondeva fra la genti della carovana. Solo loro dovevano saperlo e, al di fuori, non un’anima doveva venirne a conoscenza: era così che, durante il lungo e pericoloso cammino, si proteggevano dagli intrusi. In viaggio era molto importante contare su una simile difesa contro banditi, ladri e assassini. C’era poco da scherzare, la carovana era simile a una donna amatissima, ornata da moltissimi gioielli: in un primo tempo, era destinata a essere gettata ai piedi di Sua Altezza; in seguito, la merce sarebbe stata consegnata nei bazar e nelle botteghe di metalli e pietre preziose e ai clienti…
Quante volte aveva guidato una simile carovana. Essere un eterno viaggiatore era stato tracciato nel suo destino, molto tempo prima e in modo incredibile, da una mano leggera che sembrava un alito proveniente dal paradiso. I suoi famigliari, sua moglie, il suo unico figlio, il suo servitore, e le serve, erano cresciuti, divenuti adulti e invecchiati in sua attesa, lui invece non era cambiato; come se in lui si nascondesse un qualcosa, una forza strabiliante, una tensione inaudita, non umana che lo penetrava fino al midollo, conservandolo e custodendolo. Non gli era dato di invecchiare e neppure di perdere le forze, quasi fosse depositario di un fine altissimo, di un segreto del tutto recondito e inviolabile, nel cui segno fosse trascorsa la sua vita. Ma se fosse così o no, lui stesso non sapeva dirlo con un minimo di ragionevolezza.
Non volendo stancarsi la mente con quelle riflessioni, Karavanbashi entrò nella tenda che era stata sistemata apposta per lui. Dal nulla, come dall’oltretomba, comparve Ibrahim aghà, scivolando rapido dietro di lui. Ibrahim aghà era un uomo prestante dalla barba fulva che sembrava stesse cominciando a farsi più pallida pelo dopo pelo… Probabilmente la sua faccia non tocca l’acqua da almeno un mese pensò, chissà perché, dopo avergli lanciato una rapida occhiata, Karavanbashi. Dobbiamo giungere alle nostre terre il prima possibile, entrare nelle nostre case, nei nostri giardini, nei nostri cortili; sembra che i miei poveri compagni di viaggio abbiano ceduto definitivamente. Karavanbashi sorrise tristemente, prese una candela che si trovava in un angolo, l’accese con l’aiuto di un acciarino e ne fissò un’estremità a un vassoio.
Lo spazio interno alla tenda si illuminò di una luce timida e le ombre si delinearono. Karavanbashi si rivolse interrogativo verso Ibrahim aghà, quasi a voler dire: Come mai sei venuto? Che vuoi?
Ibrahim aghà trasalì:
«Che possa morire! Sono venuto perché… il mio cuore è inquieto, c’è rimasto poco cammino, appena avremo attraversato le alture, si apre subito la valle…».
«Lo so. Vuoi forse essere tu a indicarmi la via?».
«Che possa morire, no! Anche il tuo cuore è angosciato, lo so… A Dio piacendo, presto la faremo finita con questa storia… Ho pensato: magari ti sono utile! Posso farti un massaggio alle gambe!».
«No, Ibrahim aghà. Va’, riposati un poco. Siamo tutti molto stanchi». Karavanbashi socchiuse gli occhi. «Che ne pensi, può essere che loro non ci siano?».
«No, non può essere… Ci sono sempre, e sempre ci saranno nella valle, ma per quando riguarda il nostro uomo, quello che stiamo cercando, non ne sono affatto sicuro. Lo spero molto ma… come si fa a sapere? Solitamente si mettono in fila lungo la valle. È il loro mestiere, se qualcuno non li prende con sé, se non affida loro un incarico…».
«Resta poco tempo… Dio, fa’ che il nostro uomo, quello che cerchiamo, sia fra di loro».
«Ci sarà, ci sarà… Non angosciarti, non tormentarti. Tutta la speranza è riposta in Allah, possa il Cielo proteggerlo…».
«Amen. Va bene, va’, va’. Vorrei dormire un po’ anch’io se ci riesco…».
Ibrahim aghà, indietreggiando rispettosamente, uscì dal caldo della tenda nel freddo glaciale. Fuori tutto riluceva e scintillava. Il mondo circostante sembrava avviluppato dalla luce del giorno, come se il luccichio di ogni stella avesse raggiunto la terra. E pareva che, proprio da lì, provenisse un suono sottile, stridulo, penetrante, pieno di angoscia. Ibrahim aghà guardò prima da una parte, poi gettò lo sguardo dall’altra e si avvicinò alla parte destra della tenda; stretto al fianco contratto di un cammello che di nome faceva Fiocco, dormiva il cammelliere Nazarali. Ibrahim aghà si sistemò alla meglio sul lato opposto, e dopo aver preso dall’animale qualcosa che sembrava un tappeto, liscio e tutto ricamato da entrambi i lati, lo distese, lo batté un poco e vi si coricò. Si rigirò più volte da un fianco all’altro per mettersi più comodo, ma per quanto si affannasse, raccogliendo tutte le sue forze, i suoi tentativi di addormentarsi non portarono a nulla. Così, guardò verso il cielo, fissando le fredde e stanche stelle, e si immerse nei suoi pensieri.
***
La valle, a cui aveva accennato Ibrahim aghà durante la conversazione con Karavanbashi partiva da dietro il Passo del Serpente e dalle verdi pendici della Montagna Invisibile, scendendo come una gola diritta verso una depressione, e portava il nome di Valle dei Maghi.
La gola si chiamava così perché tutti, nei dintorni, sapevano, vedevano, credevano, che dai quattro angoli della Terra, da Oriente a Occidente, nella valle si dessero appuntamento celebri maghi, stregoni e negromanti, facendone il loro rifugio d’elezione. Perché avessero deciso così nessuno lo sapeva, e loro stessi non ne facevano parola. Lungo la valle, ovunque si volgesse lo sguardo, li si poteva vedere. Da soli, in coppia, o raccolti a gruppi, i maghi passeggiavano qui e là, agitando le mani, raccontandosi a vicenda episodi, o semplicemente restando fermi in silenzio. La strada che attraversava la gola era la loro principale fonte di sostentamento. I maghi vivevano dell’elemosina e dei doni dei passanti: si accontentavano di quello. Ogni tanto qualche viaggiatore, assolutamente persuaso dell’onnipotenza della magia, ne ingaggiava qualcuno al fine di sfruttare la sua arte per raggiungere uno scopo. Dopodiché, svolto il suo compito di incantesimi e formule magiche, questi ritornava nella valle e solamente dopo aver raggiunto una scabra roccia seminuda affondata nella terra, le cui aguzze protuberanze erano note soltanto a lui, respirava a pieni polmoni. C’era una regola: una parte del compenso di ognuno veniva diviso con gli altri. Dopo essere ritornati, non si poteva non dividere coi compagni. Condividevano afflizioni e dolori, mangiavano, bevevano e conversavano assieme, assieme restavano in silenzio. Solamente per un’ora o due al giorno, ogni mago, riparandosi dietro le rocce o dietro ai cespugli cresciuti sparpagliati e grandi quanto un albero, restava solo con...

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