Mahatma Gandhi - Autobiografia
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Mahatma Gandhi

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Lo straordinario racconto autobiografico di Mahatma Gandhi, figura chiave del novecento che, attraverso i suoi insegnamenti e il suo esempio di vita ha contribuito a influenzare la sua epoca e la nostra attualità. L'autobiografia segue i passi di Gandhi dall'infanzia, il matrimonio ad appena 13 anni, il soggiorno di studi in Inghilterra e, durante la sua permanenza in Sud Africa, l’elaborazione della satyagraha, la forza d’animo alla base della resistenza passiva con cui Gandhi guiderà le proteste contro il razzismo e, una volta tornato in India, la lotta per l'indipendenza. Un racconto tra luci e ombre, in cui Gandhi non omette nulla, sottoponendosi con straordinaria umiltà alla lente di ingrandimento della storia.

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CAPITOLO I
Nascita e famiglia
La famiglia Gandhi appartiene alla casta dei Bania1 e sembra che originariamente sia stata costituita da piccoli negozianti. Ma durante le ultime generazioni i Gandhi sono stati Primi Ministri nei vari Stati del Kathiawar2. Mio nonno Uttamchand Gandhi, chiamato Ota Gandhi, deve essere stato un uomo di carattere. Quando intrighi politici lo obbligarono a lasciare Porbandar, dove egli era Diwan, per cercare rifugio a Junagadh, appena giuntovi salutò il Nawab con la mano sinistra. Chiestagli la ragione di questa apparente mancanza, si giustificò spiegando che la mano destra era già impegnata a Porbandar.
Ota Gandhi, essendogli morta la prima moglie, si sposò una seconda volta. Dal primo matrimonio ebbe quattro figli e due dal secondo. Ma nella mia infanzia credo di non aver mai avuto modo di accorgermi che mio padre e i miei zii non fossero figli della medesima madre. Il quintogenito fu Karamchand Gandhi, chiamato Kaba Gandhi, il sesto fu Tulsidas Gandhi. Entrambi questi fratelli furono successivamente Primi Ministri a Porbandar. Kaba Gandhi fu mio padre. Egli ebbe per qualche tempo la carica di Primo Ministro a Rajkot, poi a Vankaner. Era pensionato dello Stato di Rajkot quando morì.
Egli si sposò quattro volte essendogli morte le prime tre mogli. Dal primo e dal secondo matrimonio ebbe due figlie. Da Putlibai, quarta moglie, ebbe una femmina e tre maschi, dei quali io ero il minore.
Mio padre fu molto affezionato ai suoi, leale, ardito e generoso, ma violento di carattere. Forse era un sensuale perché si sposò per la quarta volta quando già aveva passato la quarantina. Ma era incorruttibile ed aveva fama della più rigorosa imparzialità sia in famiglia che fra estranei. Il suo attaccamento allo Stato era ben noto. Una volta un agente politico inglese parlò del suo Principe in modo offensivo. Mio padre ribatté gli insulti. L’agente si incollerì e pretese delle scuse che mio padre rifiutò di fare, per cui fu tratto in arresto per qualche ora. Ma quando l’agente vide che Kaba Gandhi non si piegava, ne ordinò la liberazione.
Mio padre non ebbe mai l’ambizione di accumulare ricchezze e morendo non ci lasciò che un piccolo patrimonio. Non avendo ricevuto alcuna istruzione, non possedeva che delle cognizioni di vita pratica e, ad esempio, in storia e geografia era ignorante. Ma, al contrario, la sua grande esperienza degli affari lo aiutava a risolvere le questioni più complicate e a guidare centinaia di uomini. Aveva scarsa istruzione religiosa, ma si era formato in materia quella coltura che deriva dalle frequenti visite ai templi e dall’ascoltare discorsi sulla religione indù. Negli ultimi tempi della sua vita, su incitamento di un dotto Bramino, amico di famiglia, aveva intrapreso la lettura del Gita ed aveva l’abitudine di leggerne dei versi ad alta voce ogni giorno al momento della preghiera.
L’impressione più notevole che mia madre ha lasciato in me è quella della sua religiosità. Era profondamente devota e non avrebbe, per esempio, potuto prendere i suoi pasti senza aver prima detto le preghiere consuete, e considerava la visita al tempio come uno dei suoi doveri quotidiani. Per quanto ritorni indietro con la memoria non posso ricordare che essa abbia mai mancato di osservare un digiuno imposto dalla religione. A volte faceva i voti più duri e li adempiva con fermezza; né le malattie erano pretesti sufficienti per sottrarvisi. Mi ricordo che una volta si ammalò mentre osservava un voto di digiuno, ma nemmeno questo servì a farla rinunciare. Compiere due o tre digiuni consecutivi era cosa da nulla per lei e nutrirsi una volta sola al giorno durante questi periodi era ormai diventata un’abitudine. Ma non bastava, perché sempre in tali periodi di penitenza faceva ogni due giorni dei digiuni completi. Altre volte invece faceva voto di non toccare cibo se non vedeva il sole. Noi bambini in quei giorni stavamo a guardare il cielo aspettando il momento di annunciare alla mamma l’apparire del sole. Nel colmo della stagione delle pioggie non di rado il sole non si lasciava vedere in tutto il giorno; e mi ricordo di giornate nelle quali all’apparire improvviso del sole dopo la pioggia noi correvamo a darne l’annuncio a nostra madre. Essa usciva a vederlo con i propri occhi, ma nel frattempo quel fuggevole raggio era di nuovo scomparso e la mamma rimaneva senza il suo pasto.
«Non importa» diceva allegramente, «Dio non vuole che quest’oggi mi nutra», e ritornava alle sue faccende consuete.
Mia madre aveva un gran buon senso. Era bene informata di tutti gli affari dello Stato e le dame della Corte stimavano molto la sua intelligenza. Spesso l’accompagnavo approfittando del privilegio dell’età infantile, e ricordo molte sue vivaci discussioni con la Principessa, madre del Thakor Sahib.
Da questi genitori nacqui il 2 ottobre 1869 a Porbandar. Colà passai la mia infanzia e andai per la prima volta a scuola.
Lo studio della tavola pitagorica non fu per me senza qualche difficoltà. Di quei giorni non ho altro ricordo se non quello di aver imparato, in compagnia di altri ragazzi, a ingannare il nostro maestro. Questo fatto mi fa pensare che allora la mia intelligenza dovesse essere scarsa e la mia memoria assai pigra.
Avevo circa sette anni allorché mio padre lasciò Porbandar per Rajkot, per entrare a far parte di quella Corte. Ivi fui mandato in una scuola primaria e mi rammento perfettamente di quei tempi come pure del nome e d’altri particolari dei miei insegnanti. Come di Porbandar, così di Rajkot vi è ben poco di notevole da ricordare circa i miei studi, e non debbo essere stato che uno scolaro mediocre. In seguito passai in una scuola suburbana e da questa, all’età di dodici anni, alla scuola superiore. Non ricordo di aver mai detto una bugia in questi primi anni, né ai miei maestri, né ai miei compagni. Ero molto timido ed evitavo ogni compagnia. Libri e compiti erano i miei unici compagni. Avevo l’abitudine di arrivare in orario a scuola e di correre a casa non appena finite le lezioni. Fuggivo veramente per non essere costretto a chiacchierare con chicchessia e anche per paura che mi si facesse qualche scherzo.
Vale la pena di ricordare un incidente occorsomi agli esami del primo anno della scuola superiore.
Il signor Giles, ispettore all’istruzione, era venuto in visita di ispezione e ci aveva dato cinque parole da scrivere per esercizio di ortografia. Una di esse era «kettle» (pentola), e io non seppi scriverla correttamente. Il maestro cercò di avvertirmi toccandomi con la punta della scarpa, ma io non capii questo segno. Non potevo neppure pensare che egli mi suggerisse di copiare la parola dalla lavagna del mio vicino, perché credevo che il maestro ci fosse appunto per impedirci di copiare. Il risultato fu che tutti gli altri ragazzi scrissero tutte le parole esatte: io solo ero stato uno sciocco. Il maestro cercò più tardi di farmi capire questa mia stupidità, ma senza riuscirci perché non potei mai imparare a copiare dai compagni. Tuttavia l’incidente non diminuì per nulla il mio rispetto verso il maestro. Naturalmente, non sapevo vedere i difetti delle persone adulte. Più tardi venni a conoscere molte altre mancanze dello stesso maestro, ma il mio ossequio per lui rimase inalterato, perché avevo imparato ad eseguire gli ordini dei grandi, non a giudicarne le azioni.
Due altri incidenti avvenuti in quel periodo mi sono rimasti impressi nella memoria. Per lo più non provavo nessun interesse a letture che non fossero quelle dei miei libri di scuola. I compiti dovevano esser fatti, perché non desideravo né ricevere rimproveri dal maestro, né deluderlo.
Perciò imparavo le lezioni, ma spesso quasi meccanicamente. Se non facevo con interesse i compiti, si comprende che tanto meno mi dedicassi ad altre letture. Ma una volta i miei occhi caddero per caso su un libro che mio padre aveva portato a casa. Era una commedia che descriveva la devozione di Shravana per i suoi genitori; e la lessi con immenso interesse. Nello stesso periodo capitò in casa una compagnia di comici ambulanti. Uno dei quadri da essi inscenati raffigurava Shravana che, con delle cinghie legate alle spalle, conduce i suoi genitori ciechi in pellegrinaggio. Il libro e poi questo quadro mi lasciarono un’impressione indelebile. «Ecco», dissi a me stesso, «un esempio da seguire». Il lamento straziante dei genitori di Shravana per la morte del figlio è ancora impresso nella mia memoria. Quella dolce canzone mi aveva commosso, e la suonai su una fisarmonica regalatami da mio padre.
Mi avvenne poi un altro fatto simile, anch’esso causato da un’altra commedia che mio padre mi aveva permesso di andare a sentire. Si intitolava Harishchandra ed era recitata da una compagnia drammatica. La commedia mi esaltò e non mi stancai di sentirla parecchie volte. Ma per quante altre volte avrei avuto il permesso? Ne ero ossessionato e devo aver recitato Harishchandra da solo all’infinito. «Perché tutti non sono sinceri come Harishchandra?», mi chiedevo giorno e notte. Seguire la verità e passare vittorioso per tutte le prove come avevo visto fare da Harishchandra, era il pensiero dominante che la commedia mi ispirava. Credevo ciecamente nella realtà della storia di Harishchandra e il suo ricordo mi faceva spesso piangere. Oggi il mio buon senso mi dice che Harishchandra non può essere stato un personaggio storico. Ma ad ogni modo per me Harishchandra e Shravana sono due viventi realtà; e sono certo che se rileggessi oggi quelle due commedie mi commoverei come allora.
A questo punto debbo confessare che la narrazione della mia vita mi costerà molti bocconi amari, ma non potrò evitarli se desidero continuare ad essere un fedele cultore della Verità. È per me veramente penoso d’esser costretto a parlare prima di tutto del mio matrimonio avvenuto all’età di tredici anni. Quando vedo i giovanetti di questa età che sono affidati alle mie cure e penso al mio matrimonio, non posso non compassionare me stesso e congratularmi con loro per essere sfuggiti ad una simile disgrazia. E non trovo ragioni morali sufficienti a sostenere la tesi di un matrimonio così prematuro come il mio. Prego il lettore di non fraintendermi. Fui non fidanzato, ma ammogliato, all’età di tredici anni. Perché nel Kathiawar vi sono due riti distinti: il fidanzamento e il matrimonio. Il fidanzamento consiste in un scambio di promesse fra i rispettivi genitori di unire in matrimonio due ragazzi, e questa promessa non è inviolabile. La eventuale morte del ragazzo non rende vedova la ragazza. Si tratta di un semplice accordo fra i genitori, al quale i ragazzi non partecipano in alcun modo, non solo, ma qualche volta non ne sono neppure informati. Così sembra che io sia stato fidanzato tre volte, ma ignoro in quale epoca. Mi fu detto che due delle ragazze che erano state scelte per me erano poi morte, e ne deduco di essere stato tre volte impegnato. Mi sembra di poter calcolare che il mio terzo fidanzamento sia stato deciso, naturalmente a mia insaputa, quando avevo sette anni. Ma non voglio parlare ora del fidanzamento bensì del matrimonio, di cui ho il più chiaro ricordo.
Come ho detto, avevo due fratelli. Il maggiore era già sposato. I nostri genitori decisero di celebrare contemporaneamente il matrimonio dell’altro mio fratello, quello di un mio cugino e il mio. E in questa decisione non si faceva alcun conto né dei nostri desideri, né della nostra felicità: era puramente questione di convenienza e d’interesse delle famiglie.
Il rito matrimoniale tra indù non è affar da nulla. I genitori della sposa e quelli dello sposo certe volte sono trascinati a spese rovinose, e sprecano il loro denaro oltre che il loro tempo. Mesi e mesi vengono impiegati nei preparativi del corredo e dei banchetti nuziali, nei quali ognuno cerca di superare e battere gli altri in ricchezza e in varietà di portate. Le donne, che abbiano o non abbiano voce, cantano sino a diventar rauche o ad ammalarsi, e tolgono la pace ai vicini, i quali sopportano pazientemente il disordine, la confusione e la sporcizia che seguono sempre ai banchetti nuziali, sapendo bene che, a loro volta, anch’essi un giorno o l’altro faranno altrettanto.
Così i nostri genitori avevano pensato di compiere in una sola volta queste faticose e dispendiose cerimonie con un risparmio di spesa e con maggior sfarzo. Perché il risparmio era notevole riunendole in una sola. Mio padre e mio zio erano ormai vecchi, noi eravamo gli ultimi tre figli ed essi desideravano di partecipare a questa ultima festa grandiosa prima di morire. Per tutte queste considerazioni fu decisa la triplice cerimonia e dei mesi furono impiegati nei preparativi.
Fu soltanto alla vista di tanto lavoro che noi venimmo a sapere ciò che ci aspettava. Non credo che per me quest’annuncio abbia significato allora nulla più che una festosa prospettiva di bei vestiti, rullo di tamburi, processioni nuziali, pranzi interminabili e una nuova compagna di giochi. Il desiderio fisico venne più tardi. E desidero non sollevare il velo sulla mia vergogna tranne che per i pochi fatti degni di nota e su cui tornerò in seguito.
Mio fratello ed io da Rajkot fummo mandati a Porbandar. Mio padre non poté accompagnarci nel viaggio perché, sebbene Diwan, era al servizio dello Stato e per di più era il favorito del Thakor Sahib che volle trattenerlo presso di sé sino all’ultimo momento; però in compenso ordinò per lui delle vetture speciali che avrebbero potuto ridurgli la durata del viaggio di due giorni. Ma il destino aveva disposto altrimenti. Porbandar dista da Rajkot centoventi miglia, vale a dire che occorrono cinque giorni di carrozza per compiere il viaggio. Mio padre voleva mettercene tre soltanto. Ma durante la terza tappa la carrozza si rovesciò ed egli rimase seriamente ferito. Arrivò a Porbandar tutto bendato. Sfumarono quindi per buona parte la gioia ed il nostro entusiasmo, ma le cerimonie nuziali non furono rimandate, perché la data di un matrimonio non si sposta. Tuttavia la mia gioia infantile per le cerimonie che si preparavano mi fece presto dimenticare l...

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