Remo Cacitti
Sepulcrorum et picturarum adoratores. Un’iconografia della Passio Perpetuae et Felicitatis nel culto martiriale donatista
L’indagine fin qui condotta consente di affrontare la lettura del monumento a partire dai seguenti dati: 1. si tratta di un’ara funeraria, proveniente da una necropoli dell’Africa romana, la cui datazione s’iscrive nella prima metà del IV secolo; 2. la sua iconografia non trova paralleli né nella coeva produzione commemorativa relativa alla celebrazione di giochi o venationes, né nella rappresentazione spettacolare di damnatio ad bestias; 3. plausibile diviene allora l’ipotesi che l’ara debba essere iscritta entro una diversa temperie culturale. In questa prospettiva, essa potrebbe costituire una memoria martyrum cristiana analoga, pur se con peculiari caratteristiche, ai numerosi manufatti di cui resta, sopra tutto in Africa, cospicua documentazione tanto nelle fonti letterarie tanto nella documentazione archeologica.
Prima di esaminare singolarmente le quattro raffigurazioni, occorre notare, a integrazione di quanto già sopra osservato da Giuseppina Legrottaglie, come esse siano tutte inquadrate entro un arco a sesto ribassato, costituito da una banda esterna di colore nero, che ne contorna il perimetro, e da una seconda color amaranto, di maggior ampiezza, che potrebbe suggerire lo spessore dell’arco medesimo (tavv. VII, IX, XI, XII). Le figure sono colte dal punto di osservazione in cui viene a trovarsi anche il visitatore odierno, che resta separato dalla scena appunto dalla struttura dell’arco. Ora, se questa inquadratura costituisce indubbiamente un abituale elemento di cornice, frequentemente attestata nella produzione artistica paleocristiana, tuttavia potrebbe essere istituito un confronto interessante con un mosaico pavimentale proveniente da Gafsa (Tunisia), attualmente esposto al Museo del Bardo: datato agl’inizi del VI secolo, esso raffigura l’interno di un circo, durante lo svolgimento di una corsa di carri (fig. 36).
Si noterà che la cinta dell’edificio è rappresentata da una serie di arcate a tutto sesto, tradizionale dispositivo prospettico, dentro cui si affollano gli spettatori, le cui teste sono disposte in quattro ordini sovrapposti in altezza, a simulare la profondità secondo una ben nota convenzione rappresentativa: da questa posizione, la gara poteva essere seguita entro la cornice degli archi, dunque in condizioni non dissimili da quelle di chi guarda le figure dell’ara di Thaenae. Il confronto si fa ancora più puntuale se si colloca l’osservatore della gara non già sugli spalti, ma all’altezza delle quattro logge dei carceres, raffigurate nel mosaico gafseno sul lato breve del circo: iscritte entro quattro archi fortemente ribassati, perché raffigurati obliquamente, le quattro effigi segnalano esattamente la visuale entro cui, a livello del pavimento dell’arena, anche nel caso del nostro altare sono state fermate le immagini. Mi pare allora, per altra via, venga data conferma all’ipotesi che le quattro scene pertengano a un contesto spettacolare, anche perché due di esse – il personaggio sbalzato sulle corna di un bovino e quello in fuga davanti all’orso – sembrano esplicitamente raffigurare una damnatio ad bestias, pena sovente inflitta ai cristiani. In realtà, per quanto concerne il primo motivo, Cinzia Vismara propone dubitativamente di considerarlo un taurokathapsion, vale a dire il salto atletico eseguito al di sopra di un toro, che tanta popolarità godeva, fin dall’epoca arcaica, negli spettacoli del mondo greco-romano. Anche l’immagine dell’uomo che fugge davanti all’orso potrebbe effigiare, nelle sue linee essenziali, un tichobates, colui che, nei giochi circensi, «per parietem urso eluso cucurrit», anche se nel nostro caso manca qualsiasi riferimento al muro su cui l’atleta si arrampicava per tentare di sfuggire alla belva; del pari, se la scena potesse rappresentare una sequenza del gioco per cui l’atleta e l’orso s’inseguono entro una sorta di porta girevole «composta da quattro pannelli a croce che ruotano intorno ad un perno verticale centrale», anche in questo caso appare sorprendente l’assenza di un qualsiasi riferimento alla coclea, elemento centrale per poter individuare questo tipo di gioco.
Ora, senza entrare ulteriormente nel merito di queste identificazioni, contro di esse ostano, a mio avviso, tre considerazioni. Le scene dell’ara di Thaenae sono parte organica di una quadruplice sequenza, da cui non può venir arbitrariamente avulso un solo elemento: se già l’immagine dell’atleta in atteggiamento di riflessione risulta poco congrua con la celebrazione di un gioco, del tutto incoerente appare quella del naviglio condotto dall’angelo psicopompo. In secondo luogo, occorre tener presente che il manufatto proviene da una necropoli: se, di norma, le raffigurazioni di queste scene si trovano su mosaici, vasellame o lucerne, non di meno esse compaiono indubbiamente anche in contesto sepolcrale. Nel monumento funerario con rilievo di combattimenti di gladiatori e cacce proveniente da Kibyra (Frigia), indagato da Louis Robert, sono certo raffigurate delle scene che, isolate dal contesto, possono fornire suggestivi paralleli con quelle della nostra ara; ma proprio la sinossi tra i due monumen...