Corpo felice
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Dacia Maraini

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Dacia Maraini

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Citas

Información del libro

Una madre che non ha avuto il tempo di esserlo. Un figlio mai cresciuto. Tra di loro, i giorni teneri e feroci, sognati eppure vividissimi che non hanno vissuto insieme. E un dialogo ininterrotto che racconta cosa significa diventare donne e uomini oggi. A più di quarant'anni dai versi che hanno disegnato i contorni di un cambiamento possibile - "Libere infine di essere noi / intere, forti, sicure, donne senza paura" - Dacia Maraini riavvolge il filo di una storia tempestosa, quella al femminile, attraverso le parole di una madre a un figlio perduto, il suo, che cammina verso la maturità pur abitando solo nei ricordi. È così che l'immaginazione si fa più vera della realtà, come accade per tutte le donne che popolano i suoi libri - Marianna, Colomba, Isolina, Teresa - e sono arrivate a noi con le loro voci e i loro corpi. Corpi che non hanno mai smesso di cercare la propria via per la felicità, pieni di vita o disperati per la sua assenza, amati o violati, santificati o temuti, quasi sempre dagli altri, gli uomini. Ed è proprio a loro che parlano queste pagine. Agli occhi di un bambino maschio non ancora uomo. Per ricordare a lui e a tutti noi, sul filo sottile ma resistente della memoria, che solo quando l'amore arriva a illuminare le nostre vite, quello tra i sessi non sarà più uno scontro ma l'incontro capace di cambiare le regole del gioco.

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Información

Editorial
BUR
Año
2018
ISBN
9788858695364

1

Avevo sei anni. Ero a Kyoto. Non so perché quel pomeriggio mio padre era nervoso e mi ha incolpato di avere fatto cadere dell’inchiostro su un libro e averlo rovinato. Io il libro non l’avevo proprio toccato. Ma lui ha insistito che ero stata io e che mentivo per non farmi rimproverare. L’accusa mi è sembrata enorme e talmente ingiusta che ho pensato di suicidarmi per provargli che dicevo la verità. Poi ho riflettuto che era stupido morire solo per dimostrare la propria innocenza: l’avrei punito con un dolore bruciante, ma allo stesso tempo avrei impedito a me stessa di crescere e di curiosare sul mondo e sulle cose, il che mi dispiaceva. Allora ho deciso: sarei scappata di casa e non ci sarei tornata mai più.
Non volevo vivere in una famiglia che non credeva alle mie parole e mi accusava ingiustamente. Perfino mia madre, che di solito era conciliante e generosa, si è messa contro di me quando ha visto che avevo le dita sporche di inchiostro. Ma io mi ero macchiata tentando di trascrivere un carattere giapponese su un foglio bianco. Il libro di mio padre non l’avevo né visto né toccato. Credevano alle dita sporche di inchiostro e non alle mie parole, una cosa gravissima per me.
Il mio bellissimo e giovanissimo padre si è accorto che non c’ero quando la mia giovanissima e bellissima madre ha preso a chiamarmi senza risposta. Sono cominciate le ricerche, prima quasi distratte e poi sempre più allarmate. Se in casa non c’ero e nel giardinetto minuscolo non mi si trovava, dove stavo? Che qualcuno mi avesse rapita? Proprio un mese prima era uscita sui giornali la notizia di una bambina della mia età che era sparita, forse portata via, non si sapeva né dove né perché.
Dopo la casa e il giardino, i miei hanno cominciato a cercarmi per strada, nel vasto quartiere dove abitavamo dalle casupole ammucchiate, i tanti caffè al cui ingresso pendevano centinaia di striscioline di stoffa che frullavano e dondolavano a ogni ingresso e i mille negozietti da cui proveniva un profumo di tsukemono e di riso bollito. Ma nessuno aveva visto una bambina bionda di sei anni che camminava da sola per le strade di Kyoto. I miei genitori erano disperati e non hanno fatto che correre da una parte all’altra della città. Non trascurando gli ospedali e i pronto soccorso.
Poi, verso sera, quando si sono ritirati per riposare un momento prima di ricominciare la ricerca, è arrivata una telefonata della polizia municipale: «La bambina è qui, si chiama Dacia? Venite a prenderla». «L’avete trovata? E dove? Sta bene?» «Sta benissimo.» «Dove dobbiamo venire?» «Al distretto di polizia del quartiere di Higashiyama.»
I miei sono accorsi. E appena hanno aperto la porta, mi hanno vista seduta sul tavolo della questura con tutti i poliziotti intorno che si divertivano a sentirmi parlare nell’affrettato dialetto di Kyoto. Raccontavo che in casa non ci stavo bene, che volevo andare via dalla città, che avrei lavorato, e anzi chiedevo che mi prendessero alla polizia, che sarei stata una brava indagatrice.
I miei sono rimasti di stucco, dopo tante ore di apprensione, nel vedermi così allegra e spensierata, seduta con le gambine ciondolanti, i sandaletti di pelle rossiccia coperti di polvere, che chiacchieravo tranquillamente con i poliziotti in cerchio intorno a me.
Mi aspettavo dei terribili rimproveri. Invece mia madre mi ha stretta al petto ripetendo accorata: «Non farlo mai più, non farlo mai più!», e mi bagnava i capelli di lacrime. Mio padre brontolava che ero una testarda e dovevo imparare a non comportarmi come una incosciente. Non gli ho risposto perché non volevo umiliarlo davanti ai poliziotti, ma avrei voluto dirgli che l’incosciente era lui che non aveva creduto alle mie parole sincere ma solo a un indizio accusatore.
Quella notte ho dormito benissimo. Avevo sfogato la mia indignazione per l’ingiustizia subita e sapevo che mio padre non avrebbe più osato incolparmi di cose che non avevo fatto. Avrebbe scandagliato meglio le apparenze e creduto alle mie parole più che agli indizi. Sapevo, ma l’hanno capito anche la mia adorabile Topazia dai grandi occhi azzurri e le labbra coralline e il mio adorato Fosco dagli occhi castani pieni di ironia e grazia, che la mia reazione di fronte ai soprusi sarebbe sempre stata drastica e decisa. Eppure non avevo un cattivo carattere: ero allegra, ben disposta verso gli altri e gentile. Solo quando mi trovavo davanti a una ingiustizia, venivo invasa da una indomabile indignazione che mi portava a forme stravaganti di ribellione, a volte calmissima e determinata, a volte agitata e pronta a reazioni che non riuscivo a frenare.
Mi sono chiesta in seguito se la rivolta contro l’ingiustizia nasca da un sentimento spontaneo, naturale, magari ereditato in famiglia o se venga da una formazione culturale. Sapevo che mia nonna Yoi, la scrittrice mezza inglese e mezza polacca, era stata una donna ribelle, sapevo che mio padre, quando il nonno gli aveva messo in mano la tessera del Fascio perché «Così potrai lavorare», gliela aveva stracciata in faccia e non si erano parlati per dieci anni. Sapevo che mia madre aveva deciso, senza consultarsi con mio padre, che non avrebbe firmato per la Repubblica di Salò, pur certa che l’aspettava il campo di concentramento. Varie forme di ingiustizia a cui nonne, padri, madri hanno reagito con fermezza, confidando sulle proprie convinzioni piuttosto che sui doveri sociali imposti dal momento storico. Erano stati esortati, rimproverati, minacciati, ma nessuno aveva potuto fermarli.
Possiamo considerarla una eredità questo sentimento di rivolta contro le ingiustizie, che filtra per via parentale da cervello a cervello, da cuore a cuore? Oppure si tratta di un istinto che la natura ci mette a disposizione di fronte alle difficoltà della vita? A tutt’oggi non ho una risposta chiara. Incontro persone che sono sensibili ai soprusi e persone che non lo sono. Eppure ho l’impressione che questo senso di ribellione sia più vicino a un istinto che a una costruzione culturale. L’istinto, però, se non viene coltivato, sollecitato, può addormentarsi e andare in letargo.

2

Le domande incalzano oggi come incalzavano allora. Fin da piccola rompevo le scatole agli adulti perché rispondessero alle mie domande insistenti: papà, cos’è la giustizia? Ci sono delle cose che mi sembrano giuste e altre che mi sembrano ingiuste, ma chi decide il giusto e l’ingiusto? E se per alcuni il giusto sta da una parte e per altri il giusto sta da un’altra parte, dove si trova il giusto in assoluto? A questa domanda ne seguiva a rotolo un’altra: ma papà, esiste un giusto in assoluto? E poi ancora: il desiderio di giustizia nasce da un diritto calpestato? O è solo l’orgoglio umiliato che cerca rivincita? Mio padre mi rispondeva quando aveva tempo, in fretta e senza molta pazienza, aveva altro da fare. Mia madre, alle stesse domande, replicava: «Sì, bambina mia, la giustizia esiste e sta dentro di te prima che nelle leggi e nelle regole stabilite». Risposte che mi sembravano vaghe, per cui andavo a cercare altri pareri nei libri, nelle parole dei saggi. Ma spesso anche quelle mi suonavano vaghe e contraddittorie.
Chi crede in un Dio che governa i cieli, mi dicevo, pensa che la giustizia discenda dall’alto e che sia un codice che distingue il buono dal cattivo, il bello dal brutto, dando per scontato che il bello e il buono vinceranno sicuramente alla fine del mondo. Dio padre tiene in mano una bilancia, immaginavo, su cui pesa i peccati e le buone azioni. E da come pende il piatto, stabilisce le punizioni o concede i premi. Il più grande dei quali è quello di volare come un uccello dalle ali d’oro e sedersi accanto a lui, cibandosi di nuvole e di venti. Da quale parte penderà la bilancia?
Chi ha fede pensa che il mondo sia costruito intorno al bene. Dio rappresenta questo bene e quindi non può che applicare la giustizia con equità e senza prevenzioni. Chi crede non ha dubbi: Dio è buono, il cielo è benigno e il fine non può che essere la felicità eterna.
Ma qui mi sembrava di entrare in un ginepraio: da dove viene il male, mi ostinavo a chiedere nelle mie riflessioni bambinesche, se Dio, che rappresenta l’universo, vuole solo il bene? E perché non riesce a vincerlo visto che è onnipotente? Si direbbe che Dio abbia bisogno del male per affermare il bene, concludevo. Ma allora, si potrebbe pensare, è lui stesso che inventa il male come suo antagonista? Ma il male può essere solo un’invenzione immaginaria e non una realtà? Possibile che Dio giochi con i due poli dell’esistenza?
In effetti come si riconoscerebbe il bene se non esistesse il male? Da qui, riflettevo, nasce l’idea della caduta, della tentazione e del libero arbitrio. L’uomo è libero di agire come vuole, sia nel bene sia nel male. Sapendo però che il male sarà punito e il bene premiato. L’etica quindi non mette sullo stesso piano il bene e il male, ma dà al bene un valore che il male non ha. Anzi, ci dice che il giusto comportamento sta nell’accettare la guerra fra bene e male e seguire sempre il bene.
Se invece alla fine non ci fosse un Dio che amministra la giustizia? Questo era l’interrogativo più doloroso. Se l’uomo fosse un prodotto del caso, venuto fuori da una serie di trasformazioni e di combinazioni chimiche di acque, gas, minerali e luci che hanno originato un corpo pensante, casualmente vivente su uno dei pochissimi pianeti in un equilibrio instabile, ma pure miracoloso, fra l’esplosione e la quiete, in una corsa incomprensibile verso non si sa dove?
Se l’uomo, mi dicevo rabbrividendo nel mio kimono a fiori, non fosse altro che una creatura nuda che sogna e immagina un universo a sua misura? Ma non sarà che l’universo, con le sue crudeli implosioni, le sue temperature glaciali o infuocate, la sua mancanza di ossigeno, le sue corse furibonde, i suoi buchi neri, il suo tempo circolare e misterioso, è talmente poco umano da fare pensare che la vita sia un meraviglioso caso, tanto raro da non avere l’uguale fra i miliardi di corpi celesti? Le domande e le ipotesi saltavano su come pulci affamate: in un mondo fortuito, come e quando si sarebbe formato questo sentimento del giusto e dell’errato nel susseguirsi di condizioni naturali che hanno portato dal fondo degli oceani un organismo unicellulare a evolversi in una creatura complessa che si chiama essere umano?
L’etica, insomma, se non viene da un Dio giudice, da dove nasce? E se non esiste una tavola delle leggi, composta dai sacerdoti per i fedeli, da dove sorgerebbe il sentimento del giusto e dell’ingiusto? Si tratta solo di norme che l’uomo si dà per fare sopravvivere il genere umano? Esiste quella che viene chiamata anima, ma che si potrebbe anche chiamare coscienza, capace di sentimenti che riguardano la parità, il rispetto, la sincerità, il saper distinguere il vero dal falso, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, la chiarezza, il disinteresse, l’onestà intellettuale? Possiamo dire che esiste qualcosa di sacro e di miracolosamente significante in mezzo a un caos senza significato? Possiamo pensare che ci sia in noi un piccolo giudice che osserva, indaga, paragona, confronta, e decide dove sta il giusto e dove l’ingiusto?
È chiaro che quando l’ingiustizia ci tocca da vicino, siamo più rapidi, pronti a riconoscerla e opporci. Ma quando l’ingiustizia colpisce chi non conosciamo, quando queste persone sono lontane, ci si può aspettare una reazione uguale? Oppure vale il principio del “lontano dagli occhi lontano dal cuore”? Esiste davvero quel piccolo giudice interiore che Friedrich Hegel ha chiamato Coscienza e che Sigmund Freud ha ribattezzato con il severo nome di Super-io?
Questa erano le riflessioni che ho cominciato a pormi quando ero nel campo di concentramento di Nagoya, dove libri non ce n’erano e io mi rivolgevo ai miei genitori come a persone-libro. Domande che ho continuato a proporre ai miei insegnanti una volta tornata in una scuola italiana, condiviso coi miei compagni, e che ho ripetuto imperterrita anche dopo, quando mi sono sposata con Lucio il pittore, convinta che mettere su famiglia, inventare progetti per il futuro sarebbe stato un modo di trovare le risposte. La giustizia non sta prima di tutto nello stabilire un rapporto di armonia affettiva col mondo? L’armonia, se profonda, non contiene in sé la giustizia?

3

Quando ho perso mio figlio, con cui conversavo di notte sotto le coperte e a cui raccontavo del mondo aspettando che nascesse; quando a tradimento quel bambino con cui giocavo segretamente e già tenevo in braccio prima ancora che avesse aperto gli occhi è morto, sono stata sul punto di morire anch’io. Una cosa strana era successa nel mio ventre senza che lo sapessi. Il piccolo, anziché nutrirsi di una placenta che lo avvolgeva protettivamente, a furia di voltarsi e rivoltarsi aveva schiacciato proprio il cuscino che avrebbe dovuto nutrirlo. In medicina si chiama “placenta previa”.
Quando, dopo un lungo travaglio e ore di tentativi vani di salvarlo, mi è stato detto che il bambino era morto, il sentimento dell’ingiustizia subita mi è saltato addosso come una onda furiosa e mi ha soffocata. Perché, mi ripetevo ostinata e piangente, perché un bambino delizioso, dai grandi occhi azzurri come la nonna e la madre, il ciuffo castano come il padre, doveva andarsene così presto? Per quale ragione un bambino che già mi parlava, mi prendeva a calci per gioco, rideva se gli facevo il solletico, mugolava di felicità pregustando un futuro in comune, se ne doveva andare così, senza salutare? Perché un utero caldo e accogliente doveva trasformarsi in una tomba gelata?
Tanto ero attaccata a lui che non volevo lasciarlo andare. I medici poi mi hanno detto che mi davano per persa, perché mi rifiutavo di espellere il bambino morto e cacciavo fuori tanto sangue che presto sarei rimasta senza. Loro continuavano a tirare, a trafficare per portarlo al mondo, ma il piccolo si aggrappava al mio ventre e io a lui. Alla fine hanno provato a tagliare la carne, come fa il cacciatore della fiaba per tirare fuori Cappuccetto Rosso dalla pancia del lupo, ma era troppo tardi.
Io tenevo gli occhi chiusi e mi dicevo che se doveva andare via quel piccolo tesoro, che avevo coccolato e accarezzato per mesi, sarei andata via con lui. Se dobbiamo morire, moriamo insieme, diceva il mio corpo e si stringeva a quel bambino che avevo tanto desiderato e tanto amato prima ancora di conoscerlo. Mi hanno salvata, contro la mia volontà, e quello strappo non l’ho mai dimenticato. Un senso di ingiustizia che ha dato linfa e spessore a tutte le altre ingiustizie che ho subìto e che ho visto subire.
È giusto lasciare morire la madre con il figlio? O è giusto cercare di tenerla in vita a tutti i costi? È più umano salvare la madre o il figlio? Adrienne Rich, in quel bellissimo libro che si chiama Nato di donna, racconta che il parto in origine era una pratica solo femminile, fatta da “mani di carne”, che sono poi state sostituite da “mani di ferro”, ovvero dal forcipe. Le tenere ma robuste mani di carne si portavano appresso una sacralità che permetteva alle donne di esprimere un potere prestigioso: il potere di dare la vita che è all’origine di tutte le cose. Ma con l’andare del tempo e con la divisione sempre più astuta e intelligentemente costruita dei compiti, le donne sono state espropriate della sacralità della vita, e confinate nel limbo dell’inconsistenza, lontane dalla vera responsabilità generativa che piano piano è stata attribuita solo all’uomo.
Per sancire questo passaggio, su cui alcuni studiosi vicini all’Illuminismo come John Stuart Mill e Friedrich Engels hanno scritto, si eleva alto e potente il messaggio greco trasportato in scena da Eschilo. Oreste, che ha ucciso la madre adultera, viene inseguito dalle Erinni che difendono i diritti delle madri. Il giovane matricida che corre disperato per mari e monti senza pace, punito per un delitto fino ad allora considerato imperdonabile, chiede ad Apollo, il nuovo dio della democrazia periclea, di istruire un processo per giudicare il suo delitto. Apollo lo accontenta. Ma nel tribunale degli dèi saranno chiamate tutte divinità maschili. La sola figura femminile sarà Atena, che non ha madre né mai l’avrà, essendo nata dalla testa di Zeus, e quindi non conosce né si interessa ai diritti della maternità.
La sentenza di Apollo, che tutti gli dèi approveranno all’unanimità, sarà definitiva per il futuro delle donne: Oreste è innocente perché non ha infierito sul principio della vita, ma ha solo colpito il corpo che conteneva e conservava servilmente il seme del padre, l’unico vero generatore di vita. Con questo argomento che mette a tacere per sempre le Erinni difenditrici del diritto materno (leggendo Eschilo ho sempre pensato che le Erinni che si trasformano in Eumenidi acconsentono un po’ troppo facilmente alle sentenze e mi sono chiesta: lo fanno per viltà, per paura, o con saggezza si rimettono al più forte?), il rapporto fra i due sessi cambia in maniera chiara e definitiva. Da allora in avanti l’uomo sarà signore e padrone della continuità della specie. Le d...

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