La Celestina
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La Celestina

Fernando De Rojas, Antonio Gasparetti

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La Celestina

Fernando De Rojas, Antonio Gasparetti

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Rappresentata per la prima volta sul finire del XV secolo, La Celestina è lo straordinario quadro di una società in rapido mutamento, colta nelle sue varie espressioni; è un'indagine nella psiche dei personaggi, che si rivela attraverso il dialogo teatrale; è la parodia del codice dell'amore a pagamento. Uscita come Comedia de Calisto y Melibea, l'opera cambia nome molto presto, assegnando un rilievo straordinario al personaggio di Celestina, la mezzana. Grazie alle sue arti i due amanti nobili, Calisto e Melibea, realizzano il loro amore che finirà tragicamente. Considerata il massimo capolavoro della letteratura spagnola dopo il Don Chisciotte, La Celestina ebbe un effetto dirompente sul pubblico dell'epoca e continua a esercitare fascino e influenza anche sul teatro moderno.

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Información

Editorial
BUR
Año
2014
ISBN
9788858666395

[LA CELESTINA]

TRAGICOMMEDIA DI CALISTO E MELIBEA:
NUOVAMENTE RIVISTA ED EMENDATA,
CON AGGIUNTA DEGLI ARGOMENTI
ALL’INIZIO DI OGNI ATTO.
CONTIENE, OLTRE AL PIACEVOLE E DOLCE
STILE, MOLTE SENTENZE FILOSOFICHE
E AMMONIMENTI
QUANTO MAI NECESSARI AI GIOVANI,
MOSTRANDO LORO GLI INGANNI CHE
NASCONDONO SERVI
E MEZZANE.

L’AUTORE
A UN SUO AMICO1

È uso di coloro che si trovano lontani dalla loro terra considerare di che cosa il luogo da cui provengono soffra maggior mancanza o carenza, al fine di procurarla ai conterranei dai quali altre volte abbiano ricevuto beneficio; e io, vedendo che un giusto obbligo mi spingeva a fare altrettanto per ripagare le numerose grazie ricevute dalla libera vostra liberalità, molte volte, nell’intimità delle mie stanze, col viso appoggiato alla mano, sguinzagliando come segugi i miei cinque sensi e librando in volo il mio intelletto, mi rappresentavo alla mente non soltanto la necessità che la nostra comune patria ha della presente opera, a causa della moltitudine di amanti cortesi e innamorati giovani che in essa vivono, ma anche in particolare la vostra stessa persona, la cui gioventù ricordo di aver visto in preda all’amore e da esso crudelmente ferita, poiché le sono mancate armi difensive per resistere ai suoi fuochi, armi che ho invece trovate incise in queste carte; non fabbricate nelle grandi fucine di Milano,2 ma formate dall’illustre ingegno di dotti uomini castigliani. E poiché ne ammiravo la grazia, l’ingegnoso artificio, il forte e lucente metallo, il modo e la maniera della lavorazione, lo stile elegante, nella nostra lingua castigliana mai visto né udito, lo lessi tre o quattro volte. E quante più lo leggevo, tanta più necessità sentivo di rileggerlo e tanto più mi piaceva e nel suo procedere trovavo nuove sentenze. Vidi che non solo era dolce nella sua storia o finzione principale, considerata globalmente, ma anche che da alcune sue particolarità sgorgavano dilettose fonticelle di filosofia, da altre gradevoli piacevolezze, da altre avvertimenti e consigli contro adulatori e servi malvagi e donne bugiarde e fattucchiere. Vidi che mancava la firma dell’autore, il quale, secondo alcuni, fu Juan de Mena, e, secondo altri, Rodrigo Cola. Ma chiunque sia stato, è uomo degno di durevole memoria per la sottile invenzione, per la grande abbondanza di sentenze inframezzate, che appaiono sotto l’aspetto di piacevoli detti. Gran filosofo era! E poiché egli, per timore dei detrattori e delle malelingue, più pronte a censurare che a sapere inventare, celò il suo nome, non mi biasimate se, in questa modesta conclusione che compongo, non dichiarerò il mio.3 Tanto più che, essendo io uomo di legge, questa, per quanto opera saggia, è aliena dai miei studi; sicché, chi venisse a saperlo, direbbe che ho fatto ciò non, com’è la verità, in un momento di svago dai miei studi principali, di cui assai più mi faccio vanto; ma che invece mi sono dedicato a questo nuovo lavoro tralasciando gli studi di diritto. E se anche sbagliano, sarebbe giusta ricompensa alla mia temerità. E altresì potrebbero pensare che mi sia intrattenuto nel condurlo a termine non già i quindici giorni di una vacanza, mentre i miei colleghi erano ritornati alle loro terre, come è vero; ma assai più tempo, e meno piacevole. Per discolparmi di tutto questo, offro non solo a voi, ma a tutti quanti leggeranno l’opera, i versi seguenti. E affinché sappiate da che punto cominciano i miei mal digrossati ragionamenti, decisi di racchiudere lo scritto dell’antico autore, senza divisione alcuna, in un atto o scena, fino al principio del secondo atto, dove dice: «Fratelli miei, ecc.». Vale.4
1 Questa lettera de L’autore a un suo amico la troviamo per la prima volta nell’edizione della commedia stampata a Toledo nel 1500.
2 Il riferimento implicito è al genio italiano del Rinascimento.
3 La dichiarazione di anonimato deve essere interpretata in accordo con la rivelazione del nome, titolo di studio e luogo di nascita nell’acrostico. A ogni modo, crediamo che questo presunto anonimato niente abbia a che vedere con l’appartenenza di Rojas a una famiglia di conversi.
4 Nel testo della Comedia invece di «era in tutto, senza divisione alcuna, contenuto in un atto o scena, fino al principio del secondo atto, dove dice: “Fratelli miei”» si leggeva: «al margine troverete una croce: è la fine della prima scena. Vale». Questo riferimento alla «croce» è residuo dello stadio manoscritto dell’opera.

L’AUTORE,
SCUSANDOSI DEI SUOI ERRORI
IN QUEST’OPERA CHE SCRISSE,
CONTRO DI SÉ RAGIONA
E FA CONFRONTI5

Il silenzio è scudo e suole coprire
La lingua impacciata e il povero ingegno;
Blaterando invece si scopre il difetto
A chi molto parla pur senza capire:
Com’è la formica che smette d’andare
Con le sue provviste correndo per terra,
E, fiera delle ali che la perderanno,
Librata su in alto non sa dove andare.

PROSEGUE

Lì, mentre gode l’aria a lei estranea,
Incontra gli uccelli che preda ne fanno
E, più di lei forti, la prendono a cibo:
Riposto nell’ali sue nuove era il danno.
Fa d’uopo a chi scrive applicar questo inganno,
E non disprezzar chi mi muove rimbrotti,
Rovinando così le mie povere ali,
Nebulose e fragili, or ora spuntate.

PROSEGUE

Avea la formica riposto il piacere
Nel volo, com’io l’onor nella penna:
Dall’uno e dall’altra ne venne disdoro,
Ov’ella fu cibo e me vanno mordendo
Diatribe e rimbrotti e accuse. Tacendo
Io resto, ed il danno d’invidia e di rabbia
Respingo remando; ma i porti sicuri
Oblio alle mie spalle più vado avanzando.

PROSEGUE

Il puro mio fine veder se volete
A qual s’indirizzi di questi due estremi,
Se all’uno s’accosti, chi regga i suoi remi,
Fra Diana ed Apollo e il fiero Cupido,
In quello che scrivo cercate il consiglio
Narrato in principio nel chiaro riassunto:
In dolce racconto, o amanti, vedrete,
Leggendo, la via che liberi rende.

COMPARAZIONE

Al pari di pillola amara a chi è infermo,
Che, sospettoso, non riesce a inghiottirla,
Occultata invece in un cibo gradevole,
Mentendo al palato, gli allunga la vita:
Mi indugia la penna in simile guisa,
E intanto con detti lascivi e ridenti
Di molti che soffrono attrae l’orecchio,
Induce a esser saggi, la colpa lasciando.

TORNA AL SUO DISCORSO

Avvolto e assediato da voglie e da dubbi,
Dettai una fine che scioglie l’inizio;
Il più fino oro che vidi con gli occhi,
Con foglie d’orpello avvolsi e nascosi,
Ai cespi di rose mischiando le spine.
L’error che commisi corregga il prudente.
Il rozzo paventi, e quest’opera eccelsa
Solo guardi e taccia, e non rechi molestia.

PROSEGUE
SPIEGANDO PERCHÉ SI DECISE
A TERMINARE QUEST’OPERA

Trovai questi fogli laggiù a Salamanca;
Osai terminarli per queste ragioni:
È prima tra tutte che stavo in vacanza;
Motivo secondo, che un saggio li scrisse;
È il terzo motivo veder molta gente
Legata e travolta nei vizi d’amore.
Io esorto gli amanti a provarne timore,
Bandendo mezzane e falsi serventi.
E, nel proseguire, quest’opera giunse
A tal concisione, a gran sottigliezza,
Essendo pur ricca di mille sentenze,
Di grazie ravvolte e lieti piaceri;
E mai fece Dedalo, artefice eletto,
Ricchissimo intaglio più bello di questo,
Avessero scritto per intero quest’opera
Nella loro sapienza, un Mena od un Cota.
Ancor mai non vidi in lingua volgare
Tanto ch’io sappia, né altri mai vide,
Opera in stile sì alto, sì dotto,
Né in lingua toscana, né greca od ispana.
E non ha sentenza, di dove non sgorghi
Lodevole, eterna memoria all’autore:
Lo accolga Gesù nella gloria celeste,
Agnel che, patendo, noi tutti riscatta.

AMMONISCE COLORO CHE AMANO A SERVIRE DIO
E A LASCIARE I PENSIERI PECCAMINOSI
E I VIZI D’AMORE

Voi tutti che amate, prendete l’esempio,
In luogo di arma per vostra difesa;
La briglia volgete e in salvo tornate:
Lodate il Signore, pregando nel tempio.
Attenti vivete: non siate l’esempio
Di morti e di vivi di colpa macchiati:
In vita e nel mondo sareste sepolti.
M’affligge gran pena, se questo contemplo.

FINE

O dame e matrone, ragazzi e sposati,
Notate che vita condussero questi;
Tenete ad esempio la fine che han fatto.
Ad altro che Amore la mente volgete;
La vista snebbiate, o ciechi traviati,
Virtù seminando col vivere casto.
A tutta carriera fuggire dovete:
Non scagli Cupido il suo strale dorato!

[PROLOGO]

Tutte le cose sono create a guisa di contesa o battaglia,6 dice il gran sapiente Eraclito, a questo modo: «Omnia secundum litem fiunt». Sentenza, a mio parere, degna di perpetua e durevole memoria. E se è vero che ogni parola del saggio è pregna, di questa si può dire che a tal punto è gonfia e piena, da esser lì lì per scoppiare, facendo uscire rami e foglie così rigogliosi, che dal più piccolo germoglio le persone accorte potrebbero ricavare frutti a sazietà. Ma poiché il mio povero sapere non serve ad altro che a rodere le secche scorze dei detti di coloro che per l’eccellenza dell’ingegno meritarono d’essere applauditi, con il poco che di lì riuscirò a trarre manterrò il proposito di questo brevissimo prologo. Ho trovato questa sentenza corroborata dal grande oratore e poeta laureato Francesco Petrarca, quand...

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