In un tardo pomeriggio d’autunno del 2017 stavo facendo un giro in bicicletta nel quartiere di Schöneberg, a Berlino, quand’ecco che ci fu un forte rovescio. Stavo scendendo lungo la Crellerstraße, una via scoscesa. Scivolai e rovinai a terra. Quando mi tirai su faticosamente, vidi davanti a me un negozio mezzo abbandonato pieno di juke-box. Dato che fino a quel momento conoscevo il juke-box solo grazie ai libri e ai film, una grande curiosità mi spinse al suo interno. L’anziana coppia di proprietari fu abbastanza sorpresa da quella mia visita: evidentemente era ben raro che qualcuno capitasse lí per caso. Mi parve di essere in un sogno. Quel cumulo di vecchi oggetti e accessori sparpagliati mi fece precipitare fuori dal tempo. Forse le mie percezioni erano cosí vaghe e astratte anche per via del doloroso capitombolo che aveva provocato una lacerazione nel tessuto temporale, regalandomi un viaggio nel mondo delle cose.
Il fascino dei juke-box mi colpí nel profondo. Passavo dall’uno all’altro come in un paese dei balocchi pieno di cose meravigliose. Il negozio si chiamava «Jukeland». Le cose irradiavano una bellezza estranea. Un juke-box turchese della marca AM1 mi colpí particolarmente. Era un modello degli anni Cinquanta. Durante la cosiddetta «epoca argentea», i juke-box mutuarono dal campo del design automobilistico elementi stilistici quali pinne, parabrezza avvolgenti o luci posteriori. Anche oggi sembrano delle auto d’epoca, pieni come sono di dettagli cromati e luccicanti. M’innamorai subito di quel juke-box turchese dotato di enorme pseudo-parabrezza avvolgente e decisi all’istante di possederlo.
All’epoca dell’acquisto avevo un appartamento arredato unicamente con un vecchio pianoforte a coda e un tavolo ospedaliero in metallo. Non c’era nient’altro. Era un periodo in cui sentivo il bisogno di vivere in una casa vuota. Né il pianoforte, né il tavolo riuscivano a interrompere il vuoto. Anzi, lo accentuavano. Io non ero altro che il terzo della compagnia. Essere una cosa silenziosa e senza nome in uno spazio abitativo equivale alla salvezza. Vuoto non significa che non vi è nulla nello spazio: è piuttosto un’intensità, una presenza intensa. È l’incarnazione spaziale del silenzio. Vuoto e silenzio sono affratellati. Nemmeno il silenzio significa che non si percepiscono suoni. Determinati suoni possono addirittura sottolinearlo. Il silenzio è una forma intensa dell’attenzione. Cose come la scrivania o il pianoforte a coda creano silenzio vincolando e strutturando l’attenzione. Oggi siamo circondati da non-cose, da distrazioni informative che fanno a pezzi la nostra attenzione e in tal modo annullano il silenzio, anche quando sono mute.
Sistemai il juke-box in camera insieme al vecchio pianoforte. All’epoca mi esercitavo senza sosta con l’aria delle Variazioni Goldberg. Un’impresa molto difficile per una persona che non era mai andata a lezione di pianoforte. Mi sentivo come un bimbo che impara per la prima volta a scrivere. Imparare a scrivere ricorda la preghiera. Mi ci sono voluti piú di due anni prima che potessi suonare a memoria l’intera aria. Da allora, la ripeto come una preghiera. Il bell’oggetto con l’ampia coda divenne la mia ruota della preghiera.
Di notte andavo spesso nella stanza della musica e tendevo l’orecchio al juke-box nell’oscurità. Solo al buio i diversi colori della grata con l’altoparlante spiccano come si deve, conferendo al dispositivo un che di erotico. Il juke-box illuminava l’oscurità con luci coloratissime, creando una magia oggettuale alla quale mi abbandonavo.
Il juke-box trasforma l’ascolto musicale in una spassosissima esperienza visiva, acustica e tattile. È macchinoso e impegnativo. Visto che a casa mia il juke-box non va tutto il tempo, bisogna innanzitutto collegarlo alla presa. Ci vuole un po’ prima che i tubi si scaldino. Inserisco la monetina e schiaccio i tasti con cautela, dopodiché il congegno meccanico si mette in moto con un forte tric-trac. Parte il ronzio del piatto che inizia a girare, il pick-up afferra un disco nuovo e lo mette su con un movimento precisissimo. Prima che il braccio del pick-up cali sul disco, accarezza una minuscola spazzola che spolvera l’ago. Tutto ciò equivale a un incantesimo, una magia degli oggetti che ogni volta mi stupisce.
Il juke-box crea rumori cosali. Sembra quasi voler comunicare di propria sponte che è una cosa. Possiede un corpo voluminoso. Il rimbombo gli esce dal basso ventre, quasi fosse espressione di lussuria. Il suono digitale è invece scevro di qualsiasi rumore cosale. È incorporeo, liscio. Il suono prodotto dal juke-box mediante il disco e gli amplificatori si distingue nettamente da quello digitale. È cosale e corporeo. Un suono rombante che mi commuove, mi fa venire la pelle d’oca.
Il juke-box va a formare un autentico interlocutore. È un controcorpo, come il pesante pianoforte a coda. Quando mi trovo dinanzi al juke-box o suono al piano, penso tra me e me: per essere felici abbiamo bisogno di un interlocutore svettante, che s’imponga sopra di noi. La digitalizzazione fa fuori qualsiasi controparte, qualsiasi contro. In tal modo perdiamo la sensibilità nei confronti di ciò che regge, svetta, si eleva. Per via dell’interlocutore mancante non facciamo che ricadere nel nostro ego, e questo ci rende privi di mondo, cioè depressi.
Il juke-box mi condusse nel mondo estraneo della musica pop anni Sessanta e Settanta. Non conoscevo nemmeno una delle canzoni indicate sui cartoncini. Cosí, inizialmente, componevo codici a caso e mi lasciavo trasportare in un mondo sconosciuto. La scelta era tra titoli come Cry di Johnnie Ray, Dream Lover di Bobby Darin, Wonderful World di Sam Cooke, In the Mood di Glenn Miller, Rama Lama Ding Dong degli Edsels, ...