1. Il doppio valore della normalitĂ
«Io voglio fare come gli altri.
Io vorrei andare nei laboratori di chimica e fisica.»
(Dallâintervista a un alunno disabile
di scuola superiore, in CDH di Bologna e Modena
Bambini imparate a fare le cose difficili
Erickson, 2003, p. 61)
Io voglio fare come gli altri. Ci voleva proprio la splendida sintesi di un alunno disabile per racchiudere, come in un cristallo, i molteplici sensi della «normalità ». Voglio fare come gli altri, prima di tutto perché valgo come gli altri (ho gli stessi diritti); voglio fare come gli altri anche perché Ú un mio bisogno profondo. Fare come gli altri Ú un valore in sé, ma vale anche come strumento di sviluppo, e voglio fare come gli altri anche per voi, per gli altri stessi, per la coesione e la crescita del nostro gruppo.
NormalitĂ dunque come uguaglianza di valore. Alla normalitĂ si deve dare un primo significato (e valore) come identitĂ dei diritti: normalitĂ come pari valore di ognuno, uguaglianza dei diritti, a prescindere dalle condizioni personali, sociali, ecc. Il pari valore intrinseco di ogni persona Ăš alla base dellâintero corpus di leggi e norme del nostro Paese, partendo dalla Costituzione. Nella nostra legislazione si affermano infatti i pari diritti e le pari opportunitĂ di tutti, la pari dignitĂ delle persone, e ci si impegna a rimuovere eventuali ostacoli che impediscano la realizzazione delle potenzialitĂ di ognuno.
Bisogno di normalitĂ , dunque, come affermazione del possesso degli stessi diritti di tutti gli altri, dellâessere soggetto di valore pari a quello di tutti gli altri e di avere pari opportunitĂ . Anzi, diritto a compensazioni e aiuti se qualcosa ostacola la realizzazione del proprio potenziale: si pensi alla lezione di Don Milani «dare di piĂč a chi ha di meno», non solo garantire a tutti le stesse possibilitĂ .
La lotta per lâintegrazione scolastica, per le varie forme di deistituzionalizzazione, le lotte per i diritti umani in tutto il mondo partono ovviamente da questo bisogno di uguaglianza, dal bisogno di essere considerati pari agli altri, non inferiori. Sentirsi normali nel senso di sentirsi di pari valore, anche se profondamente diversi.
Questo bisogno di normalitĂ non nega la diversitĂ o il bisogno speciale dei deficit o delle patologie specifiche, soltanto li colloca allâinterno di un fondamentale ed essenziale bisogno di normalitĂ , di valore e di dignitĂ . Lâaffermazione dellâuguaglianza e del pari valore non nega le reali diversitĂ delle persone, ma non le usa come discriminanti o per giustificare la riduzione di diritti e opportunitĂ . I genitori che, per primi, negli anni Settanta, cercavano di superare le resistenze allâintegrazione scolastica dei loro figli disabili lottavano per la possibilitĂ di frequentare una scuola normale, di tutti, perchĂ© sentivano che il valore del loro figlio era normale, era pari a quello di tutti gli altri. Non credevano certo che il loro figlio fosse normale!
Ma la normalità non Ú soltanto «valore normale», cioÚ uguale di ogni persona, Ú anche fare come tutti, vivere con tutti gli altri, fare le esperienze che tutti gli altri fanno, nelle istituzioni, nelle aspettative, nelle consuetudini, nelle abitudini, nei rituali, nei luoghi «normali», quelli cioÚ «di tutti», non soltanto di qualcuno. Ci aiuta, in questa analisi, la definizione di «normalità » che dà un filosofo, Nicola Abbagnano:
CiĂČ che Ăš conforme a unâabitudine o a una consuetudine, o a una media approssimativa o matematica, o allâequilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad esempio, «condurre una vita normale» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo gruppo sociale; o «ha un peso normale» per dire che ha il peso corrispondente alla media di quello degli individui della stessa etĂ , razza, ecc. (Abbagnano, 1971, p. 765)
Ognuno di noi, anche se gravemente disabile, ha un profondo bisogno di normalitĂ , per realizzare al meglio, attraverso di essa, la sua socializzazione primaria e secondaria (Dubar, 2004). Ma cosa troviamo nella normalitĂ ? Forse il bisogno che piĂč si soddisfa nella normalitĂ Ăš quello di sviluppare la nostra identitĂ sociale, ma di questo discuteremo tra breve. Nella normalitĂ si trova appartenenza e coesione con altri, con la maggioranza degli altri, si sente di appartenere a un gruppo forte. Questo senso di appartenenza puĂČ anche assumere le forme estreme del conformismo (Mucchi Faina, 1997) e dello spirito gregario, la «voce del branco», ma Ăš prima di tutto un forte riconoscimento della comune appartenenza che sta alla base di tutte le relazioni e i rapporti sociali. Il senso di appartenenza alla normalitĂ crea anche coesione sociale tra gruppi che potrebbero altrimenti non aver alcun rapporto e legame reciproci, come ad esempio gli alunni disabili in una scuola speciale e gli alunni che frequentano una scuola normale. Si leggano in questo senso le righe di Stephen King, il celebre romanziere di fiction molto attento alla realtĂ antropologica contemporanea:
Duddits non lâavevano incontrato a scuola perchĂ© lui non andava alle medie di Derry, bensĂŹ alla scuola speciale, nota ai ragazzi del luogo come «lâAccademia dei rinco» oppure «la scuola degli scemi». Nel normale corso degli eventi, le loro strade non si sarebbero mai incrociate... (King, 2001, p. 125)
E, poco piĂč avanti, un altro segno di lontananza, di estraneitĂ di un gruppo, quello dei disabili, respinto e ridotto addirittura a paesaggio (la «disumanizzazione»):
[...] passano davanti allâAccademia dei rinco sullâaltro lato della strada senza neppure vederli. I ritardati escono alla loro stessa ora, ma gran parte di loro va a casa con la madre sullâautobus speciale [...] alcuni handicappati piĂč evoluti che hanno il permesso di tornare a casa da soli passano cazzeggiando con le loro strane espressioni perennemente perplesse. Pete e i suoi amici li guardano senza vederli, come sempre. Sono parte del paesaggio. (King, 2001, p. 125)
I ragazzi normali e quelli disabili non si incontrano, si ignorano, la coesione sociale si allenta, si disgregano i legami piĂč ampi di appartenenza e si rinforzano i microlegami dentro i rispettivi gruppi: quello degli alunni normali e quello dei «rinco», che non vengono neppure veduti, quasi come fossero un elemento inanimato dello sfondo, con il quale non ci sono relazioni. Appartenere invece tutti alla stesso gruppo crea coesione e limita la separazione in sottogruppi. Non occorre certo dire che il sentirsi in un gruppo lontano (o meglio allontanato) dalla normalitĂ genera sofferenza:
Quando mi sento escluso dagli altri della classe allora io prendo la mia roba e me ne vado. (CDH Bologna e CDH Modena, 2003, p. 61)
Appartenere alla normalitĂ produce invece senso di vicinanza affettiva ed emotiva, valorizzazione e sicurezza, autostima e calore; per usare unâaltra espressione ancora di Stephen King, ti fa «sentire in paradiso», perchĂ© si partecipa a qualcosa di normale, ad esempio si va nella scuola dei «normali», o ci si relaziona con persone considerate normali.
Andare a scuola in compagnia dei ragazzi grandi? Che vanno a quella che lui (il figlio disabile) chiama la scuola «vera»? Gli sembrerebbe di essere in paradiso. (King, 2001, p. 177)
Questo benessere psicologico non Ăš soltanto a senso unico, non ne beneficia, cioĂš, soltanto la persona debole, quella che aspira alla normalitĂ perchĂ© non Ăš normale. Tutti ne abbiamo bisogno e tutti godiamo dei benefici della normalitĂ e dellâappartenenza alla normalitĂ di tutti, anche di chi ha differenze. Gli amici normali del ragazzo disabile Duddits, dopo aver deciso di accompagnarlo a scuola, dicono:
«Okay», dice Henry. «Passiamo qui alle otto meno un quarto e lo accompagniamo a scuola. E lo riportiamo a casa nel pomeriggio.» [...]
Lo accompagneranno a scuola per i prossimi cinque anni, esclusi i giorni in cui Ăš ammalatoâŠnegli ultimi tempi Duddits non va piĂč alla scuola speciale, detta anche lâ«Accademia dei rinco», ma alla scuola professionale, dove impara a fare biscotti, a sostituire la batteria dellâauto, a contare il resto e a farsi il nodo della cravatta (che Ăš sempre perfetto, anche se talvolta gli scende a metĂ del petto). In quegli anni, Duddits cresce sino a superarli tutti in statura, diventando un adolescente dinoccolato con una faccia infantile di peculiare bellezza. In quegli anni gli insegnano a giocare a Monopoli in versione semplificata; inventano il Gioco di Duddits e si intrattengono in partite senza fine, talvolta ridendo cosĂŹ forte [âŠ] Duddits, entrando nelle loro vite, ha fatto loro un gran favore. Duddits che, come hanno capito sin dallâinizio, Ăš diverso da chiunque altro. (King, 2001, p. 178)
Verrebbe da chiedersi quale sia stata per Duddits lâesperienza piĂč normale e piĂč formativa, se la frequenza alla scuola professionale (lâironia dello scrittore traspare dalla sequenza sgangherata di obiettivi) oppure i pomeriggi di gioco a Monopoli con i compagni. Si noti che il gioco era un normale Monopoli diventato «speciale», adattato alla diversitĂ del giocatore piĂč peculiare, che, attraverso le sue regole «speciali», ha cambiato la vita stessa dei giocatori.
In questo riconoscimento reciproco si creano vicinanze, contatti, attribuzioni positive e si evitano i danni della stigmatizzazione e degli stereotipi negativi di diversitĂ . Fa parte ormai del patrimonio culturale condiviso la consapevolezza e il riconoscimento dei danni arrecati dagli stereotipi negativi e dei benefici portati invece da quelli positivi: si pensi allâeffetto Pigmalione, allâinteriorizzazione dellâimmagine sociale e alla conseguente modificazione del comportamento, degli atteggiamenti, dellâidentitĂ e della personalitĂ (Rosenthal e Jacobson, 1968; Goffman, 1959; Laing, 1961; Allport, 1954; Sartre, 1946; Fanon, 1952).
Se io sono nella normalità , se vi partecipo, anche se con modalità tutte mie, mi sento bene perché sento di partecipare a uno stereotipo positivo, vengo visto, giudicato nella normalità e riconosciuto nella mia normalità essenziale; la mia accettazione e la mia partecipazione mi fanno crescere, magari lentamente, verso la normalità .
Impariamo a essere ciĂČ che ci dicono di essere. (Laing, 1961)
Torniamo un attimo ai benefici psicologici di quella normalità , di quella quotidianità forse banale, certo consueta, che ci circonda. Luoghi di vita, percorsi scolastici, mezzi di trasporto, relazioni, passatempi normali⊠tutto questo dà anche una componente di forza psicologica per affrontare le difficoltà , come ci insegna Cyrulnik nella sua analisi della resilienza: diventiamo forti attraverso i nostri legami e il nostro significato dato agli eventi (Cyrulnik e Malaguti, 2005; Malaguti, 2005). La normalità Ú infatti un intreccio di legami e un potente generatore di senso condiviso, comune, elaborato insieme.
La normalitĂ puĂČ essere unâancora di salvezza, nei momenti piĂč drammatici, come hanno raccontato i sopravvissuti delle esperienze piĂč disumanizzanti, come i campi di sterminio, le prigionie, le torture.
Gli gira la testa. Bisogna resistere fino in fondo, fino al letto, fino alle tavole sulle quali finalmente si appiattirĂ bocconi, con gli occhi chiusi, le orecchie ronzanti, ad ascoltare il sangue circolare nelle arterie, a sentire vivere il proprio corpo, a pensare insomma a quelle stupidaggini che pure gli consentono di tener duro, a pensare a una finestra, a quattro pareti, a una camera con un letto, un fornello â non osa aggiungere la culla â, a un uomo che se ne va al mattino sapendo che ritornerĂ , a una donna che rimane e che sa di non essere sola, sa che non sarĂ mai sola, al sole che sorge e tramonta sempre negli stessi punti, a un barattolo di latta tenuto sotto il braccio come un tesoro, a un paio di stivali di feltro grigio, a un geranio che fiorisce, a cose tanto semplici che nessuno le conosce, o che magari qualcuno disprezza, arrivando persino a lagnarsene quando le possiede. (Simenon, 1991, pp. 237-238)
La forza scaturisce lentamente anche dalla sicurezza delle ...