Non so dire quando cominciĂČ. Forse avevo sette anni, forse qualcosa di piĂș, non ricordo con precisione. Da bambino non ti Ăš chiaro cosa Ăš normale e cosa non lo Ăš.
In realtĂ non ti Ăš chiaro nemmeno quando sei adulto, a pensarci bene. Ma questa Ăš una digressione e, nei limiti del possibile, vorrei evitare le digressioni.
Insomma, piĂș o meno una volta al mese, mi capitava una cosa strana e anche piuttosto angosciante. Senza preavviso e senza che fosse accaduto nulla, avvertivo unâimpressione di assenza, di distacco da ciĂČ che mi circondava e al tempo stesso unâamplificazione dei sensi.
Di solito noi selezioniamo gli stimoli che vengono dal mondo esterno. Siamo circondati da suoni, odori, e da ogni tipo di entitĂ visibili. Ma non siamo oggettivi, non udiamo tutto ciĂČ che rimbalza sui nostri timpani, non sentiamo tutto ciĂČ che arriva al nostro naso, non vediamo tutto ciĂČ che colpisce le nostre retine. Il cervello decide quali percezioni portare alla consapevolezza e quali informazioni registrare.
Il resto rimane fuori, escluso eppure molto presente. In agguato, verrebbe da dire.
Smettete di leggere e concentratevi sui rumori che sono intorno a voi e di cui non eravate consapevoli fino a qualche secondo fa. Anche se siete in una stanza silenziosa, vi accorgerete di un macchinario lontano; di un fruscio, di un ronzio; di voci piĂș o meno vicine, le cui parole non riuscite a distinguere, ma che ci sono. E diventerete consapevoli dei movimenti, delle vibrazioni che produce il vostro corpo: il respiro, il battito cardiaco, i gorgoglii dellâapparato digerente.
PuĂČ non essere una sensazione piacevole e di certo non lo era per me. In effetti il mio cervello smetteva di operare una selezione e lasciava passare tutto. A questo fenomeno corrispondeva una temporanea abolizione della capacitĂ di entrare in contatto con gli altri: con tanti, troppi stimoli, era impossibile. Per alcuni minuti non riuscivo a parlare e me ne stavo lĂ, seduto da qualche parte, come ubriaco.
Per anni non ne parlai con nessuno. Mi sembrava fosse una caratteristica normale del mio modo di essere, inoltre non avrei saputo bene cosa dire. Non avevo le parole per raccontare quellâesperienza.
Poi un giorno mi successe a casa di un compagno di scuola. Ernesto, figlio di un ufficiale dei carabinieri che abitava in uno sterminato alloggio di servizio. Eravamo nella sala da pranzo e giocavamo a subbuteo dopo aver mangiato â chissĂ perchĂ© ricordo questo dettaglio â delle caramelle mou.
Sua madre era seduta in poltrona e mi pare stesse lavorando a maglia.
Ero in attacco e stavo per tirare in porta da una posizione molto vantaggiosa, ma non lo feci. Allâimprovviso, e con una violenza che non avevo mai sperimentato, fui travolto da una gigantesca cacofonia che arrivĂČ come un torrente in piena gonfio di detriti. Lâurto fu cosĂ potente che per qualche istante persi i sensi.
Mi risvegliai in poltrona, la stessa su cui prima câera la mamma di Ernesto. Lei era china su di me, mi accarezzava il viso e mi parlava in tono preoccupato.
â Antonio, Antonio, come ti senti?
â Bene, â risposi, poco convinto.
â Che ti Ăš successo?
â Che mi Ăš successo?
â Non parlavi e sembrava che non sentissi. Poi sei svenuto.
I rumori erano passati ma io ero ancora confuso e non riuscii a dire nulla. Allora la mamma di Ernesto chiamĂČ mia madre e le riferĂ lâaccaduto. Rientrato a casa fui sottoposto a un nuovo interrogatorio.
â Che ti Ăš successo, Antonio?
â Non lo so. CioĂš, niente di strano.
â La mamma di Ernesto dice che ti parlavano e tu non rispondevi, come se fossi stordito o addormentato.
â A volte mi capitaâŠ
â Cosa, ti capita?
Mi sforzai di descrivere quello che mi accadeva di tanto in tanto, e che quel pomeriggio si era verificato in forma piĂș violenta.
La sensazione che qualcuno mi stesse suonando un tamburo nel petto. Il respiro, cosĂ presente da convincermi che se mi fossi distratto, se avessi smesso di pensare a respirare, sarei morto per asfissia.
I suoni piĂș ordinari che si trasformavano in un frastuono intricato.
E poi câera unâaltra cosa che mi capitava con una certa frequenza: lâimpressione di avere giĂ vissuto il momento che stavo vivendo. Mi avrebbero presto spiegato che si chiamava dĂ©jĂ -vu e che era un fenomeno relativamente normale. Allora perĂČ non lo sapevo e talvolta mi sembrava di abitare in un mondo di fantasmi.
Mia madre chiamĂČ mio padre e una mezzâora dopo lui ci raggiunse. Questo mi fece pensare che il problema fosse abbastanza serio e che forse avevo sottovalutato i miei sintomi. I miei genitori si erano separati che io avevo nove anni e da allora papĂ era entrato a casa di mamma â che prima era anche casa sua â pochissime volte, e mai di sera. Quando andavo da lui passava a prendermi, io scendevo le scale, salivo in macchina e partivamo.
Mi ripetĂ© le stesse domande e io gli diedi, credo, le stesse risposte. DopodichĂ© chiamarono il dottor Placidi, nostro medico di famiglia. Era un anziano, simpatico signore con dei grandi baffi bianchi, i capillari del naso rotti e un odore dolciastro nellâalito che solo parecchi anni dopo sarei stato capace di identificare. ChissĂ se i miei genitori erano consapevoli del fatto che il nostro fidato dottore non era propriamente astemio.
Venne da noi, mi visitĂČ e soprattutto mi fece tante domande. Avevo convulsioni? Mi spiegĂČ cosâerano e io dissi che no, non ne avevo mai avute. Avevo allucinazioni colorate o momenti di buio totale? No, nemmeno.
Câerano solo questi sovraccarichi sensoriali durante i quali perĂČ rimanevo presente ed ero capace di orientarmi, sebbene con difficoltĂ .
Quel pomeriggio da Ernesto tutto era stato piĂș intenso, ma in fondo non mi pareva troppo diverso da quando a scuola mi distraevo, non ascoltavo piĂș cosa dicevano i professori e mi mettevo a fantasticare.
â Ti capita di distrarti, a scuola? â chiese il medico.
â Qualche volta.
â Come se non sentissi quello che dicono i professori?
Guardai un attimo mia madre e mio padre. Non ero sicuro di dover condividere con loro quel tipo dâinformazione, poi decisi che bisognava collaborare con il medico e annuii. Lui sorrise in segno di approvazione, come se avessi dato la risposta esatta. Lâodore del suo alito era un poâ piĂș forte del solito.
Mi fece fare alcuni bizzarri esercizi. Dovevo stare in equilibrio su una gamba; chiudere gli occhi e toccarmi la punta del naso, prima con lâindice destro, poi con lâindice sinistro; stringere con forza un suo pollice nel pugno.
â Nulla di cui preoccuparsi, â disse infine rivolgendosi a mio padre. â Ă un normale disturbo neurovegetativo, capita ai ragazzini, soprattutto i piĂș sensibili. Con lâadolescenza i fenomeni scompariranno.
Poi si rivolse a me e aggiunse: â Il tuo cervello ha una super attivitĂ elettrica, Ăš un segno di intelligenza.
Diciamocelo: la diagnosi era piuttosto vaga. Disturbo neurovegetativo vuol dire tutto, e dunque niente. Come se uno si rivolgesse al medico per un mal di testa e, dopo la visita, si sentisse dire che ha il mal di testa.
Il dottor Placidi aveva perĂČ un aspetto rassicurante, un modo di parlare rassicurante â alito a parte â e infatti i miei genitori si rassicurarono. La vita riprese regolare e lâevento di quel pomeriggio fu dimenticato in fretta.
Passarono gli anni, in modo piuttosto normale.
Nonostante la diagnosi un poâ approssimativa, la previsione del medico si stava rivelando esatta.
Ormai non mi capitava piĂș di una volta al mese e le sensazioni erano via via piĂș tenui, sfumate. Lâunica cosa che mi inquietava ancora era il dĂ©jĂ -vu, con il suo alone di fenomeno vagamente soprannaturale.
Ma insomma, era roba di attimi, perciĂČ stavo per archiviare il tutto, come accade quando svuoti gli armadi e gli scaffali della tua stanza da bambino e metti via per sempre i quaderni a quadretti grandi, i sussidiari, i grembiuli col fiocco della scuola elementare, le scatole dei soldatini, degli animaletti e delle macchinine.
Facevo la quarta ginnasio ed ero appena tornato a casa da scuola. Anche mia madre era appena rientrata dallâuniversitĂ ; stava preparando qualcosa per pranzo o parlava al telefono. Non lo so.
Io ero nella mia camera, sulla sedia a dondolo, che leggevo un albo di «Tex».
A un certo punto gli infissi vibrarono â per via del vento, credo â e il rumore fu cosĂ forte da farmi pensare a un terremoto. Mi alzai con circospezione e fui investito dalla tracimazione dei suoni. La televisione nellâaltra stanza, un ciclomotore in strada, il cuore imbizzarrito lĂ dentro, il respiro incombente come in certi documentari sul mondo sottomarino o in certi film di suspense; persino i miei pochi passi incerti sul pavimento.
Avevo un copriletto azzurro chiaro, quasi celeste. Dâun tratto quel colore tenue e rilassante divenne minaccioso, prese vita, balzĂČ verso di me come unâentitĂ psichedelica e mi attraversĂČ con irreale violenza. Subito dopo, ancora dal copriletto si diffuse un fascio di luce, una specie di arcobaleno, prima azzurro, poi blu, giallo e di altri colori, fino a diventare di un bianco accecante che si trasformava in una serie di scie luminose. Queste sâincrociavano fra loro, si univano, si spezzettavano e si moltiplicavano, riempiendo a poco a poco il mio campo visivo.
Il frastuono diventĂČ assordante. Mi coprii le orecchie con le mani e cercai di chiedere aiuto. Non so se ci riuscii: Ăš lâultima cosa che ricordo.
Parecchi anni dopo mamma mi avrebbe raccontato di avermi trovato a terra, scosso dalle convulsioni, con gli occhi rovesciati e privo di conoscenza.
Nel mio film personale la scena successiva alla dissolvenza Ăš una soggettiva da un letto di ospedale: una stanza con mobili colore del latte condensato.
Câera gente intorno a me, ma in quel preciso istante nessuno mi guardava. Câerano mia madre, mio padre e degli uomini in camice bianco. Parlavano fra loro a bassa voce. Poi qualcuno si accorse che mi ero svegliato.
I miei genitori vennero verso di me.
â Antonio, come ti senti? â disse mia madre prendendomi la mano e accarezzandomi la fronte. Un gesto non usuale che, non so dire bene per quale motivo, mi fece venire da piangere.
â Cosa Ăš successo? â domandai dopo parecchi secondi.
â Hai⊠hai avuto un malore, un giramento di testa molto forte⊠â Il tono era strano. Mamma parlava sempre in maniera netta, sicura. Pronunciava frasi compiute come se leggesse da un copione ben scritto. Quella volta no.
â Hai avuto un malore, â ribadĂ mio padre, â ma non devi preoccuparti, adesso siamo in ospedale. I dottori fanno i loro controlli e ti riportiamo subito a casa.
Pure nello stato di torpore in cui mi sentivo â dipendeva dal valium â mi fu chiarissima la dissonanza fra le parole rassicuranti di mio padre e la sua espressione. Sembrava un ragazzino che dâun tratto fosse stato informato sulla vera natura del mondo e sui suoi pericoli mortali.
Accanto a lui si collocĂČ uno degli uomini in camice. Aveva la carnagione scura,...