In principio era la meraviglia
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In principio era la meraviglia

Le grandi questioni della filosofia antica

Enrico Berti

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In principio era la meraviglia

Le grandi questioni della filosofia antica

Enrico Berti

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I greci sono stati l'alpha e l'omega della filosofia. Partendo da Aristotele, Enrico Berti offre una appassionante introduzione al pensiero antico e ai suoi grandi problemi, che sono in fondo gli eterni problemi della filosofia: che cos'è l'essere? Chi sono gli dèi? Chi è l'uomo? Come possiamo raggiungere la felicità? Che cosa ci attende dopo la morte?Franco Volpi, "la Repubblica"La meraviglia, secondo Aristotele, è l'origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d'animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Attraverso le domande e le risposte dei filosofi greci, Enrico Berti racconta lo stupore dell'uomo di fronte al mondo.

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Informations

Année
2011
ISBN
9788858101520

VII. Che cos’è la felicità?

1. Antichi e moderni

«Il programma del principio del piacere stabilisce lo scopo della vita. Questo principio domina l’apparato psichico fin dall’inizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia ‘felice’. Quel che nell’accezione più stretta ha nome felicità, scaturisce dal soddisfacimento, per lo più improvviso, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico»1. Questa affermazione di Freud, il padre della psicoanalisi, consente di misurare tutta la distanza esistente tra la concezione antica e quella moderna della felicità. Se per gli antichi, nonostante la varietà delle posizioni filosofiche individuali, la felicità costituisce il fine supremo della vita, per i moderni – e ancora di più per i contemporanei – la felicità diviene un traguardo impossibile, mentre il suo opposto – l’infelicità – si impone come il prezzo che l’uomo deve pagare per ottenere in cambio maggiore civiltà e condizioni di vita più sicure. La realtà esterna, con i suoi mille imprevisti, le pulsioni interne, le regole morali e le convenzioni sociali sono i padroni a cui ogni individuo deve rispondere quotidianamente, nell’affannoso tentativo di ridurre l’insoddisfazione o di rinviare la felicità in uno spazio e in un tempo ultraterreni. Nel fluido mondo moderno, insomma, la ricerca della felicità si configura come un’impresa paragonabile alla quadratura del cerchio, come un conflitto irrimediabile tra l’aspirazione al soddisfacimento immediato delle proprie inclinazioni particolari e gli imperativi universali della ragione.
Dato che ogni conoscenza e scelta tende a un qualche tipo di bene, qual è quel bene che noi sosteniamo essere [...] il bene pratico più alto? Ora, per quanto riguarda il nome vi è un accordo quasi completo nella maggioranza: sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama «felicità» (eudaimonia), e credono che vivere bene e avere successo siano la stessa cosa che essere felici. Ma su cosa sia la felicità, vi è disaccordo, e la massa non la intende nello stesso modo dei sapienti, dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o onore, e altri altro2.
Così Aristotele riassume invece il comune modo di pensare degli antichi Greci, quasi tutti concordi nel ritenere che il bene supremo dell’uomo, cioè il fine ultimo di tutte le sue azioni, sia la felicità. Le divergenze, tra le persone comuni e i filosofi, nonché tra gli stessi filosofi, non riguardano questa convinzione di carattere generale, ma la definizione della felicità. E quando Aristotele, come tutti i Greci, identifica la felicità col bene supremo, non la intende solo come ciò a cui di fatto tutti aspirano, bensì anche come ciò a cui tutti devono aspirare, cioè come il bene morale più alto.
Al contrario, nell’età moderna – almeno a partire da Kant – la felicità non ha nulla a che fare con l’etica, appartiene al mondo delle inclinazioni sensibili, cioè al mondo della natura, non della libertà. Il fatto che tutti desiderino la felicità, secondo il filosofo di Königsberg, non significa che la felicità sia un bene nel senso morale. Essa è semplicemente l’appagamento dei desideri, che in sé non ha nulla di meritorio, o di lodevole, ma è qualcosa che accomuna l’uomo a tutti gli animali. Dopo Kant questo modo di pensare è diventato generale. Persino Hegel, che criticò duramente l’etica kantiana, concorda con Kant nel ritenere che l’identificazione del bene con la felicità sia espressione di eteronomia, cioè di dipendenza da altro – nel caso specifico dagli impulsi naturali –, non di autonomia della ragione. Detto altrimenti, la questione della felicità attiene al mondo della natura, e non a quello della libertà. Tutte le concezioni etiche moderne, dopo Kant, identificano l’«eudemonismo», cioè l’etica della felicità, con l’utilitarismo, o con l’edonismo, e lo considerano una forma di naturalismo, cioè di subordinazione dell’etica alla natura, o addirittura di egoismo.
Come si spiega questa divergenza così profonda, che oppone i moderni non solo a filosofi come Aristotele o Epicuro, indubbiamente propensi a valorizzare gli impulsi e i desideri, ma anche a filosofi severi, rigorosi ed ascetici come Platone e gli Stoici? Evidentemente alla base di essa c’è un diverso modo di intendere la felicità. Per i moderni «essere felici» significa soddisfare i desideri, appagare gli impulsi, realizzare delle preferenze o delle inclinazioni. Per questo essi tendono a concepire la felicità come uno stato d’animo transitorio, a volte anche solo istantaneo, e come un fatto puramente individuale, che perciò non tarda ad assumere una colorazione di tipo egoistico. Certo, questo modo di concepire la felicità era presente anche tra gli antichi, ma era il modo di pensare della «massa» – come dice Aristotele nel brano sopra citato –, cioè della maggior parte della gente, degli uomini comuni, non dei «sapienti», che le attribuivano altri significati.
I filosofi non avevano infatti nessuna difficoltà a identificare la felicità col bene, cioè con l’oggetto dell’etica, o addirittura della politica. Ciò è stato dimostrato efficacemente in un libro scritto da una filosofa americana di origine inglese, Julia Annas, libro che nella lingua originale si intitola The Morality of Happiness3, mentre nella traduzione italiana è stato intitolato, peraltro col consenso dell’autrice, La morale della felicità4. La differenza tra le due espressioni è chiara: quella italiana fa semplicemente riferimento a tutte le etiche che pongono come valore supremo la felicità, mentre quella inglese sottolinea il valore morale della felicità, la «moralità» della felicità, che è precisamente la tesi delle etiche antiche. Julia Annas non si limita ad esporre le concezioni etiche proposte da Aristotele fino all’età ellenistica (Stoici, Epicurei, Scettici) – nei filosofi precedenti, cioè nei Presocratici, in Socrate e in Platone, l’etica non è ancora una disciplina filosofica autonoma –, ma mostra anche come in esse la felicità abbia un valore morale, cioè non implichi alcuna forma di naturalismo, o di utilitarismo, o di egoismo, nel senso moderno di questi termini.
Un’altra differenza che contrappone i maggiori filosofi antichi a molti filosofi moderni è il rapporto tra la felicità e la politica, e quindi tra la felicità e la libertà. Infatti, ammesso che la felicità abbia un valore morale, cioè coincida col bene, non è detto che essa debba essere l’oggetto, oltre che dell’etica, anche della politica, cioè che debba costituire il fine della società, o dello Stato, o più in generale dell’organizzazione politica caratteristica di un determinato periodo storico. Per Socrate, Platone, Aristotele, ma anche per molti Stoici, la polis – cioè la massima istituzione politica della Grecia classica – o il regno, o l’impero, oltre che il singolo individuo, hanno come fine, o devono avere come fine, la realizzazione del bene supremo dei cittadini, cioè della felicità. Invece per i filosofi moderni, o almeno per Kant e per quanti si ispirano a lui (per esempio nella filosofia politica del Novecento l’americano John Rawls), il governo non deve assolutamente occuparsi della felicità, ma deve al contrario lasciare ciascuno libero di costruirsi la sua felicità come meglio preferisce. Il governo non deve nemmeno occuparsi del bene, perché non esiste una concezione comune, condivisa da tutti, di che cosa è bene, e ciascuno deve essere libero di perseguire ciò che lui intende come bene. Il governo deve assicurare a tutti la libertà, ossia la possibilità per ciascuno di cercare la sua felicità nel modo che egli ritiene il migliore, e la giustizia, cioè i mezzi, le condizioni necessarie, affinché ciascuno – se lo vuole – realizzi la propria felicità.
Solo in alcuni casi, che sono risultati eccezioni significative e degne di richiamare l’attenzione, i moderni hanno assegnato come fine all’autorità politica la realizzazione della felicità. Il più clamoroso è quello rappresentato dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, la quale ha recepito dalla Costituzione dello Stato della Virginia e poi dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776, tra i diritti dell’uomo, che lo Stato deve garantire anche il diritto al «perseguimento della felicità» (the pursuit of happiness). Si tratta di un’espressione inserita nel testo costituzionale da Thomas Jefferson, il quale a sua volta l’aveva ripresa da filosofi inglesi (Joseph Priestley) che erano stati in contatto, attraverso i Sociniani, con l’aristotelismo padovano del Rinascimento, cioè con una tradizione dell’età moderna, che risaliva in ultima analisi proprio ad Aristotele.
Anche questa differenza, come vedremo, dipende da come si intende la felicità, cioè dalla concezione che si ha del bene. Se il bene è inteso solo come soddisfazione delle proprie preferenze, è chiaro che l’autorità politica non può sostituirsi a nessuno e non può stabilire le preferenze di nes...

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