Hate speech
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Hate speech

Il lato oscuro del linguaggio

Claudia Bianchi

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  1. 224 pages
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Hate speech

Il lato oscuro del linguaggio

Claudia Bianchi

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Commenti sessisti, insulti razzisti, attacchi omofobici: le parole possono essere scagliate contro gli altri per deriderli, ferirli, umiliarli, e ancor piĂč per rinchiuderli in ruoli e posizioni di inferioritĂ . Le parole possono essere potenti strumenti di oppressione, pesanti come pietre.

Chi parla, soprattutto se da posizioni di autoritĂ  o in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilitĂ : ciĂČ che diciamo cambia i limiti di ciĂČ che puĂČ essere detto, sposta un po' piĂč in lĂ  i confini di ciĂČ che viene considerato normale, assodato, legittimo. E cambiare i limiti di ciĂČ che puĂČ essere detto cambia allo stesso tempo i limiti di ciĂČ che puĂČ essere fatto: ci abituiamo a una mancanza di attenzione e vigilanza sulle parole, che rende piĂč accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni. Il silenzio, l'indifferenza o la superficialitĂ  con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corrono il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione, legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.CosĂŹ il libro indaga una delle declinazioni piĂč interessanti del tema della violenza: quello che Ăš diventato comune chiamare hate speech ('linguaggio d'odio' o 'discorso d'odio'). Con questo termine si indicano espressioni e frasi che comunicano derisione, disprezzo e ostilitĂ  verso gruppi sociali e verso individui in virtĂč della loro mera appartenenza a un gruppo; le categorie bersaglio dei discorsi d'odio vengono identificate sulla base di tratti sociali come etnia, religione, genere, orientamento sessuale, (dis)abilitĂ . Lo hate speech raccoglie usi discorsivi estremamente vari: dalla propaganda nazista alle leggi sull'apartheid, dal discorso ideologico di certe formazioni politiche fino agli esempi quotidiani di linguaggio d'odio divenuti ormai tristemente frequenti. Un tema diventato ancor piĂč d'attualitĂ  con il diffondersi dei nuovi media: commenti sessisti, insulti razzisti e attacchi omofobici hanno trovato un ambiente ideale per esprimersi online, dove spesso mancano mediazioni, filtri o (auto)censure.

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Informations

Éditeur
Editori Laterza
Année
2021
ISBN
9788858144732

IV.
Guerra e pace:
contrastare il linguaggio d’odio

1. Prologo: Lev Tolstoj, Guerra e pace

Nel primo libro di Guerra e pace troviamo un’altra, insolita proposta di matrimonio. Coinvolge Pierre, figlio illegittimo del conte Bezuchov, divenuto erede in maniera inaspettata di una fortuna immensa. Impacciato e sognatore, fino ad allora deriso dall’alta societĂ , Pierre si ritrova a essere uno dei migliori partiti di Pietroburgo. Si incapriccia della bella HĂ©lĂšne, avida e perfida figlia dell’avido e perfido principe Vasilij Kuragin, ma tarda a chiederne la mano. Per affrettare la proposta di matrimonio, il principe Vasilij organizza una festa e fa in modo che i due giovani restino soli in un salottino, sorvegliati a distanza dai coniugi Kuragin. Pierre, un po’ per goffaggine e un po’ per la consapevolezza dell’inadeguatezza di quell’unione, non si risolve a fare la sua dichiarazione. Fino a che il principe Vasilij non decide di intervenire.
– Aline – disse alla moglie – allez voir ce qu’ils font.
La principessa si avvicinĂČ a quell’uscio, vi passĂČ dinanzi con una significativa aria d’indifferenza, e lanciĂČ un’occhiata nel salottino. Pierre ed HĂ©lĂšne, sempre a quel modo, sedevano lĂŹ a chiacchierare.
– Nulla di nuovo – rispose la principessa al marito.
Il principe Vasilij aggrottĂČ gli occhi, arricciĂČ la bocca da un lato, mentre le guance incominciavano a saltellargli con quella sgradevole, brutale espressione che gli era propria; si diede una scrollata, si rizzĂČ, gettĂČ la testa all’indietro, e con andatura risoluta, rasentando le signore, s’avviĂČ in salottino. A rapidi passi, giocondamente, s’accostĂČ a Pierre. C’era, sulla faccia del principe, una tale inconsueta solennitĂ , che Pierre, spaurito, si tirĂČ su, appena se n’avvide.
– Dio sia ringraziato! – esclamĂČ quello. – Mia moglie mi ha detto tutto! – Qui strinse a sĂ© con un braccio Pierre, con l’altro la figliuola. – Cara la mia LĂ«lja! Io sono tanto, tanto felice... – La voce incominciĂČ a tremargli. – Ho voluto un gran bene a tuo padre... e anche lei sarĂ  per te una brava moglie... Che il Signore vi benedica!
AbbracciĂČ la figliuola, poi di nuovo Pierre, e lo baciĂČ, tra il cattivo odore che gli usciva dalla bocca. Le guance, realmente, gli si erano inumidite di lacrime.
– Principessa, ma vieni qui, dunque! – gridĂČ.
La principessa entrĂČ, e ruppe in lacrime anche lei. La signora anziana, a sua volta, si asciugava gli occhi col fazzoletto. Pierre fu baciato, e piĂč volte, da parte sua, baciĂČ la mano alla bellissima HĂ©lĂšne. Dopo un certo tempo li lasciarono di nuovo soli.
– “Tutto doveva andare cosĂŹ e non poteva andare altrimenti – pensava Pierre – Ăš inutile, quindi, star a domandare se Ăš bene o se Ăš male. È bene, giacchĂ© Ăš ormai definito, e non c’ù piĂč, come prima, quel tormento del dubbio!”. In silenzio, Pierre teneva stretta la mano della sua fidanzata, e lo sguardo gli andava al sollevarsi e al riabbassarsi di quello splendido seno.
– HĂ©lĂšne! – esclamĂČ ad alta voce, e si fermĂČ.
“C’ù qualcosa di particolare che s’usa dire in queste occasioni” pensava: ma a nessun costo gli veniva in mente che cosa, di preciso, s’usasse dire in queste occasioni (Lev Tolstoj, Guerra e pace, pp. 326-327).
Intento per tutta la serata a “parlare di cose secondarie”, scrive Tolstoj, Pierre si ritrova d’un tratto ad aver chiesto la mano della bella HĂ©lĂšne. Il suo comportamento e il suo stesso silenzio vengono distorti – e trasformati dal principe Vasilji in dichiarazione d’amore e proposta di matrimonio.
“C’ù qualcosa di particolare che s’usa dire in queste occasioni” – pensa Pierre – ma ricorda le parole solo paragrafi dopo:
– Je vous aime! – esclamĂČ, ricordandosi finalmente di quello che bisognava dire in queste occasioni: ma le sue parole risonarono cosĂŹ squallide, che sentĂŹ vergogna di se stesso (Lev Tolstoj, Guerra e pace, p. 327).
Nei capitoli precedenti abbiamo visto che le parole di chi ù in una qualche posizione di dominio possono mutare in altro le parole di chi ù in posizione subordinata. In questo capitolo vedremo che anche gli astanti – innocenti o conniventi, indifferenti o complici – possono condizionare il potere performativo dei parlanti, la loro capacità di fare cose con le parole. Siamo responsabili non solo delle nostre parole, ma in certa misura anche delle parole degli altri.
E questo nel bene e nel male. La nostra responsabilitĂ  ha infatti due direzioni. Abbiamo una pesante responsabilitĂ  negativa: possiamo (intenzionalmente o meno) legittimare interpretazioni indebolite e ingiuste, autorizzare la riduzione al silenzio di certi individui, avallare discorsi d’odio. È quello che fanno HĂ©lĂšne e la madre alle parole del principe Vasilij; i giudici in certi processi per stupro (“Le donne che dicono ‘no’ non sempre vogliono dire ‘no’”); i passeggeri che, di fronte a un’aggressione verbale nella carrozza di una metropolitana, restano in silenzio e guardano altrove; gli astanti che ridacchiano quando qualcuno si riferisce a un conoscente con “terrone” o “finocchio”, che minimizzano gli episodi di razzismo e sessismo, che si mostrano insofferenti davanti a denunce e proteste.
Accanto a questa responsabilitĂ  negativa, abbiamo anche una formidabile responsabilitĂ  positiva: possiamo ostacolare la distorsione degli atti linguistici degli altri, contrastare i meccanismi alla base della riduzione al silenzio, della subordinazione e, piĂč in generale, del linguaggio d’odio. La riflessione teorica stessa puĂČ rivelarsi una forma di resistenza concettuale, che ci impegna in qualitĂ  di filosofe e filosofi. La filosofia ci permette di plasmare nuove, potenti nozioni, e di metterle a disposizione non solo degli individui ma anche del mondo giuridico, medico, educativo (Haslanger 2012). Dal momento che a contare Ăš stata a lungo la prospettiva sulla realtĂ  di uomini, bianchi, occidentali, eterosessuali, di ceto medio-alto, a volte mancano i concetti stessi utili a definire, raccontare e interpretare realtĂ  che contano per certi gruppi discriminati, o per le donne. Per fare qualche esempio, concetti e termini come “molestie sessuali”, “sessismo”, “femminicidio”, o lo stesso concetto di “genere”, sono categorizzazioni recenti elaborate da studiose femministe allo scopo di colmare queste lacune interpretative e identificare elementi problematici comuni alle esperienze di molte donne. L’importanza di questo potere ermeneutico non deve essere sottovalutata: dare un nome a un problema Ăš il primo passo per identificarlo e combatterlo.
Naturalmente, accanto alla resistenza concettuale abbiamo anche forme di resistenza pratica, che possiamo mettere in atto in quanto cittadine e cittadini. Possiamo allora resistere ai discorsi d’odio e contrastarli, sostenere e amplificare le lotte in difesa dei diritti civili, dare riconoscimento e valore a identità inconsuete di donne e uomini, promuovere narrazioni alternative delle loro relazioni. Tirrell distingue due tipi di contrasto al linguaggio d’odio: da un lato rimedi a un danno già provocato, sorta di antidoti al veleno introdotto nella società dai discorsi tossici; dall’altro strategie preventive, sorta di vaccini in grado di immunizzare la società, o parti della società (Tirrell 2018, p. 136). Parole come pietre; parole come veleno. Come scrive il filologo Victor Klemperer nella sua analisi della lingua del Terzo Reich: “Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico” (Klemperer 1947, trad. it. p. 15).

2. Resistenza concettuale: Pierre ed Elizabeth

2.1. Recezione effettiva

Fino a che punto puĂČ arrivare la distorsione degli atti linguistici degli altri? Quella di Pierre Ăš l’antenata illustre di un’altra proposta di matrimonio, utilizzata da Kukla come esempio del ruolo degli astanti non solo nell’interpretare un atto linguistico, ma addirittura nel costituirlo o perfezionarlo come atto linguistico di un certo tipo. La forza performativa delle nostre parole, scrive Kukla, Ăš s...

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