Meditazioni sul vivere - 2. Il silenzio della mente
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Meditazioni sul vivere - 2. Il silenzio della mente

Jiddu Krishnamurti, Anna Mola

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Meditazioni sul vivere - 2. Il silenzio della mente

Jiddu Krishnamurti, Anna Mola

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Il silenzio della mente, secondo volume della nota trilogia Meditazioni sul vivere, contiene un'ampia selezione di conversazioni tenute da Krishnamurti sul tema della verità. Durante i suoi numerosi viaggi e pellegrinaggi, infatti, il grande maestro era solito registrare nei suoi taccuini i pensieri e gli incontri più interessanti. E proprio quei quaderni sono alla base di questo libro che, in una cinquantina di brevi saggi, tocca argomenti riguardanti gli interrogativi più profondi dell'esistenza umana ( il senso della meditazione, dell'amore, del desiderio...). Parole di grande saggezza che invitano alla necessità di mantenersi lucidi e sereni: un insegnamento che sfida i limiti del pensiero razionale, organizzato intorno a un coacervo di idee chiuse sul concetto di individualità, per arrivare a superare gli schemi e i confini della comprensione del reale nella sua più intima essenza.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2021
ISBN
9788835708971
1

FELICITÀ CREATIVA

Una città respira sulle rive del grande fiume; ampi e lunghi gradini conducono giù fino all’acqua, e il mondo sembra vivere su quei gradini. Dall’alba fino a sera inoltrata sono sempre affollati e pieni di voci e grida; quasi a livello dell’acqua, altri piccoli gradini si protendono verso il fiume, e la gente vi siede perduta nelle speranze e nei desideri, nelle meditazioni e nelle recitazioni. Le campane del tempio suonano, il muezzin chiama; qualcuno sta cantando, una folla enorme si è radunata e ascolta in ammirato silenzio.
Più oltre, dietro l’ansa, e più su risalendo il fiume, si scorgono moltissimi edifici. Divisi dalle larghe strade costeggiate dagli alberi, i palazzi si susseguono verso l’interno per molti chilometri; proseguendo lungo il fiume, un viottolo stretto e sudicio conduce in questo angolo separato dove si studia. Tanti e tanti allievi provenienti da tutto il paese vivono qui, e sono seri, attivi e vivaci; invece gli insegnanti hanno un atteggiamento arrogante e appaiono solo interessati a tramare per ottenere posizioni e salari migliori. Nessuno sembra avere veramente a cuore ciò che potrà accadere agli studenti una volta terminati gli studi: gli insegnanti si limitano a impartire determinate conoscenze e tecniche che i ragazzi più svegli apprendono facilmente; e quando si diplomano, è tutto. Gli insegnanti hanno un lavoro garantito, hanno famiglia e sicurezza; invece quando gli studenti lasceranno la scuola, dovranno affrontare gli sconvolgimenti e le incertezze della vita. Esistono palazzi, insegnanti e studenti di questo tipo un po’ in tutto il paese. Alcuni studenti raggiungono la fama e conquistano una posizione di prestigio nel mondo; altri sopravvivono, lottano e muoiono. Lo Stato esige tecnici competenti, amministratori che reggano le sorti del paese; e non dimentichiamo l’esercito, la Chiesa e la carriera. In tutto il mondo è la stessa storia.
Non è forse solo per imparare una tecnica e ottenere un buon lavoro, una professione prestigiosa, che intraprendiamo un percorso che ci riempie la mente superiore di fatti e conoscenze? Naturalmente, nel mondo moderno, un buon tecnico ha le possibilità migliori per guadagnarsi da vivere; ma poi? Un buon tecnico è forse in grado di affrontare meglio il difficile mestiere di vivere rispetto a colui che non lo è? Una professione è solo una parte della vita; esistono altre parti che sono nascoste, sottili e misteriose. Enfatizzarne una e negarne o contrastarne un’altra non può che portare inevitabilmente a un insieme di azioni fuorviate e disgreganti, come con triste puntualità si sta verificando nel mondo attuale, dove i conflitti e la confusione, la miseria e la sofferenza aumentano di giorno in giorno. Anche se per fortuna esistono rare eccezioni: i creativi, le persone felici, coloro che non hanno a che fare con ciò che è strettamente determinato dall’uomo, che non sono dipendenti dalle istanze della mente.
Voi e io intrinsecamente possediamo la capacità di essere felici, di essere creativi, di metterci in contatto con quel qualcosa che sfugge alle grinfie del tempo. La felicità creativa non è un dono riservato a pochi; e allora com’è che la grande maggioranza sembra non sospettarne nemmeno l’esistenza? Perché alcuni di noi sembrano riuscire a restare in contatto con il proprio io profondo a dispetto delle circostanze e degli accadimenti avversi, mentre altri ne vengono semplicemente distrutti? Qual è la ragione per cui alcuni di noi riescono a mantenere una particolare elasticità e possedere quindi ottime capacità di ripresa, mentre altri sono caratterizzati da un atteggiamento di rigidità e vengono quindi travolti? A dispetto d’ogni sapere, alcuni lasciano la porta aperta a ciò che nessuna persona e nessun libro possono offrire, mentre altri vengono soffocati dalla tecnica e dall’autorità. Perché? È abbastanza chiaro che la mente ha bisogno di essere impegnata e coinvolta in determinate attività, lasciando da parte i contenuti più profondi e vasti: in questo modo si muove su un terreno più sicuro. L’educazione, gli esercizi e le attività della mente vengono incoraggiati e sostenuti solo se si mantengono a un livello superficiale e tutti noi ci inventiamo scuse per non andare oltre.
Prima di essere contaminati dalla cosiddetta educazione, molti bambini sono in contatto con l’inconoscibile: e lo dimostrano in tantissimi modi. Ma presto l’ambiente incomincia a richiudersi su di loro, e crescendo sono destinati a perdere quella luce, quella bellezza che non si trova in nessun libro e non si impara in nessuna scuola. Perché? Non diciamo che la vita è troppo per loro, che devono affrontare la dura realtà dell’esistenza, che è il loro karma, che è il peccato originale: tali affermazioni sono senza senso. La felicità creativa è per tutti e non solo per pochi: tu puoi esprimerla in un modo e io in un altro, ma continua a essere per tutti. La felicità creativa non ha un valore di mercato; non è un bene che può essere venduto al miglior offerente, ma è la sola cosa che può essere di tutti, per tutti.
La felicità creativa è quindi realizzabile? La mente è in grado di mantenersi in contatto con ciò che rappresenta la fonte di tutte le felicità? Questa sorta di apertura può essere presente in noi per tutta la vita, a dispetto della conoscenza e della tecnica, dell’educazione e dell’accavallarsi degli accadimenti della vita? Sì, è possibile, ma solo a patto che l’educatore sia egli stesso educato a questa realtà; solo a patto che colui che insegna continui a restare in contatto con la sorgente della felicità creativa. Il nostro problema non è quindi l’alunno, il bambino, ma l’insegnante e i genitori. L’educazione diventa un circolo vizioso solo quando non riusciamo a vedere l’importanza e la necessità essenziale di questa felicità suprema. Essere aperti alla sorgente di tutte le felicità è la più alta delle religioni; ma per realizzare una tale felicità bisogna dedicarle molte attenzioni, così come si farebbe per una qualsiasi altra importante attività. La professione dell’insegnante non può essere un semplice impiego di routine: dovrebbe invece incarnare l’espressione stessa della bellezza e della gioia, che non possono essere certo misurate in termini di traguardi e di successi.
Quando la mente, sede dell’io, assume il controllo, offusca la luce, lo splendore e la meraviglia della realtà. La conoscenza profonda di se stessi è l’inizio della saggezza: senza una conoscenza intima del nostro io più profondo, l’apprendere non potrà che condurci all’ignoranza, al conflitto e al dolore.
2

CONDIZIONAMENTO

Era molto compreso nel suo ruolo: aiutare l’umanità e compiere opere buone. Oltre a essere molto attivo in numerose organizzazioni umanitarie e di assistenza sociale, affermava anche di non essersi mai concesso una lunga vacanza, e che sin dai tempi della laurea non aveva fatto altro che adoperarsi con costante impegno per migliorare la vita dei meno fortunati: naturalmente, non percepiva alcun compenso per il lavoro che svolgeva, e che era sempre stato di estrema importanza per lui; era infatti molto attaccato a ciò che faceva: era riuscito a diventare un operatore sociale di grande prestigio, e ne era assai orgoglioso. Ma durante una conversazione aveva sentito qualcosa sulle diverse modalità di fuga che condizionano la mente, e voleva discuterne e andare a fondo della questione.
«Pensi che lavorare nel sociale possa essere condizionante? E che questo condizionamento potrebbe portare a ulteriori conflitti?»
Innanzitutto, dobbiamo chiarire cosa intendiamo per condizionamento. Quando siamo consapevoli di essere condizionati? O piuttosto, ce ne rendiamo mai conto? Siete consapevoli del vostro condizionamento, o semplicemente consci delle lotte e dei conflitti ai vari livelli del vostro essere? Penso che non siamo consapevoli del nostro condizionamento, ma solo dei conflitti, del dolore e del piacere.
«Cosa intendi per conflitti?»
Tutti i tipi di conflitto: fra le nazioni, fra diversi gruppi sociali, fra individui, e nel rapporto con noi stessi. Il conflitto non è forse inevitabile fino a che non si riesce a realizzare una integrazione fra chi agisce e l’azione, fra sfida e risposta? Il nostro problema è il conflitto, giusto? Non un conflitto particolare, ma qualsiasi tipo di conflitto: la lotta fra diverse idee, credenze, ideologie; la lotta fra opposti. Se non ci fosse alcun conflitto non ci sarebbe alcun problema.
«Stai quindi dicendo che dovremmo cercare di perseguire una vita solitaria e dedita alla meditazione?»
La meditazione è difficile e impegnativa, è una delle dimensioni più ardue da comprendere. La vita solitaria e isolata non è una risposta ai nostri problemi, anche se consciamente o inconsciamente siamo liberi di cercarla e perseguirla ognuno con le proprie modalità di percorso; al contrario, spesso determina un aumento dei nostri problemi. Stiamo invece cercando di capire quali siano i fattori di condizionamento che possono portare a ulteriori conflitti: noi siamo consapevoli solamente del conflitto, del dolore e del piacere, e non siamo invece consapevoli del nostro condizionamento. Cosa lo crea e lo determina?
«Le influenze sociali e dell’ambiente: il contesto sociale in cui siamo nati, l’ambiente culturale nel quale siamo cresciuti, le pressioni politiche ed economiche e così via.»
Questo, quindi; ma è davvero tutto? Tali influenze determinano veramente il nostro agire, o non sono sufficienti? La società è il risultato della relazione che si crea e intercorre fra gli uomini, il che è abbastanza ovvio. È una relazione di utilizzo, di bisogno, di conforto, di gratificazione, e crea di conseguenza influenze e valori che ci legano gli uni agli altri: e il legame è ciò che ci condiziona. Siamo legati dai nostri stessi pensieri e delle nostre azioni; ma non siamo consapevoli di questo legame, lo siamo solamente del conflitto, del dolore e del piacere. Sembra che non si riesca ad andare oltre; e se anche tentiamo di farlo, è solo per addentrarci in un ulteriore conflitto. Non siamo consapevoli del nostro condizionamento; e fino a che non lo saremo, riusciremo solo a creare ulteriore conflitto e confusione.
«Come si può riuscire a essere consapevoli del proprio condizionamento?»
È possibile solo attraverso la comprensione di un altro processo, il processo dell’attaccamento. Se riuscissimo a comprendere come mai proviamo attaccamento, allora forse diventeremmo consapevoli del nostro condizionamento.
«Ma non è un percorso un po’ tortuoso per arrivare a una questione diretta?»
Davvero lo è? Cercate di diventare consapevoli del vostro condizionamento: si può riconoscere solo in maniera indiretta, in relazione con qualcos’altro. Non potete essere consapevoli del vostro condizionamento in modo astratto, altrimenti diventa un puro gioco verbale, senza molto significato. Siamo solo consapevoli del conflitto: esiste quando non c’è integrazione tra sfida e risposta ed è il risultato del nostro condizionamento. Il condizionamento è attaccamento: al lavoro, alla tradizione, alla proprietà, alle persone, alle idee. Se non ci fosse attaccamento, ci sarebbe condizionamento? Naturalmente no. Allora perché proviamo attaccamento? Provo attaccamento per il mio paese perché attraverso l’identificazione con la mia patria acquisisco una mia dimensione, una mia identità. Quindi mi identifico con il mio lavoro, e il lavoro diventa importante. Io divento la mia famiglia, la mia proprietà: provo un grande attaccamento per esse. L’oggetto dell’attaccamento mi offre l’opportunità di fuggire dal mio vuoto interiore. L’attaccamento è una via di fuga, una fuga che va a rafforzare il condizionamento. Se provo attaccamento per te, è perché tu rappresenti un mezzo per sfuggire me stesso; quindi sei estremamente importante per me, perciò ti devo possedere, e mi devo aggrappare a te. Tu diventi il fattore condizionante, e la fuga è il condizionamento. Se fossimo consapevoli delle nostre vie di fuga, potremmo vedere più chiaramente i fattori e le influenze che creano il condizionamento.
«Sto quindi fuggendo da me stesso usando il lavoro nel sociale?»
Sei attaccato o eccessivamente legato al tuo lavoro? Ti sentiresti perduto, vuoto, annoiato, se non svolgessi il tuo lavoro nel sociale?
«Sono sicuro di sì.»
L’attaccamento al lavoro è la tua via di fuga. Esistono vie di fuga a ogni livello della nostra esistenza. Tu fuggi da te stesso attraverso il lavoro, altri dedicandosi al bere, altri ancora per mezzo di cerimonie religiose; e c’è chi fugge con la conoscenza, con la ricerca di Dio, e chi è dipendente e drogato dal divertimento. Tutte le fughe si equivalgono, non esiste una fuga superiore o inferiore. Dio e l’alcol sono sullo stesso piano nel momento in cui rappresentano una fuga da ciò che noi veramente siamo: solo quando riusciremo a essere finalmente consapevoli delle nostre fughe potremo riconoscere il nostro condizionamento.
«Cosa potrei fare se smettessi di fuggire usando il mio lavoro nel sociale? A questo punto, sono ancora in grado di fare una qualsiasi cosa senza che sia un altro tentativo di fuggire? Non è che ogni mia azione sia in fondo null’altro che una forma di fuga da ciò che sono?»
Si tratta di una questione puramente verbale, o riflette un tuo momento attuale, un’esperienza reale che stai attraversando? Se tu non scappassi, cosa accadrebbe? Hai mai provato?
«Ciò che dici è davvero pessimistico, se così posso dire. Tu non offri alcuna alternativa all’impegno nel lavoro.»
Ma qualsiasi sostituzione non rappresenta forse null’altro se non l’ennesima via di fuga? Quando una certa forma di attività non è sufficientemente soddisfacente o porta con sé ulteriori conflitti, ci rivolgiamo a un’altra. Continuare a sostituire un’attività con un’altra senza comprendere il meccanismo sotteso della fuga è abbastanza sciocco e superficiale, non credi? Sono infatti proprio queste fughe e il nostro attaccamento a esse che creano il condizionamento, che porta con sé problemi, conflitti e ci impedisce di comprendere la sfida: siccome siamo condizionati, la nostra reazione non potrà che generare altro conflitto.
«Allora come possiamo liberarci dal condizionamento?»
Solamente con la comprensione, e la consapevolezza delle nostre fughe. Il nostro attaccamento a una persona, al lavoro, a un’ideologia rappresenta il fattore condizionante: questo è ciò che dobbiamo comprendere, e non cercare una via di fuga che ci appare migliore o più facile e attraente. Nessuna via di fuga è intelligente, poiché porta inevitabilmente al conflitto. Coltivare la capacità di distaccarsi è un’altra forma di fuga, di isolamento: è l’attaccamento a un’astrazione, a un ideale chiamato distacco. L’ideale è fittizio, centrato sull’io, e nel suo divenire esso è una fuga da ciò che è: solo quando la mente non starà più cercando una qualsiasi via di fuga, solo allora ci sarà la comprensione di ciò che è, e un’adeguata azione verso ciò che è. Lo stesso pensiero su ciò che è rappresenta una fuga da ciò che è. Concentrarsi sul problema è già una fuga dal problema: poiché il pensare stesso è il problema, il solo problema. La mente, insoddisfatta della sua natura e spaventata dalla sua essenza, cerca continue scappatoie: e la via di fuga è il pensiero. Fino a che ci sarà il pensiero, esisteranno vie di fuga, attaccamenti, che non potranno fare altro che rafforzare il condizionamento.
La libertà dal condizionamento è una conseguenza della libertà dal processo del pensare. Solo quando la mente si troverà in uno stato di assoluto silenzio ci sarà quella libertà attraverso cui il reale potrà finalmente essere e rivelarsi.

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