Questo ultimo capitolo che dovremmo considerare e che ha il suo luogo di riferimento evidentemente nel Manoscritto C, per essere adeguatamente compreso credo che andrebbe riportato alla meditazione sulla carità che anche qui non è un programma, innanzitutto; e non è neppure un comandamento, una legge imposta dal di fuori, ma, secondo la profonda prospettiva che è già di Geremia, è legge scritta nel cuore. Anche Paolo, rivolgendosi ai Corinzi, richiama la legge scritta nei cuori dallo Spirito: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,2-3).
Questa intuizione è sempre nella logica della “piccola via”, cioè dell’Amore Misericordioso, l’Amore che discende e che io devo aprirmi ad accogliere, perché questo mi porta nel suo senso, così che quello che io faccio è restituirgli quello che Lui mi ha dato, cioè me. L’Amore di Dio non è un piccolo gioiello che si mette dentro, come una pietra preziosa dentro un anello già fatto: l’Amore di Dio crea. Allora quello che noi restituiamo siamo noi stessi in quanto creati da Lui, o in quanto il suo Amore diventa “noi”; allora veramente gli restituiamo qualche cosa, ma è un movimento di restituzione, non un movimento primo che sta di fronte a una iniziativa altrettanto prima.
Sempre in questa logica appare, verso gli ultimi mesi, nell’ultimo periodo della vita spirituale di Teresa di Lisieux, la comprensione del comandamento della carità, anzitutto come dono, perché il comandamento è grazia. Anche questo è una cosa profondissima nel cristianesimo: la legge è grazia, perché la grazia è la legge del cristiano, prima di tutto. Poi vengono le leggi e i comandamenti; ma il comandamento innanzitutto è grazia. Questa percezione, che è pure molto profonda, sempre in coerenza con la “piccola via”, appare negli ultimi mesi della vita di Teresa di Lisieux.
Possiamo leggere allora la pagina del Manoscritto C in cui Teresa mostra questo fatto, per poi trovare meglio in questa pagina sia il punto di coerenza con le pagine precedenti, sulla mensa dei peccatori, sia quelle finali su questo essere un po’ la sorella universale: come l’essere insieme a camminare con i fratelli, che saranno in concreto, in particolare, le sue sorelle del Carmelo, le novizie, i fratelli missionari, le anime dei fratelli missionari. Poi la prospettiva diventa sempre più universale, man mano i giorni precipitano, verso la fine. «Quest’anno [scrive, siamo nel 1897] il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cos’è la carità». Anche qui vedete come è coerente con tutta la personalità di Teresa capire. Capire non intellettualisticamente, capire come una che ha sempre delle domande, a cui via via vengono date le risposte: «Il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cosa è la carità. Prima lo capivo, è vero, ma in modo imperfetto, non avevo approfondito queste parole di Gesù: “Il secondo comandamento è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”. Mi dedicavo soprattutto ad amare Dio, ed amandolo ho capito». «Ho capito che l’amore deve tradursi non soltanto in parole, perché “Non coloro che dicono: Signore, Signore! entreranno nel regno dei Cieli, bensì coloro che fanno la volontà di Dio”. Questa volontà Gesù l’ha fatta conoscere varie volte, dovrei dire quasi in ciascuna pagina del suo Vangelo». Cioè il Vangelo è come un comandamento, l’insieme di comandamenti che esprimono la volontà di Gesù nei miei confronti. «Ma nell’Ultima Cena, quand’egli sa che il cuore dei suoi discepoli brucia ancor più di amore per lui che si è dato a essi nell’ineffabile mistero dell’Eucaristia, questo dolce Salvatore vuole dare un comandamento nuovo. Dice loro con tenerezza inesprimibile: “Vi do un comandamento nuovo, di amarvi reciprocamente; come io ho amato voi, amatevi l’un l’altro. Il segno dal quale conosceranno che siete miei discepoli sarà che vi amate scambievolmente”. In qual modo Gesù ha amato i suoi discepoli, e perché li ha amati? Non erano le loro qualità naturali che potevano attirarlo» (MC, 288). Questa è una maniera ancora descrittiva, cioè io guardo come fa Gesù per dire come faccio io. «Quando il Signore aveva comandato al suo popolo di amare il prossimo come se stesso». Questo è il passaggio: «Non era venuto ancora sulla terra; così, sapendo bene a qual punto si ami la propria persona, non poteva chiedere alle sue creature un amore più grande per il prossimo. Ma quando Gesù dà ai suoi apostoli un comandamento nuovo, non parla di amare il prossimo come se stessi, bensì di amarlo come lui, Gesù, l’ha amato, come l’amerà fino alla consumazione dei secoli. Signore, so che voi non comandate alcunché d’impossibile, conoscete meglio di me la mia debolezza, la mia imperfezione». Si tratta di un comandamento proprio suo, di Gesù, che farà sentire a Teresa, ancora una volta, il senso della necessità impossibile: devo fare questo e non posso fare questo: «Voi lo sapete bene che mai potrei amare le mie sorelle come le amate voi, se voi stesso, oh Gesù mio, non le amaste ancora in me». Ecco la “piccola via”: sei Tu che devi amare in me; allora questo è possibile. «È perché voi volevate concedermi questa grazia che avete fatto un comandamento nuovo. Oh come l’amo, il vostro comandamento, poiché mi dà la sicurezza che la volontà vostra è di amare in me tutti coloro che mi comandi di amare!...» (MC, 290). Questa è la legge: la mia volontà è di amare in te e per questa ragione ti do il comandamento. Non è: tu sei qui, io ti dico fai questo, devi fare questo; questo sarebbe il comandamento senza la grazia. Invece nel cristianesimo è la grazia che è il comandamento. Allora la volontà di Gesù è di amare in te, per questo ti do il comandamento. È quindi il dono della carità. Prima vi è questo dono, allora vi può essere il comandamento della carità. Vedete come c’è un’inversione di cammino. Prima sarebbe stato: come hai fatto tu, Gesù, ad amare e come dovrei fare io. Non è che questo è inutile o è sconfessato: ma si vede bene la logica del discorso. La logica del discorso è: quello che tu vuoi è questo, allora, se io mi apro a questo, diventa logico il comandamento: «Amerai come io ho amato voi». Vedete come, proprio secondo questa logica ci avviamo alla conclusione e si conclude la meditazione.
Il discorso dell’amore verso le sorelle e tutti gli altri viene riespresso attraverso due riferimenti biblici. Il primo è quello del trahe me, del Cantico dei Cantici “Attirami”; se tu mi attiri, che è poi la medesima cosa, se tu mi fai diventare Amore misericordioso come sei tu, allora è fatto. È la finale… L’altro riferimento è alla preghiera sacerdotale, di Giovanni 17: qui sarebbe interessante confrontare e vedere la differenza di lettura che vi è in Teresa di Lisieux e in Giovanni della Croce. In Giovanni della Croce è il figlio che dice: «Quello che è mio è tuo», allora la partecipazione alla condizione del Figlio, alla fine del Cantico, significa essere in quella comunione che il Figlio vive. In Teresa di Lisieux invece quello che è “tuo” sono i miei fratelli; quello che è tuo è mio, me lo hai dato. Allora la prospettiva diventa totalmente rivolta verso il prossimo; non perché si sceglie l’amore del prossimo contro l’amore di Dio, ma perché l’essersi aperta all’Amore Misericordioso non può che andare in quel senso. Dove va l’Amore Misericordioso? Discende, viene verso di noi. Come si fa a lasciarsi prendere dall’Amore Misericordioso senza andare nella sua direzione? Sono certamente molto profonde le ultime pagine del Manoscritto C che si muovono precisamente in questa direzione. «Da quando ho due fratelli e le mie sorelline novizie, se volessi chiedere in particolare per ciascun’anima ciò di cui ha bisogno, temerei molto di dimenticare qualcosa d’importante. Alle anime semplici non occorrono mezzi complicati. Poiché io sono tra quelle, un mattino, durante il ringraziamento, Gesù mi ha dato un mezzo semplice per compiere la mia missione. Mi ha fatto capire questa parola del Cantico: Attirami! Noi correremo» (MC, 334). Se tu mi attiri e io mi lascio attirare allora divento carità come te: noi correremo. Siamo insieme e, mentre sono insieme con te, sono insieme con tutti gli altri. Qui continua il discorso finché riprende il capitolo diciassettesimo: «Signore, lo sai: non ho altri tesori se non le anime che a te è piaciuto unire alla mia; questi tesori me li hai affidati tu. Oso perciò far mie le parole che tu rivolgesti al Padre celeste nell’ultima cena: “erano tuoi, me li hai dati”» (MC, 335). Diventa la preghiera per i fratelli, come è del resto nella preghiera sacerdotale. Non è tanto il rapporto dell’intimità tra Figlio e Padre, della trasformazione in Dio come è in Giovanni della Croce, ma è immediatamente la posizione di chi, preso, attirato dall’Amore Misericordioso, quindi divenuto aperto all’Amore Misericordioso, corre insieme agli altri, è insieme agli altri. C’è una profonda prospettiva di apertura. Allora la preghiera sacerdotale viene ritrascritta così e riletta: «Sì, Signore, questo vorrei ripetere dopo di te, prima di volarmene tra le tue braccia. È forse temerità? Ma no, da lungo tempo tu mi hai permesso di essere audace con te. Come il padre del figliol prodigo al suo maggiore, tu hai detto a me: “Tutto ciò che è mio, è tuo”». Si sovrappone Giovanni 17 con la parabola del figliol prodigo: è sempre una delle cose fondamentali per cui questo senso dell’essere peccatrice raggiunta dalla misericordia la fa essere con i peccatori. Allora la misericordia è sempre presente. Perciò Teresa può dire: «Tutto ciò che è mio è tuo: le tue parole, Gesù, sono dunque mie, e io posso servirmene per attirare sulle anime unite alla mia i favori del Padre celeste (…). Per amarti come tu mi ami, mi è necessario far mio il tuo stesso amore: soltanto allora trovo il riposo. O Gesù, è forse una illusione, ma mi sembra che tu non possa colmare un’anima con più amore di quanto hai dato alla mia; per questo oso chiederti di “amare coloro che mi hai dati come hai amato me stessa”. Un giorno, in Cielo, se io scoprirò che tu li ami più di me, me ne rallegrerò riconoscendo fin da ora che quelle anime meritano l’amor tuo ben più della mia; ma quaggiù non posso concepire un’immensità di amore più grande di quello che ti è piaciuto prodigarmi gratuitamente, senza mio merito alcuno» (MC, 336). È un dato, evidentemente, l’esperienza di essere quasi al limite, dove la coesistenza di questa dimensione immensa di carità è vissuta in una situazione di oscurità. È paradossale, ma io credo sia proprio questa la condizione tipica del cristiano che condivide la situazione dei fratelli, proprio nella carità, la quale come tale non viene a compromessi con il peccato, indubbiamente, ma è soltanto nella carità che si può essere con i fratelli per i fratelli. Allo stesso modo con cui Gesù Cristo è con noi ed è per noi essendo la Carità, non essendo il peccato. Teresa continua meditando ancora: «Madre mia, mi sembra di doverle ancora dare qualche spiegazione riguardo al passo del Cantico dei Cantici: “Attirami, noi correremo”, perché ciò che ho voluto dirne mi pare poco comprensibile. “Nessuno, ha detto Gesù, può seguirmi se il Padre mio che mi ha mandato non l’attirerà”. Dopo, per mezzo di parabole sublimi e spesso anche senza usare di questo mezzo tanto familiare al popolo, egli ci insegna che basta bussare perché ci venga aperto, cercare per trovare, e tendere la mano umilmente per ricevere ciò che chiediamo. Egli dice ancora che quanto chiediamo al Padre in suo nome, egli ce lo concede. Per questo senza dubbio lo Spirito Santo, prima della nascita di Gesù, dettò questa preghiera profetica: “Attirami, noi c...