â40 metri
Ascoltando il tuo corpo
Probabilmente è anche per questo, perchĂŠ la vita di noi tutti è cominciata dal mare e da un mondo acquatico in cui si trattiene il respiro, che mi rifiuto di considerare lâapnea uno sport estremo. Mi rifiuto. Ci si fa molto piĂš male sciando o giocando a calcio, come credo possa testimoniare il mio idolo Francesco Totti. Questo però non significa che le immersioni non presentino i loro rischi, rischi anche seri, che è essenziale conoscere se si decide di dedicarsi a questa disciplina.
Una delle prime lezioni del mio primissimo corso di apnea, quello con Antonio, fu dedicata a un pericolo che ogni apneista ha ben presente: se non ascolti il tuo corpo e non ne rispetti i limiti, se ÂŤtiriÂť troppo, puoi incappare in un blackout, che in termini tecnici si chiama ÂŤsincope ipossicaÂť; in pratica, puoi subire una breve perdita di conoscenza causata dalla mancanza di ossigeno prolungata, oppure incorrere in una samba. Durante un episodio di samba, che in gergo medico si chiama mioclonia, restiamo coscienti ma non vigili â perdiamo ogni riferimento sensoriale, come quelli dati dalla vista e dallâudito. Iniziamo a ÂŤballareÂť (ecco perchĂŠ proprio ÂŤsambaÂť) a causa delle contrazioni muscolari involontarie che anticipano lâarresto circolatorio dovuto alla perdita di coscienza quando, non respirando per molto tempo, lâossigeno (o2) contenuto nel nostro corpo diventa troppo scarso. Nuotando in apnea, infatti, consumiamo una quantitĂ importante di ossigeno senza inspirarne, mentre il livello di anidride carbonica (co2) nel sangue sale gradualmente, poichĂŠ questa sostanza è generata dallâattivitĂ metabolica dei nostri tessuti ed è impossibile bloccarla. Quando lâossigeno scende sotto una certa soglia, si ha la sincope, appunto, di cui potremmo dire che la samba è lâanticamera.
Io di blackout ne ho avuti parecchi. Figurarsi, ogni apneista sa che può capitare e impara a non lasciarsi spaventare dalla possibilitĂ : sarebbe come se un calciatore non scendesse in campo per paura di strappi e contratture. Câè anche da dire che la sincope, mentre siamo in acqua, si manifesta come una progressiva perdita di luciditĂ , come se stessimo per addormentarci, non è una sensazione opprimente o spaventosa; dâaltronde, nella stragrande maggioranza dei casi si risolve da sola e senza conseguenze durature non appena si viene riportati in superficie. Per fare un esempio, dopo lâultima che ho avuto, lo scorso settembre a CefalĂš, ho ripreso a respirare da sola in 7-8 secondi da quando i safety mi hanno recuperata. Ma qualche volta, di rado, le cose possono andare storte.
Ă ciò che è successo, ci spiegarono al corso, a Audrey Mestre, la moglie del grande apneista cubano Pipin Ferreras: era a sua volta unâatleta straordinaria e aveva collezionato un record dopo lâaltro in una specialitĂ apneistica molto particolare, lâassetto variabile assoluto, detta anche No Limits dal nome del suo famoso sponsor. In No Limits, gli atleti si immergono con lâausilio di una zavorra mobile detta ÂŤslittaÂť; è la disciplina in cui si raggiungono le quote piĂš profonde, ma ventâanni fa era anche parecchio pericolosa. Il 12 ottobre 2002, Audrey ebbe un incidente durante un tentativo di stabilire un nuovo record mondiale, non lontano da Santo Domingo: andò in sincope quando si trovava ancora a una quota molto profonda e non se la cavò. Avrebbe toccato i â171 metri, mai nessuno come lei. Allâepoca non lo sapevo, ma quella lezione dedicata a Audrey Mestre sarebbe stata una delle tappe decisive per la mia storia atletica e la mia vita, perchĂŠ mio padre mi fece promettere di non cimentarmi mai nel No Limits. Una promessa che ho sempre mantenuto.
Lo preciso subito, oggi un incidente di quel genere sarebbe pressochĂŠ impossibile: le norme e i protocolli di sicurezza sono cambiati radicalmente. In primo luogo, allâepoca la sicurezza in acqua era affidata ai subacquei con le bombole, che per riportare gli atleti in superficie dovevano eseguire le tappe di decompressione necessarie a non mettere a rischio anche la propria incolumitĂ . Adesso i safety divers sono a loro volta apneisti con una preparazione atletica a prova di bomba, che ti vengono incontro verso i â30, â35 metri, in caso di bisogno ti acchiappano e ti chiudono le vie aeree per riportarti a galla nel giro di pochi secondi, senza bisogno di soste di decompressione. Come mai questa differenza? Senza addentrarci in dettagli troppo tecnici, i subacquei in immersione introducono nei polmoni i gas ÂŤfreschiÂť erogati dalle bombole a ritmo costante; se però risalgono troppo in fretta, la repentina diminuzione della pressione impedirebbe allâazoto contenuto nel sangue di smaltirsi correttamente, causando la formazione di vere e proprie bolle che possono dare conseguenze anche molto serie se non trattate con tempestivitĂ . Non cosĂŹ gli apneisti, safety o atleti che siano: avendo nei polmoni solo lâaria introdotta prima di scendere, non hanno gas in eccesso nella circolazione sanguigna e possono riemergere subito.
Non solo, ma, paradossalmente, si rischia di piĂš in allenamento che in gara, perchĂŠ durante una competizione ci sono i safety pronti a recuperarti e, nella malaugurata ipotesi che le tue condizioni siano piĂš serie, un medico che assiste a ogni tuffo. Per questo si raccomanda di immergersi sempre almeno in coppia, mai da soli. Mai mai mai.
Bisogna poi tener conto delle peculiaritĂ dellâambiente in cui ci si immerge, oltre che dei limiti del corpo umano, per esempio della temperatura dellâacqua e della visibilitĂ . Ciascun tuffo in acque libere prevede che a indicare allâatleta la linea di discesa ci sia un apposito cavo-guida, con contrassegni colorati ogni dieci metri in modo da darci una mano con lâorientamento; in alcune discipline, ci è consentito ricorrere al cavo come ausilio per spostarci (per esempio nella Free Immersion, in cui scendiamo e risaliamo avvalendoci della cima), in altre, come nellâassetto costante, solo negli ultimissimi metri della discesa e una sola volta, quando viriamo dopo aver staccato il cartellino dal piattello e invertiamo la rotta verso la superficie, e negli ultimi momenti di risalita, per essere sicuri di riemergere nel punto giusto. Cosa che, fra lo stordimento da narcosi e gli appositi occhialini allagati, perfetti per vedere sottâacqua ma assai poco raccomandabili allâasciutto, non è sempre garantita.
Di certo, però, quando il cavo oltrepassa i â40 metri le cose cambiano, in qualunque specialitĂ . SĂŹ, perchĂŠ i primi metri di un tuffo in mare aperto passano in un lampo: lâacqua è calda, la visibilitĂ ti consente di goderti lo spettacolo, anche mentre sei concentrata sulla pinneggiata, sulle braccia ben tese in avanti e sulla cima che scende nel blu. GiĂ verso i â20, almeno nel Mediterraneo, si avverte qualche differenza. In primo luogo cambia la temperatura. A questa quota, infatti, câè quella che potremmo definire la terra di confine fra due mondi: il termoclino, detto anche zona di transizione. Nei corpi idrici profondi, ovvero laghi, mari e oceani, le acque superficiali e le acque profonde hanno caratteristiche molto diverse, come se fossero due province dello stesso regno: le acque superficiali corrispondono alla fascia raggiunta e riscaldata dai raggi del sole, nella quale, di conseguenza, la temperatura cambia a seconda dei momenti della giornata e della stagione; nel Mediterraneo si toccano anche i 28 gradi in estate. Ă qui che si osserva la maggior parte dello spettacolo sommerso di cui vi ho raccontato nel capitolo precedente, perchĂŠ la presenza della luce solare permette la fotosintesi e la sopravvivenza degli organismi vegetali, che a loro volta offrono nutrimento agli animali. Man mano che si scende, al contrario, i raggi del sole si fanno sempre piĂš fiochi, e cosĂŹ anche la vita vegetale e animale diventa piĂš rara, fino ad arrivare alle vere e proprie acque profonde: qui la luce è scarsissima e lâacqua è molto piĂš fredda rispetto ai primi metri di discesa, anche se la temperatura resta pressochĂŠ costante malgrado lâavvicendarsi delle stagioni. Fra queste due zone si trova lâÂŤacqua di mezzoÂť del termoclino.
Nel Mediterraneo, che, come accennavo, non è un mare caldo quanto quelli caraibici o lâOceano Indiano, questa zona di transizione inizia giĂ verso i â20 metri e si mantiene fino ai â40 circa; qui la temperatura decresce rapidamente di pari passo con la profonditĂ , per poi stabilizzarsi, da â40 in giĂš, su quella delle acque profonde, che nel nostro mare si aggira sui 13 gradi. Tutto sommato non male, rispetto ad altri punti del Sesto Continente: è una temperatura relativamente alta, perchĂŠ in corrispondenza dello Stretto di Gibilterra, dove il Mediterraneo incontra lâOceano Atlantico, il fondale è poco profondo, appena 320 metri: in questo modo, nel nostro mare entrano solo le acque oceaniche che si trovano sopra quella quota, piĂš calde rispetto alle masse inferiori (la profonditĂ media dei fondali atlantici è sui 3.300 metri, per dare unâidea).
Non che per un apneista cambi granchĂŠ: raggiungere il termoclino significa inevitabilmente prepararsi a una botta di freddo mostruoso, detto in parole povere. E non è che ci sia da pensare solo alla temperatura, perchĂŠ a â40 metri si verifica anche un altro fenomeno: è lâinizio della ÂŤfase di cadutaÂť.
In base alla legge di Boyle-Mariotte, in condizioni di temperatura costante, il volume di un gas varia in modo inversamente proporzionale alla pressione a cui il gas viene sottoposto; in pratica, piĂš si scende, piĂš la pressione aumenta e piĂš il volume dellâaria nei nostri polmoni si riduce. Lo spazio lasciato libero dal gas viene quindi colmato dal nostro sangue, grazie a un fenomeno denominato blood shift: il sangue viene richiamato dalle zone periferiche del corpo per concentrarsi lĂ dove si trovano gli organi vitali, quindi, appunto, a livello del torace. Su questo, abbiamo un insospettabile punto di contatto con gli esseri marini: il blood shift è un fenomeno adattativo che contrasta la pressione idrostatica e consente un impiego piĂš razionale dellâossigeno a disposizione, concentrandolo negli organi vitali. Forse non è pura follia cercare di spingersi sempre piĂš a fondo, come si credeva solo qualche decennio fa⌠ma ne riparleremo fra qualche pagina. In ogni caso, però, i liquidi non sono leggeri quanto i gas, e di conseguenza man mano che la quantitĂ di gas cala per lasciare spazio ai liquidi risultiamo piĂš pesanti: il nostro assetto diventa negativo e scendiamo quasi in caduta libera. PerchĂŠ proprio a â40 metri? PerchĂŠ è circa a quella quota che si entra nelle acque profonde: essendo piĂš fredde, sono anche piĂš dense e piĂš pesanti, ed esercitano una pressione maggiore sul nostro corpo rispetto alle fasi iniziali del tuffo.
Ă bellissima, la fase di caduta, mentre scendi a un metro al secondo hai la sensazione di volare. Allâinizio della fase di discesa, lâobiettivo principale di ogni atleta è contrastare la galleggiabilitĂ del proprio corpo, la spinta dellâacqua che tende a mandarci in superficie grazie alla grande quantitĂ dâaria che abbiamo incamerato. Da principio le pinneggiate con cui ci facciamo largo verso il piattello sono ampie, poi si fanno sempre piĂš strette, finchĂŠ quasi non si annullano ed è come planare verso il blu; il corpo diventa un tuttâuno con lâacqua e scende senza muoversi, senza sforzo, basta che rimanga perfettamente in asse, verticale e rilassato. Fra lâaltro, sono stata fra le prime atlete ad affrontare questa fase con le braccia ben tese in avanti in modo da poterle usare come timone e, al contempo, sentire lâacqua che scorre sulle uniche zone di pelle scoperte â le caviglie, le mani e soprattutto il viso. Bisogna poi tenere presente che da qui in avanti la luce sarĂ sempre piĂš scarsa, quindi occhi bene aperti, almeno per me. Non li chiudo mai per tutta la durata del tuffo, anche se alcuni colleghi lo fanno: il contrasto fra il blu sempre piĂš scuro dellâacqua e il bianco o il giallo del cavo-guida è un aiuto prezioso per mantenere lâorientamento.
Da â40 in giĂš, in concomitanza con la planata nel blu, è necessario compensare spesso e con una tecnica costante, che in gergo chiamiamo mouth fill: portiamo lâaria allâinterno della bocca fino a riempirla completamente, poi teniamo la glottide ben chiusa in modo che lâaria non se ne vada in gola, mentre il naso è tappato dallo stringinaso; in questo modo le trombe di Eustachio rimangono sempre aperte e garantiscono una compensazione ininterrotta. Lâidea di gonfiare le guance sottâacqua stile pesce palla può sembrare buffa, ma in realtĂ il mouth fill è un metodo complesso: lo si padroneggia solo dopo un lungo allenamento, anche perchĂŠ richiede lâuso di muscoli molto piccoli e difficili da coordinare per chi non è agonista. Dâaltro canto, come per le attrezzature, anche le tecniche di compensazione si sono evolute con il passare dei decenni, per adattarsi alle sempre maggiori profonditĂ che raggiungiamo.
Insomma, date le premesse, si capirĂ come mai in questa fase sia essenziale conservare il massimo controllo sul nostro corpo, saperlo ascoltare sottoponendo tutto il nostro sistema a una verifica costante e meticolosa: dobbiamo mantenere i muscoli rilassati pur conservando una posizione corretta e funzionale al tuffo, piĂš idrodinamica possibile, senza però ignorare gli eventuali segnali di tensione o pericolo, anche se siamo focalizzati sullâobiettivo al cento per cento. Il corpo umano è davvero una macchina perfetta, e questo vale a maggior ragione per il nostro cervello, capace di una comunicazione minuziosa, accuratissima â basta saperne cogliere e interpretare il linguaggio.
In questo senso, dubito sarei mai riuscita a raggiungere il grado di controllo e di sicurezza che posso dire di avere ora senza lâaiuto di Giorgio Nardone, uno psicoterapeuta specializzato, fra le altre cose, nella scienza della performance.
Giorgio Nardone e io ci siamo incontrati nel 2013 quasi per caso, e anche qui, come per tante altre cose, devo ringraziare papĂ : si era trovato a partecipare a una conferenza dedicata alle energie rinnovabili ed era rimasto colpito dallâintervento di questo psicoterapeuta aretino. PapĂ aveva capito che la preparazione mentale era e sarebbe stata fondamentale per la mia carriera agonistica, e sapeva che io, reduce dai campionati italiani outdoor e dagli Europei cmas del 2012 ad Antalya, desideravo migliorare le mie prestazioni nellâassetto costante, oltre a diversi altri aspetti della mia gestione delle gare.
Non che lâeuropeo in Turchia fosse poi stato un disastro completo, anzi: oltre al fatto che le prove outdoor si tennero in una baia stupenda, avevo portato a casa un bel quarto posto (il primo andò alla mia cara amica e ...