La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla cittĂ di Alba.
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.
Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità , non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
«Quando la rivedrĂČ? Prima della fine della guerra Ăš impossibile. Non Ăš nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrĂČ a Torino a cercarla. Ă lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».
Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.
â PerchĂ© hai deviato? â domandĂČ Ivan. â PerchĂ© ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? PerchĂ© ti interessi a quella casa?
â Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrĂČ piĂș prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
â Non Ăš questione di pazienza, ma di pelle. QuassĂș Ăš pericoloso. Le pattuglie.
â Non si azzardano fin quassĂș. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
â Daâ retta a me, Milton, pompiamo. Lâasfalto non mi piace.
â Qui non siamo sullâasfalto, â rispose Milton che si era rifissato alla villa.
â Ci passa proprio sotto, â e Ivan additĂČ un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con lâasfalto qua e lĂ sfondato, sdrucito dappertutto.
â Lâasfalto non mi piace, â ripetĂ© Ivan. â Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma lâasfalto non mi piace.
â Aspettami cinque minuti, â rispose cheto Milton e avanzĂČ verso la villa, mentre soffiando lâaltro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. LanciĂČ pure unâultima occhiata al compagno. â Ma come cammina? In tanti mesi non lâho mai visto camminare cosĂ come se camminasse sulle uova.
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, giĂ aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per lâabitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla piĂș vile gradazione di biondo. Allâattivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato piĂș che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.
PassĂČ il cancello che non cigolĂČ e percorse il vialetto fino allâaltezza del terzo ciliegio. Comâerano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le piĂș gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era giĂ pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivĂČ a pensare che Fulvia tardasse apposta perchĂ© lui si decidesse a farlesi un poâ piĂș sotto e scoccarle unâocchiata da sotto in sĂș. Invece indietreggiĂČ di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano. «Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerĂČ nemmeno una. Scendi o rovescerĂČ il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia». Fulvia rise, un poâ stridula, e un uccello scappĂČ via dai rami alti dellâultimo ciliegio.
ProseguĂ con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermĂČ e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensĂČ, molto turbato. Era successo proprio allâaltezza dellâultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e lâerba non fosse piĂș tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennĂČ ad entrare nel prato gridĂČ di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. CosĂ». Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentĂ con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». GirĂČ impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi cosĂ brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza... senza riflettere». Ma piĂș tardi disse, piano ma che lui sentisse sicuramente: «Hieme et aestate, prope et procul, usque dum vivam... O grande e caro Iddio, fammi vedere per un attimo solo, nel bianco di quella nuvola, il profilo dellâuomo a cui lo dirĂČ». ScattĂČ tutta la testa verso di lui e disse: «Come comincerai la tua prossima lettera? Fulvia dannazione?» Lui aveva scosso la testa, frusciando i capelli contro la corteccia del ciliegio. Fulvia si affannĂČ. «Vuoi dire che non ci sarĂ una prossima lettera?» «Semplicemente che non la comincerĂČ Fulvia dannazione. Non temere, per le lettere. Mi rendo conto. Non possiamo piĂș farne a meno. Io di scrivertele e tu di riceverle».
Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. Lâaveva chiamato su perchĂ© le traducesse i versi di Deep Purple. Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnĂČ al cancello. «PotrĂČ vederti, â domandĂČ lui, â domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no». «Ma ci vieni ogni mattina, â protestĂČ, â e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in cittĂ non siamo nel nostro centro». «E qui potrĂČ tornare?» «Lo dovrai». «Quando?» «Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolĂČ di fronte allâenormitĂ , alla invalicabilitĂ di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza? «Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu perĂČ nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?» «Certo una lettera. Scrivimela di notte». «SĂ, ma che lettera?» «Una lettera». E cosĂ Milton aveva fatto e al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono... discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farĂČ la prima volta che andrĂČ a Torino? ComprerĂČ un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverĂČ tutte e mai nessuno le vedrĂ . Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età ». E lui non potĂ© dir niente, oppresso dallâombra della terribile possibilitĂ che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue. «La prossima lettera come la comincerai? â aveva proseguito lei. â Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?» «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?» «Sei tutto lo splendore». «Tu, tu, tu, â fece lei, â tu hai una maniera di metter fuori le parole... Ad esempio, Ăš stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volta». «Non Ăš strano. Non câera splendore prima di te». «Bugiardo! â mormorĂČ lei dopo un attimo, â guarda che bel sole meraviglioso!» E alzatasi di scatto corse al margine del vialetto, di fronte al sole.
Ora lo sguardo basso di lui rifaceva quel lontano tragitto di Fulvia, ma prima di arrivare al limite ritornĂČ al punto di partenza, allâultimo ciliegio. Come si era imbruttito, e invecchiato. Tremava e sgocciolava, impudicamente, di contro il cielo biancastro.
Poi si riscosse e un poâ pesantemente arrivĂČ sulla spianata davanti al portichetto dâentrata. Il ghiaino era impastato di foglie macerate, le foglie dei due autunni di lontananza di Fulvia. A leggere si metteva quasi sempre lĂ, a filo dellâarco centrale, raccolta nella grande poltrona di vimini coi cuscini rossi. Leggeva Il cappello verde, La signorina Elsa, Albertine disparue... A lui quei libri nelle mani di Fulvia pungevano il cuore. Malediceva, odiava Proust, Schnitzler, Michael Arlen. PiĂș avanti, perĂČ, Fulvia aveva imparato a fare a meno di quei libri; le bastavano, pareva, le poesie e i racconti che a getto continuo lui traduceva per lei. La prima volta le aveva portato la versione di Evelyn Hope. «Per me?» fece lei. «Esclusivamente». «PerchĂ© a me?» «PerchĂ©... guai se tu non sei il tipo per queste cose». «Guai a me?» «No, guai a me stesso». «E che cosâĂš?» «Beautiful. Evelyn Hope is dead/Sit and watch by her side an hour». Dopo, le luccicavano gli occhi, ma preferĂ abbandonarsi allâammirazione per il traduttore. «Proprio tu lâhai tradotta? Ma allora sei un vero dio. E cose allegre non ne traduci mai?» «Mai». «E perchĂ©?» «Nemmeno mi vengono sottâocchio. Credo che scappino da me, le cose allegre».
La volta dopo le portĂČ un racconto di Poe. «Di che parla?» «Of my love, of my lost love, of my lost love Morella». «Lo leggerĂČ stanotte». «Io lâho tradotto in due notti». «Non stai troppo su di notte?» «Devo comunque, â rispose lui. â Non câĂš notte senza allarme e io sono nellâUNPA». Esplose a ridere. «NellâUNPA! Sei dellâUNPA? Questo me lo dovevi nascondere. Ă troppo ridicolo. Volontario nellâUNPA, col bracciale giallo e blu!» «Col bracciale sĂ, ma volontario un bel niente! Ci hanno arruolati in Federazione e se manchi a un allarme lâindomani ti trovi le guardie a casa. Anche Giorgio Ăš nellâUNPA». Ma di Giorgio Fulvia non rise, forse perchĂ© aveva giĂ scaricato su lui tutta la sua ilaritĂ .
Era stato Giorgio Clerici a presentargliela, in palestra, dopo una partita di pallacanestro. Uscivano dagli spogliatoi e la trovarono, come una perla mimetizzata nelle alghe, nei resti del pubblico che sfollava. «Questa Ú Fulvia. Sedici anni. Sfollata da Torino per fifa dei bombardamenti aerei che in fondo in fondo la divertivano. Ora abita da noi, in collina, nella villa che era del notaio... eccetera, eccetera. Fulvia ha un sacco di dischi americani. Fulvia, questo Ú un dio in inglese».
Solo allâultimo Fulvia aveva sollevato gli occhi a Milton, e i suoi occhi dicevano che quello, Milton, poteva esser tutto tranne che un dio.
Milton si premette le mani sul viso e in quel buio cercĂČ di rivedere gli occhi di Fulvia. Alla fine abbassĂČ le mani e sospirĂČ, esausto dallo sforzo e dalla paura di non ricordarli. Erano di un caldo nocciola, pagliettati dâoro.
VoltĂČ la testa al crinale e ci vide una parte di Ivan, sempre accoccolato e attento al lungo, complesso pendio.
ArrivĂČ sotto il portichetto. «Fulvia, Fulvia, amore mio». Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. «Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso».
SentĂ un passo avvicinarsi di lato sul marciapiede perimetrale della villa. Milton spallĂČ a metĂ la carabina americana, ma, per quanto pesante, era un passo di donna.
La custode spiĂČ dallâangolo. â Un partigiano! Cosa vuole? Chi cerca? Ma lei Ăš...
â Sono proprio io, â disse Milton senza sorridere, troppo sconcertato dal vederla tanto invecchiata. Il corpo le si era fatto piĂș tozzo e la faccia piĂș smunta e tutti i suoi capelli erano bianchi.
â Lâamico della signorina, â disse la donna lasciando il riparo dellâangolo. â Uno degli amici. Fulvia Ăš via, Ăš tornata a Torino.
â Lo so.
â Ă partita piĂș di un anno fa, quando voi ragazzi avete messo su questa vostra guerra.
â Lo so. Ha piĂș avuto notizie?
â Di Fulvia? â Scosse la testa. â Mi promise di scrivermi, ma non lâha mai fatto. PerĂČ io ci spero sempre e un giorno o lâaltro riceverĂČ.
«Questa donna, â pensava Milton fissandola stralunato, â questa vecchia, insignificante d...