Una questione privata
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Una questione privata

Beppe Fenoglio

  1. 190 Seiten
  2. Italian
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Una questione privata

Beppe Fenoglio

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Über dieses Buch

Nelle Langhe, durante la guerra partigiana, Milton (quasi una controfigura di Fenoglio stesso) Ăš un giovane studente universitario, ex ufficiale che milita nelle formazioni autonome. Eroe solitario, durante un'azione militare rivede la villa dove aveva abitato Fulvia, una ragazza che egli aveva amato e che ancora ama. Mentre visita i luoghi del suo amore, rievocandone le vicende, viene a sapere che Fulvia si Ăš innamorata di un suo amico, Giorgio: tormentato dalla gelosia, Milton tenta di rintracciare il rivale, scoprendo che Ăš stato catturato dai fascisti... Con parole precise e vere, con commozione e furia, Fenoglio fa risuonare la piĂș bella tra le storie d'amore possibili e impossibili.Con Alla ricerca del romanzo di Gabriele PedullĂ , una nota al testo e la cronologia della vita e delle opere.

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Information

Verlag
EINAUDI
Jahr
2010
ISBN
9788858400395

Una questione privata

1

La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla cittĂ  di Alba.
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.
Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
«Quando la rivedrĂČ? Prima della fine della guerra Ăš impossibile. Non Ăš nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrĂČ a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».
Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.
– PerchĂ© hai deviato? – domandĂČ Ivan. – PerchĂ© ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? PerchĂ© ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrĂČ piĂș prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non Ăš questione di pazienza, ma di pelle. QuassĂș Ăš pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassĂș. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Da’ retta a me, Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio sotto, – e Ivan additĂČ un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con l’asfalto qua e lĂ  sfondato, sdrucito dappertutto.
– L’asfalto non mi piace, – ripetĂ© Ivan. – Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque minuti, – rispose cheto Milton e avanzĂČ verso la villa, mentre soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. LanciĂČ pure un’ultima occhiata al compagno. – Ma come cammina? In tanti mesi non l’ho mai visto camminare cosĂ­ come se camminasse sulle uova.
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, giĂ  aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla piĂș vile gradazione di biondo. All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato piĂș che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.
PassĂČ il cancello che non cigolĂČ e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le piĂș gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era giĂ  pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivĂČ a pensare che Fulvia tardasse apposta perchĂ© lui si decidesse a farlesi un po’ piĂș sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sĂș. Invece indietreggiĂČ di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano. «Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerĂČ nemmeno una. Scendi o rovescerĂČ il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia». Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappĂČ via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.
ProseguĂ­ con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermĂČ e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensĂČ, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse piĂș tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennĂČ ad entrare nel prato gridĂČ di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Cosí». Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentĂ­ con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». GirĂČ impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi cosĂ­ brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza... senza riflettere». Ma piĂș tardi disse, piano ma che lui sentisse sicuramente: «Hieme et aestate, prope et procul, usque dum vivam... O grande e caro Iddio, fammi vedere per un attimo solo, nel bianco di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirĂČ». ScattĂČ tutta la testa verso di lui e disse: «Come comincerai la tua prossima lettera? Fulvia dannazione?» Lui aveva scosso la testa, frusciando i capelli contro la corteccia del ciliegio. Fulvia si affannĂČ. «Vuoi dire che non ci sarĂ  una prossima lettera?» «Semplicemente che non la comincerĂČ Fulvia dannazione. Non temere, per le lettere. Mi rendo conto. Non possiamo piĂș farne a meno. Io di scrivertele e tu di riceverle».
Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. L’aveva chiamato su perchĂ© le traducesse i versi di Deep Purple. Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnĂČ al cancello. «PotrĂČ vederti, – domandĂČ lui, – domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no». «Ma ci vieni ogni mattina, – protestĂČ, – e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in cittĂ  non siamo nel nostro centro». «E qui potrĂČ tornare?» «Lo dovrai». «Quando?» «Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolĂČ di fronte all’enormitĂ , alla invalicabilitĂ  di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza? «Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu perĂČ nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?» «Certo una lettera. Scrivimela di notte». «SĂ­, ma che lettera?» «Una lettera». E cosĂ­ Milton aveva fatto e al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono... discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farĂČ la prima volta che andrĂČ a Torino? ComprerĂČ un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverĂČ tutte e mai nessuno le vedrĂ . Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età». E lui non potĂ© dir niente, oppresso dall’ombra della terribile possibilitĂ  che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue. «La prossima lettera come la comincerai? – aveva proseguito lei. – Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?» «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?» «Sei tutto lo splendore». «Tu, tu, tu, – fece lei, – tu hai una maniera di metter fuori le parole... Ad esempio, Ăš stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volta». «Non Ăš strano. Non c’era splendore prima di te». «Bugiardo! – mormorĂČ lei dopo un attimo, – guarda che bel sole meraviglioso!» E alzatasi di scatto corse al margine del vialetto, di fronte al sole.
Ora lo sguardo basso di lui rifaceva quel lontano tragitto di Fulvia, ma prima di arrivare al limite ritornĂČ al punto di partenza, all’ultimo ciliegio. Come si era imbruttito, e invecchiato. Tremava e sgocciolava, impudicamente, di contro il cielo biancastro.
Poi si riscosse e un po’ pesantemente arrivĂČ sulla spianata davanti al portichetto d’entrata. Il ghiaino era impastato di foglie macerate, le foglie dei due autunni di lontananza di Fulvia. A leggere si metteva quasi sempre lĂ­, a filo dell’arco centrale, raccolta nella grande poltrona di vimini coi cuscini rossi. Leggeva Il cappello verde, La signorina Elsa, Albertine disparue... A lui quei libri nelle mani di Fulvia pungevano il cuore. Malediceva, odiava Proust, Schnitzler, Michael Arlen. PiĂș avanti, perĂČ, Fulvia aveva imparato a fare a meno di quei libri; le bastavano, pareva, le poesie e i racconti che a getto continuo lui traduceva per lei. La prima volta le aveva portato la versione di Evelyn Hope. «Per me?» fece lei. «Esclusivamente». «PerchĂ© a me?» «PerchĂ©... guai se tu non sei il tipo per queste cose». «Guai a me?» «No, guai a me stesso». «E che cos’ù?» «Beautiful. Evelyn Hope is dead/Sit and watch by her side an hour». Dopo, le luccicavano gli occhi, ma preferĂ­ abbandonarsi all’ammirazione per il traduttore. «Proprio tu l’hai tradotta? Ma allora sei un vero dio. E cose allegre non ne traduci mai?» «Mai». «E perchĂ©?» «Nemmeno mi vengono sott’occhio. Credo che scappino da me, le cose allegre».
La volta dopo le portĂČ un racconto di Poe. «Di che parla?» «Of my love, of my lost love, of my lost love Morella». «Lo leggerĂČ stanotte». «Io l’ho tradotto in due notti». «Non stai troppo su di notte?» «Devo comunque, – rispose lui. – Non c’ù notte senza allarme e io sono nell’UNPA». Esplose a ridere. «Nell’UNPA! Sei dell’UNPA? Questo me lo dovevi nascondere. È troppo ridicolo. Volontario nell’UNPA, col bracciale giallo e blu!» «Col bracciale sĂ­, ma volontario un bel niente! Ci hanno arruolati in Federazione e se manchi a un allarme l’indomani ti trovi le guardie a casa. Anche Giorgio Ăš nell’UNPA». Ma di Giorgio Fulvia non rise, forse perchĂ© aveva giĂ  scaricato su lui tutta la sua ilaritĂ .
Era stato Giorgio Clerici a presentargliela, in palestra, dopo una partita di pallacanestro. Uscivano dagli spogliatoi e la trovarono, come una perla mimetizzata nelle alghe, nei resti del pubblico che sfollava. «Questa Ú Fulvia. Sedici anni. Sfollata da Torino per fifa dei bombardamenti aerei che in fondo in fondo la divertivano. Ora abita da noi, in collina, nella villa che era del notaio... eccetera, eccetera. Fulvia ha un sacco di dischi americani. Fulvia, questo Ú un dio in inglese».
Solo all’ultimo Fulvia aveva sollevato gli occhi a Milton, e i suoi occhi dicevano che quello, Milton, poteva esser tutto tranne che un dio.
Milton si premette le mani sul viso e in quel buio cercĂČ di rivedere gli occhi di Fulvia. Alla fine abbassĂČ le mani e sospirĂČ, esausto dallo sforzo e dalla paura di non ricordarli. Erano di un caldo nocciola, pagliettati d’oro.
VoltĂČ la testa al crinale e ci vide una parte di Ivan, sempre accoccolato e attento al lungo, complesso pendio.
ArrivĂČ sotto il portichetto. «Fulvia, Fulvia, amore mio». Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. «Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso».
SentĂ­ un passo avvicinarsi di lato sul marciapiede perimetrale della villa. Milton spallĂČ a metĂ  la carabina americana, ma, per quanto pesante, era un passo di donna.

2

La custode spiĂČ dall’angolo. – Un partigiano! Cosa vuole? Chi cerca? Ma lei Ăš...
– Sono proprio io, – disse Milton senza sorridere, troppo sconcertato dal vederla tanto invecchiata. Il corpo le si era fatto piĂș tozzo e la faccia piĂș smunta e tutti i suoi capelli erano bianchi.
– L’amico della signorina, – disse la donna lasciando il riparo dell’angolo. – Uno degli amici. Fulvia ù via, ù tornata a Torino.
– Lo so.
– È partita piĂș di un anno fa, quando voi ragazzi avete messo su questa vostra guerra.
– Lo so. Ha piĂș avuto notizie?
– Di Fulvia? – Scosse la testa. – Mi promise di scrivermi, ma non l’ha mai fatto. PerĂČ io ci spero sempre e un giorno o l’altro riceverĂČ.
«Questa donna, – pensava Milton fissandola stralunato, – questa vecchia, insignificante d...

Inhaltsverzeichnis

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Nicola Lagioia
  4. Nota al testo. di Gabriele PedullĂ 
  5. Una questione privata
  6. Alla ricerca del romanzo. di Gabriele PedullĂ 
  7. Cronologia della vita e delle opere
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright
Zitierstile fĂŒr Una questione privata

APA 6 Citation

Fenoglio, B. (2010). Una questione privata ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425142/una-questione-privata-pdf (Original work published 2010)

Chicago Citation

Fenoglio, Beppe. (2010) 2010. Una Questione Privata. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425142/una-questione-privata-pdf.

Harvard Citation

Fenoglio, B. (2010) Una questione privata. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425142/una-questione-privata-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Fenoglio, Beppe. Una Questione Privata. [edition unavailable]. EINAUDI, 2010. Web. 15 Oct. 2022.