VII.
La tesi della non applicabilitĂ
della logica al diritto
7.1. La negazione kelseniana della logica nel diritto. Principio di non contraddizione e principio di implicazione nella produzione giuridica
Siamo cosĂŹ pervenuti alla questione centrale che forma lâoggetto di questo libro e che è giĂ stata impostata nei §§ 1.3, 2.3, 3.3, 4.2, 5.1 e 6.3: quella dellâapplicabilitĂ della logica al diritto nella cui negazione â conseguente, come si disse allâinizio del § 6.2, dalle aporie A4, A5 e A6 â consiste, a mio parere, la settima aporia della teoria kelseniana. Si sono viste, nel capitolo che precede, le relazioni logiche che intercorrono tra le norme sostanziali sulla produzione e le norme prodotte. Ă in questa normativitĂ logica dei principi esterni della coerenza e della completezza che consiste lâapplicabilitĂ della logica alla produzione giuridica, a garanzia dellâeffettivitĂ delle norme sulla produzione, prime tra tutte le norme costituzionali, e conseguentemente della validitĂ delle norme prodotte.
Ă chiaro, a questo punto, che questa normativitĂ logica coincide con la normativitĂ giuridica dei principia iuris et in iure, interni al diritto, nei cui confronti i principia iuris tantum impongono coerenza e completezza. Che cosa vuol dire, infatti, che una norma sostanziale sulla produzione è normativa nei confronti della norma prodotta? Vuol dire che la sua normativitĂ giuridica â consistendo tale norma in un significato normativo che ha per oggetto un altro significato normativo â equivale a una normativitĂ logica, cioè al principio di non contraddizione, in forza del quale p â ÂŹ ÂŹ p, ovvero ÂŹ(p¡ p), o al principio dellâimplicazione, in forza del quale, se p â q, allora ÂŹ(p¡q). Ovviamente la normativitĂ logica vale solo nei confronti dei significati prescrittivi, e in particolare delle norme: nei rapporti tra norme costituzionali e norme di legge, tra norme di legge e prescrizioni espresse da sentenze o provvedimenti amministrativi o negozi privati, e non certo nei rapporti tra norme e fatti quali sono gli atti normativi. Un arresto di polizia illegittimo, per esempio, non è in contraddizione con le norme di legge sulle condizioni e sui limiti dellâarresto, ma è semplicemente un atto illecito e/o formalmente invalido in violazione dei relativi divieti; lâomessa prestazione sanitaria da parte dei medici di un pronto soccorso non contraddice, ma viola lâobbligo corrispondente, ed è parimenti un atto illecito per inosservanza di tale obbligo; una sentenza viziata da incompetenza o da altri vizi di forma è formalmente invalida per difformitĂ , ma non certo per incoerenza rispetto alle norme formali sulla sua produzione.
Câè un passo di Kelsen, nella Teoria generale del diritto, che chiarisce questa differenza tra le violazioni di norme ad opera di comportamenti e le contraddizioni: âLa norma prescrive il comportamento A; ma lâeffettivo comportamento dellâindividuo è non-A. In tal caso diciamo: il comportamento di tale individuo âcontraddiceâ alla norma. Tale âcontraddizioneâ non è, però, una contraddizione logicaâ. Ă ovvio, dato che una contraddizione logica non può ricorrere tra proposizioni e fatti, quali sono i comportamenti. Come scrive Kelsen, essa âpuò prodursi soltanto fra due proposizioni che affermino entrambe un âdover essereâ, cioè fra due norme come, ad esempio, âX deve dire la veritĂ â e âX non deve dire la veritĂ ââ. Ma questo, contrariamente a quanto ritiene Kelsen, è proprio ciò che accade allorquando lâeffettivo comportamento regolato da una norma è a sua volta un atto linguistico il cui significato è unâaltra norma. In questo caso siamo in presenza di due proposizioni â la norma sulla produzione e la norma prodotta â che perciò ben possono essere contraddittorie, come ad esempio âtutte le manifestazioni del pensiero sono (costituzionalmente) permesseâ e ânon tutte le manifestazioni del pensiero sono permesse, non essendolo quelle proibite e punite (dalla legge) come reati dâopinioneâ, oppure lâuna implicata dallâaltra, come ad esempio se âqualunque fatto che abbia le caratteristiche (previste dalla legge) c1-cn è G (per esempio âfurtoâ o âcontratto validoâ o âcontratto invalidoâ)â, allora âil fatto F che (secondo il giudizio) ha le caratteristiche c1-cn è G (per esempio un âfurtoâ o un âcontratto validoâ o un âcontratto invalidoâ)â.
Negli atti giuridici precettivi abbiamo dunque entrambe le cose: un atto linguistico, cioè un comportamento la cui esistenza giuridica e la cui validitĂ o invaliditĂ formale come atto precettivo dipendono unicamente dalla sua forma, la quale non ha nulla a che fare con la logica ma solo con la sua conformitĂ o corrispondenza, oppure con la sua difformitĂ o non corrispondenza empirica con le forme predisposte dalle norme formali sulla sua formazione; e la norma, ossia il significato prescrittivo espresso dallâatto, dalle cui relazioni logiche con i significati delle norme sostanziali sulla sua produzione dipendono invece la sua validitĂ o la sua invaliditĂ sostanziale. Le due cose sono chiaramente connesse: in tanto un atto linguistico â una legge, o una sentenza, o un provvedimento amministrativo o un negozio privato â è abilitato a produrre come effetti i significati da esso espressi in quanto sia prodotto in una data forma, inteso con âformaâ i requisiti procedurali e di capacitĂ o competenza del suo autore che ne fanno un atto appartenente alla lingua del diritto. Ma ai fini della questione qui discussa del rapporto tra diritto e logica le due cose sono totalmente diverse, applicandosi il principio di non contraddizione e il principio di implicazione ai significati prescrittivi e non certo agli atti che li producono.
Proprio lâappiattimento delle norme sugli atti normativi è invece alla base del rifiuto kelseniano dellâidea stessa di una contraddizione o di unâimplicazione tra norme di diverso livello, giudicata da Kelsen impensabile fin dalla Dottrina pura del 1934, e comunque incompatibile con le sue identificazioni della validitĂ delle norme con la loro esistenza e perciò con lâesistenza degli atti normativi, qui criticate come le aporie A4 e A5. Ma è chiaro che, una volta abbandonate tali indebite identificazioni, cade anche questa aporia A7, non potendosi non riconoscere a) che, indipendentemente dallâesistenza e dalla validitĂ formale degli atti normativi, il principio di non contraddizione trova applicazione in tutti i giudizi sulla loro validitĂ (o sulla loro invaliditĂ ) sostanziale, cioè sulla coerenza o lâincoerenza logica dei loro significati con quelli espressi dalle norme sostanziali sulla loro produzione, e b) che il principio di implicazione trova applicazione in tutti i giudizi sullâattuazione o sullâinattuazione delle regole da queste medesime norme stabilite, cioè sulla completezza o lâincompletezza dellâordinamento, nonchĂŠ in tutti i giudizi di sussunzione dei fatti giudicati nelle norme che li prevedono. Le violazioni giuridiche delle norme sostanziali sulla produzione, perciò, sono anche vizi logici, siano esse per commissione, come la produzione di norme con esse in contrasto, oppure per omissione, come la mancata produzione di norme da esse implicate.
Possiamo quindi affermare che i rapporti tra norme di diverso livello sono rapporti, per quanto riguarda i loro significati prescrittivi, al tempo stesso logici e giuridici in forza del carattere logico della normativitĂ giuridica e del carattere normativo della logica deontica. I principi logici iuris tantum impongono infatti la coerenza e la completezza nei confronti dei principi giuridici iuris et in iure, a garanzia di quella che ho chiamato la âsfera del non decidibile cheâ e âche nonâ. Ă in questa coerenza e in questa completezza rispetto ai principi costituzionali che consiste la logica della legislazione. Precisamente, il principio di coerenza o di non contraddizione stabilisce ciò che non può essere deciso, cioè lâinsieme dei limiti o divieti nei quali consistono le garanzie primarie negative correlative ad aspettative negative come sono, in particolare, i diritti di libertĂ o di immunitĂ . A sua volta, il principio di completezza o di implicazione stabilisce ciò che non può non essere deciso, cioè, da un lato lâinsieme dei vincoli od obblighi nei quali consistono le garanzie primarie positive correlative ad aspettative positive come sono, in particolare, i diritti sociali e, dallâaltro, gli obblighi in capo ai giudici dellâannullamento o della condanna nei quali consistono le garanzie secondarie o giurisdizionali correlative alle aspettative positive quali sono lâannullabilitĂ degli atti invalidi e la responsabilitĂ per gli atti illeciti. Lâosservanza del principio di non contraddizione consiste nel rispetto delle norme sopraordinate, mentre la sua violazione si manifesta in antinomie, cioè nellâinvaliditĂ delle norme prodotte, censurabili, ad opera della giurisdizione, sulla base del principio di legalitĂ , costituzionale o ordinaria. Lâosservanza del principio di completezza consiste invece nellâintroduzione, ad opera della legislazione, delle garanzie primarie e secondarie imposte dai diritti stabiliti, mentre la sua violazione si manifesta in lacune.
Ă cosĂŹ che la teoria, e precisamente i principi logici e teorici iuris tantum, realizzano, per usare le parole di Kelsen, lââunitĂ del sistemaâ. Ma la realizzano non certo come un dato, bensĂŹ come un obiettivo, grazie al ruolo di correzione del diritto illegittimo vigente da essi imposto alla legislazione e alla giurisdizione, nonchĂŠ al ruolo critico e progettuale da essi assegnato alla scienza giuridica in contrasto con lâulteriore aporia A8 della sua pura descrittivitĂ di cui parlerò nel prossimo capitolo. Alla legislazione spetta il compito di colmare le lacune, introducendo le garanzie primarie in attuazione del principio di completezza. Alla giurisdizione spetta invece, quale funzione di garanzia secondaria in attuazione del principio di legalitĂ , il compito di eliminare le antinomie applicando il principio di non contraddizione nei giudizi che hanno per oggetto le norme, come sono i giudizi di legittimitĂ sostanziale e, piĂš in generale, il compito di accertare e riparare le violazioni giuridiche applicando il principio di implicazione nei giudizi che hanno per oggetto gli atti, siano essi illeciti o invalidi, come sono i giudizi di merito. Ă in questi due principi, quello di non contraddizione e quello di implicazione, che consiste la logica della giurisdizione. Sempre la motivazione in diritto di una pronuncia giudiziaria consiste nellâargomentazione di una tesi sullâincompatibilitĂ o meno di una norma inferiore con una norma sostanziale superiore, oppure sullâimplicazione o meno tra una qualificazione normativa in astratto e una qualificazione operativa in concreto del fatto sottoposto al giudizio.
Entrambe queste applicazioni della logica al diritto sono state invece negate fermamente da Kelsen, soprattutto nellâultima fase del suo pensiero. Lâerrore che è alla base di questa negazione, commesso da Kelsen e dietro di lui da buona parte del dibattito che ne è seguito, consegue da quelle qui criticate come le aporie A4, A5 e A6, cioè dallâidentificazione della validitĂ della norma con la sua esistenza, dallâambivalenza sintattica generata dal fatto che tale esistenza è tuttâuno con quella dellâatto normativo di cui la norma è il senso e dalla conseguente rimozione della dimensione statica e sostanziale dallâorizzonte della teoria. Ne è prova il fatto che il sillogismo giudiziario viene concepito da Kelsen in termini puramente dinamici, cioè come unâinferenza in forza della quale âla validitĂ della norma individualeâ, di cui condizione necessaria e sufficiente è lâatto normativo da cui la norma è prodotta, âdeve scaturire logicamente dalla validitĂ della norma generaleâ oltre che âdalla veritĂ dellâasserzioneâ circa il fatto sottoposto a giudizio.
Ă chiaro che una simile inferenza è priva di senso, dato che, ovviamente, âla validitĂ della norma individuale non è implicita nella validitĂ della norma generale, alla quale corrispondeâ. Nel sillogismo giudiziario, infatti, non è in questione la validitĂ delle norme, ma la veritĂ di ciò che in base alle norme viene detto. Lâinferenza deduttiva che in esso interviene non consiste nellâimplicazione, supposta e criticata da Kelsen nei passi sopra ricordati, âse la tale norma generale è valida, allora è valida anche la norma individuale che ad essa corrispondeâ: per esempio, âse la norma generale del codice penale sul furto è valida, allora è valida anche la condanna di Tizio, che ad essa corrisponde, per il furto da lui commessoâ. Nessun giudice ragiona in questo modo. La forma del sillogismo giudiziario, nella parte consistente in una deduzione, al pari di quella di qualunque altro sillogismo deduttivo, è la forma di unâinferenza tra proposizioni assertive, cioè tra premesse assunte e conclusioni dedotte come vere: âse è vero che, come dice la norma N, tutti i fatti identificati dalle caratteristiche c1-cn integrano il reato di furto, allora è anche vero che, se è provato e perciò ritenuto vero che il fatto F possiede le caratteristiche c1-cn, allora F è un furtoâ; che è una forma di inferenza non diversa da quella esibita dal sillogismo âse è vero che, come dice Tizio, tutti gli asini volano, allora è anche vero che, se A è un asino, allora esso volaâ.
Insomma, è lâaccertamento della veritĂ processuale della tesi che afferma o che nega una violazione giuridica, cioè lâilliceitĂ o lâinvaliditĂ di un atto, che forma il tratto distintivo degli atti giurisdizionali; la cui validitĂ , diversamente da quella di qualunque altro atto giuridico di tipo pre...