XIV. Rivolta nei ghetti e rivoluzione nei campus
Lyndon Baines Johnson
Il 22 novembre 1963, a Dallas, durante lâultima tappa di un viaggio nella Florida e nel Texas fatto per raccogliere consensi al suo programma per i diritti civili, veniva assassinato John F. Kennedy. Mentre il corteo presidenziale percorreva la strada che collega lâaeroporto al centro cittadino, il presidente, che viaggiava in una macchina scoperta con la moglie e il governatore del Texas, John Connolly, veniva raggiunto da alcuni colpi di fucile sparati dal tetto di uno stabile vicino. Lâautore materiale del delitto fu identificato in un ex marine, Lee Harvey Oswald, psichicamente instabile e dal passato politico oscuro. Attorno allâepisodio, che colpĂŹ duramente lâAmerica riproponendo al paese il problema della violenza politica, si manifestarono le ipotesi piĂč diverse sui motivi dellâassassinio e lâidentitĂ di eventuali mandanti. La tesi del complotto, imputato a Castro e allâUnione Sovietica oppure a elementi razzisti o di estrema destra, secondo gli orientamenti politici di chi la formulava, sembrĂČ trovare nuovo credito quando qualche giorno dopo, durante la traduzione da un carcere allâaltro, Oswald veniva ucciso da Jack Ruby, un impresario di night-club; nĂ© lâuno nĂ© lâaltro dei due assassini aveva apparentemente motivazioni personali nel compimento del duplice delitto e il secondo sembrava giustificarsi con la preoccupazione di chiudere la bocca a un pericoloso sicario dopo che esso aveva servito allo scopo. Per far luce su una vicenda che continuĂČ ad angosciare il paese per molti mesi, veniva nominata una commissione speciale diretta da Earl Warren, presidente della Corte suprema. Dopo un lungo e minuzioso lavoro, la commissione Warren presentava un ponderoso rapporto in cui si escludeva la tesi della cospirazione e si riconfermavano la fortuitĂ dellâepisodio e la casualitĂ di una serie di circostanze che parevano legate da unâunica trama. Ma lâautoritĂ della commissione e la mole del lavoro da essa svolto non furono sufficienti a sciogliere i dubbi e mettere a tacere le voci che attribuivano le conclusioni della commissione Warren a considerazioni di opportunitĂ e alla ragione di Stato. Quindici anni dopo, nel 1978, in un clima politico diverso, una nuova commissione, questa volta parlamentare, arrivava a conclusioni opposte: essa affermava che da un nuovo esame di tutta la faccenda scaturivano ragionevoli, anche se non decisivi, indizi che si fosse trattato di un complotto, da cui venivano tuttavia esplicitamente esclusi sia Castro che lâUrss. Non rimaneva che individuare le motivazioni dellâassassinio, nellâodio razziale o in quello ideologico, e i mandanti in quella «lunatic fringe» di esaltati estremisti, la cui presenza, pur marginale, costituisce un fenomeno caratteristico della caleidoscopica realtĂ americana e che proprio nel corso degli anni Sessanta assumeva nuova consistenza. La John Birch Society e il gruppo dei «Minutemen», con le loro manifestazioni di fanatismo patriottico e i loro rituali militaristi, ne erano i piĂč noti, anche se non gli unici, rappresentanti.
PiĂč recentemente veniva ripresa la tesi, giĂ altre volte avanzata, di un assassinio, se non organizzato, ispirato dal vicepresidente Johnson che a Dallas aveva amici e sostenitori. Johnson entrava in carica appena qualche ora dopo lâassassinio di Dallas, prestando il giuramento di rito sullâaereo che lo riportava a Washington insieme al corpo del presidente assassinato.
Tutti gli storici americani che si sono occupati di questi anni hanno sottolineato le profonde differenze di personalitĂ , educazione ed esperienze politiche tra Kennedy e Johnson, ma altrettanto unanimemente, insieme alle diversitĂ di stile, hanno riconosciuto la continuitĂ di programmi, di orientamenti e di personale politico tra le due presidenze, talchĂ© anche gli anni di Johnson fanno parte dellâ«epoca kennediana». Fondamentalmente diversi, invece, i risultati conseguiti durante le due presidenze: mentre quella di Kennedy Ăš caratterizzata da molte enunciazioni programmatiche e da limitate realizzazioni sul piano della politica sociale, quella di Johnson Ăš su questo terreno ricca di successi tali da attribuirgli nella tradizione riformista americana una posizione di eccezionale rilievo. Al contrario, mentre sul piano della politica estera Kennedy riportava, insieme a innegabili sconfitte anche dei grandi successi personali, lâesperienza di Lyndon B. Johnson, quasi esclusivamente polarizzata sul Vietnam, fu tragica e responsabile di un fallimento politico, apertamente riconosciuto con la decisione di non ripresentare la propria candidatura alle elezioni del â68. Il disastro vietnamita eclissĂČ i meriti e le realizzazioni della «Grande Società », erede del New Deal rooseveltiano, e specie allâestero Johnson verrĂ identificato con lâimmagine scaturita dalla vicenda vietnamita di unâAmerica aggressiva e imperialista che si sostituiva a quella, altrettanto parziale, di unâAmerica pacifista e tradizionalmente ostile alla realpolitik, emersa nellâimmediato dopoguerra e conservatasi nel corso degli anni Quaranta. In realtĂ , lâimmagine di un Johnson guerrafondaio, attribuitagli dalle sinistre americane ed europee durante gli anni dei bombardamenti sul Nord Vietnam, come quella dellâabile e spregiudicato politicante che con le sue arti riesce a controllare il Congresso e ottenere i consensi per le cause piĂč disparate, sono stereotipi che riflettono solo in parte una personalitĂ molto piĂč complessa in cui coesistono, in combinazioni varie secondo gli obiettivi e le situazioni, cinismo, freddo calcolo e arroganza, con passionalitĂ , generositĂ e un profondo senso di insicurezza. Forse, come osserva il suo principale biografo, E. Goldman, proprio in questâultima caratteristica, che lo portava a ricercare in modo quasi morboso la simpatia e la stima di tutti, sta la chiave dei successi e degli insuccessi di Johnson, nonchĂ© di un impegno sociale e di un patriottismo che appaiono di volta in volta superficiali e retorici o sembrano scaturire da una genuina ispirazione. PiĂč spesso che da una coerente linea politica o da profonde convinzioni ideologiche, che non emergono dalla storia della sua lunga attivitĂ pubblica, il suo riformismo sembra nascere dal desiderio di popolaritĂ e, secondo quanto ha scritto Leuchtenburg, dallâambizione di essere ricordato come un grande presidente nella tradizione di Roosevelt.
Johnson come Kennedy
Il nuovo presidente annunciava le sue intenzioni di proseguire puntualmente nella strada aperta da Kennedy, giĂ qualche settimana dopo lâassassinio di Dallas, nel suo messaggio sullo stato dellâUnione dellâ8 gennaio. «Intendiamo realizzare i piani e i programmi di J.F. Kennedy non per onorarne la memoria ma perchĂ© sono ciĂČ di cui il paese ha bisogno».
E fu ancora nel nome di Kennedy che Johnson sollecitĂČ il Congresso ad approvare quella legislazione che il defunto presidente aveva sostenuto con poca fortuna. A Johnson, maestro nellâarte di convincere, perfezionata nel corso di un trentennio di vita parlamentare, il Congresso concesse quasi tutto. Nellâarco di pochi mesi passavano la legge sui finanziamenti federali allâuniversitĂ (dicembre 1963), quella per la riduzione delle tasse, anchâessa proposta da Kennedy, che prevedeva tagli per 7,7 miliardi nel â64 e 11 e mezzo nel â65. A metĂ marzo, Johnson inviava al Congresso un messaggio speciale in cui dichiarava «guerra alla povertà »; esso prevedeva un programma di qualificazione professionale e di borse di studio per istituti superiori destinato a giovani di famiglie indigenti, aiuti finanziari alle comunitĂ povere per lavori diretti a migliorarne la qualitĂ della vita. Stanziava fondi di varia consistenza per piccoli prestiti a piccole imprese, acquisti di terra a beneficio di famiglie di contadini bisognosi, ecc. Il tutto per quasi un miliardo di spesa, che veniva approvato nellâagosto dai due rami del Congresso con qualche emendamento e una riduzione di appena 15 milioni.
In giugno, dopo 83 giorni di dibattito con 73 voti a favore e 27 contro, il Senato approvava la legge sui diritti civili giĂ proposta da Kennedy e discussa e votata dalla Camera nel febbraio: grazie a un compromesso dellâultima ora, che non ne alterava la sostanza, la legge diventava bipartitica.
I leader della comunitĂ nera la salutarono come «una delle piĂč importanti misure legislative degli ultimi decenni» e un «gigantesco passo avanti a vantaggio non solo dei cittadini neri, ma di tutto il paese». Meno ottimisti gli esponenti dellâala radicale, come Malcolm X, secondo cui la soluzione del problema razziale era affidata non tanto alle nuove leggi â «non si puĂČ creare buona volontĂ per decreto» â ma alla presa di coscienza del paese. Intanto, gli scontri razziali continuavano e si intensificavano negli Stati del Sud, giustificando il commento di Martin Luther King, secondo il quale la legge avrebbe portato «una fresca e serena brezza in una estate fin troppo calda». In realtĂ , essa non bastava a raffreddare lâatmosfera e qualche giorno dopo scoppiavano aspri conflitti a sfondo razziale ad Harlem, e nelle settimane successive a Rochester, nello Stato di New York, e a Jersey City, nel New Jersey. I torbidi non avevano ancora la violenza che raggiungeranno nelle estati successive, ma indicavano che lâazione dei gruppi piĂč radicali stava facendo progressi e che la protesta nera stava montando dagli Stati del Sud, dove era rimasta contenuta fino allora a quelli del Nord e tra il proletariato urbano.
Goldwater e la sconfitta della destra repubblicana
La candidatura di Johnson alle elezioni del â64 era scontata. Si dava per scontata anche una buona affermazione del Partito democratico, ma non nelle eccezionali dimensioni che assunsero ambedue. In realtĂ , i risultati del â64 dovevano segnare per il Partito democratico e il suo leader una vittoria che non era esagerato definire di dimensioni storiche. Dopo quella conseguita da Franklin D. Roosevelt nel 1936, lâaffermazione di Johnson era la piĂč schiacciante mai riportata da un presidente americano nel XX secolo: 41,7 milioni di voti, pari al 61% del totale, e 486 voti elettorali che gli assicurarono 44 Stati â tutti meno lâArizona, lo Stato dellâavversario repubblicano Barry Goldwater â e i quattro Stati del profondo Sud: Mississippi, Louisiana, Georgia e Sud Carolina. Stati come lâIndiana, il Nebraska, il Kansas e il Vermont, tradizionalmente repubblicani, venivano conquistati da un presidente democratico per la prima volta. Sulla scia della vittoria di Johnson, il Partito democratico si rafforzava alla Camera e al Senato; tra i nuovi senatori democratici verrĂ eletto Robert Kennedy, che vinse un seggio tradizionalmente repubblicano a New York.
La vittoria democratica, che sembrava riconfermare al di lĂ di ogni dubbio la vecchia coalizione del New Deal nellâalleanza tra le masse urbane, i neri â che voteranno per Johnson con margini massicci, dallâ85 fino al 99% in certe zone â e le minoranze etniche, nasceva in realtĂ da una situazione del tutto eccezionale: costituita dallâattribuzione della candidatura repubblicana al senatore Barry Goldwater, dalle sue idee e dalla sua personalitĂ .
La campagna per la nomination del Gop era partita con Nelson Rockefeller, governatore dello Stato di New York, come favorito, lo stesso Goldwater come secondo a parecchie lunghezze e con George Romney, governatore del Michigan, e Cabot Lodge, ambasciatore americano a Saigon, come candidati di riserva. Ma il secondo matrimonio di Rockefeller, che divorziato aveva sposato una divorziata, ne aveva fatto rapidamente cadere la popolaritĂ presso lâelettorato repubblicano e ciĂČ aveva aperto la strada a Goldwater, che dopo una serie di vittorie nelle primarie della primavera del â64 otteneva la candidatura dalla Convenzione repubblicana di San Francisco alla prima votazione con ben 883 voti, piĂč di 200 oltre i 655 necessari per la vittoria.
In realtĂ , nonostante lâaffermazione quasi plebiscitaria, il Partito repubblicano usciva dalla Convenzione profondamente diviso. La vittoria di Goldwater era quella della destra estrema che, grazie allâattivismo degli elementi piĂč giovani e a una campagna ben finanziata, era riuscita a imporre al resto del partito il proprio candidato, sostenitore di una linea di estremismo esasperato in politica estera e interna. Goldwater era fautore da sempre di un programma che restituisse il massimo dei poteri agli Stati, smantellasse senza compromessi il Welfare State costruito dai presidenti democratici, riservasse ogni iniziativa in campo economico allâindustria privata; inoltre il candidato repubblicano si era battuto contro la legge per i diritti civili del â64, che pur era stata votata dal leader della minoranza repubblicana al Senato, il conservatore DirkÂsen. In politica estera, Goldwater aveva sempre sostenuto una linea di assoluta intransigenza nei confronti del comunismo e dellâUrss. Nel 1960 si era espresso a favore dellâutilizzazione della bomba atomica per sostenere eventuali rivolte anticomuniste nellâEst europeo e dellâattribuzione ai comandanti delle unitĂ americane di stanza in Europa della piena libertĂ di giudizio in merito allâuso dellâarma atomica in funzione tattica in caso di conflitto, una decisione che per legge era riservata al presidente. A proposito del Vietnam, era stato uno dei primi a chiedere lâintensificazione delle operazioni aeree al Nord, la defoliazione della giungla e il ricorso alle armi nucleari. Il successo di Goldwater alla Convenzione di San Francisco indicava che allâinterno del Partito repubblicano era prevalsa la corrente «ultrà », particolarmente forte negli Stati del Middle-West e del Sud-Ovest, fatta di tradizionalisti e di accesi nazionalisti, ma anche di razzisti e di simpatizzanti della John Birch Society, il cui capo riconosciuto, Robert Welch, era arrivato ad accusare Eisenhower e Dulles di essersi fatti complici coscienti della cospirazione comunista in America e nel mondo. Le probabilitĂ di vittoria di Goldwater alle elezioni di novembre erano chiaramente inesistenti talchĂ© ci fu chi parlĂČ di suicidio del Partito repubblicano. Se era pur vero che le posi...