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Ritorno ai fondamentali:
la pena secondo la Costituzione
âDevono soffrire, devono pagare per ciò che hanno fattoâ. Nel discorso pubblico, come abbiamo visto, nonostante la Costituzione abbia affermato in modo inequivocabile che la pena ha finalitĂ rieducativa, è ancora consolidata lâidea che invece debba servire â appunto â a una vendetta. Una vendetta pubblica. In realtĂ oggi la pena non ha unâunica funzione. La teoria giuridica piĂš accreditata, infatti, è quella della sua natura polifunzionale: deve servire, cioè, a piĂš cose, e a tutte insieme.
Partiamo proprio da quella che piace tanto al populismo forcaiolo. Non a caso è la funzione piĂš antica, quella propria delle civiltĂ arcaiche: la funzione retributiva. Insomma, quella di punire e basta. La pena inflitta dallo Stato sostituisce la vendetta privata: non si permette ai singoli cittadini di vendicare il torto subĂŹto, ma se ne attribuisce il potere allo Stato. In questâottica la pena è, appunto, una semplice vendetta: pubblica, ma vendetta. Retribuire il male con altro male.
Câè poi una seconda funzione: chiamiamola special-preventiva. Qui la pena è volta a prevenire il rischio che vengano commessi altri reati proprio da quella persona. Questo approccio nasce dalle teorie positivistiche dellâOttocento, epoca in cui si era cominciato a scandagliare le cause profonde del reato. Per semplificare, fu allora che si iniziò a ritenere che lâuomo delinque per vari fattori, spesso di natura personale soggettiva, perfino antropologica â è il momento in cui si definiscono le teorie criminologiche di Cesare Lombroso â, oppure sulla base di condizioni socio-familiari. Al di lĂ della bontĂ dei ragionamenti, ciò che conta è che allora sâiniziò a sostenere che per prevenire i delitti occorre agire su quelle condizioni. La pena, perciò, non ha piĂš una funzione di retribuzione, ma la sua natura è quella di contenere la pericolositĂ sociale del singolo individuo agendo sulle cause che la determinano.
Quindi, tanto piĂš un soggetto è pericoloso, tanto piĂš la pena nei suoi confronti dovrĂ essere elevata e soprattutto duratura, trasformandosi di fatto in misura di sicurezza, cioè âdi poliziaâ: finchĂŠ non viene meno la sua pericolositĂ sociale non viene meno la misura. Che quindi è indeterminata, mentre nel caso serva come âretribuzioneâ non può che essere determinata: a un danno preciso non può che corrispondere altrettanto male (retaggio del remotissimo codice babilonese di Hammurabi, un principio fissato quasi quattromila anni fa). Nella prevenzione speciale, invece, bisogna attuare forme di contenimento nei confronti di un soggetto perchĂŠ lo si ritiene socialmente pericoloso in base a caratteristiche personologiche oppure sociali: quindi nei suoi confronti lâinternamento non cesserĂ finchĂŠ lâindividuo non tornerĂ a essere innocuo.
Câè poi la terza grande funzione, quella della deterrenza: la prevenzione generale. La pena è rivolta non alla persona del reo, come la prevenzione speciale, particolare, ma alla generalitĂ dei cittadini, quindi a coloro che ancora non hanno commesso il reato. La pena, minacciando un male, deve fare in modo che tutti gli altri cittadini non siano, per dirla in termini religiosi, âindotti in tentazioneâ. Deve spaventare la generalitĂ dei consociati affinchĂŠ non commettano reati. In questo caso la pena può anche essere sproporzionata alla reale offensivitĂ del comportamento: ciò che conta non è retribuire un male con un male uguale o contrario, ma â se lo scopo è quello di evitare il piĂš possibile che un reato si verifichi â anche solo il rischio può essere punito con una pena elevatissima.
Infine câè lâultima funzione della pena classica: la difesa sociale, il mero contenimento a scopo di difendere la collettivitĂ dai soggetti pericolosi che spesso però si trasforma nella pura esclusione di coloro che vivono ai margini della societĂ , che non si vogliono vedere, con cui non ci si vuole confondere, con forme piĂš o meno legali di âdetenzione socialeâ.
Ă chiaro che, di fronte a queste teorie classiche, lâirrompere della funzione rieducativa con lâarticolo 27 della Costituzione sia stato una rivoluzione.
Come si è giĂ detto, nellâordinamento italiano, la Carta fondamentale della Repubblica ha assegnato alla pena una finalitĂ precisa: quella di rieducare. Ma osserviamo da dove è arrivato quel principio. Ă nato in un contesto culturale in cui si pensava â forse in parte ingenuamente â che il reo fosse una persona che o non avesse mai avuto unâeducazione o lâavesse perduta. Câerano teorie pedagogiche che consideravano il criminale come un bambino che dovesse essere educato o ri-educato. Una parola, ârieducazioneâ, che è stata poi attualizzata e declinata dalla giurisprudenza (soprattutto dalla Corte Costituzionale) in termini di ârisocializzazioneâ o meglio ancora di âreinserimento socialeâ: è a questo, in definitiva, che la pena deve tendere.
Cosa significa tutto questo? Vuol dire che il legislatore può assegnare alla pena di volta in volta una funzione o retributiva, o piĂš retributiva, o piĂš special-preventiva, o piĂš general-preventiva, ma ciò che conta è che comunque, in tutti i casi, la pena tenda al reinserimento sociale. Un esempio: la normativa introdotta sulla guida in stato di ebbrezza e sul cosiddetto omicidio stradale. Sono state previste, a mero scopo di deterrenza, pene severissime: in realtĂ si tratta di reati di âmero pericoloâ, cioè senza danno, benchĂŠ sanzionati in maniera durissima, oppure di reati solo colposi (omicidio stradale). Nel caso della guida in stato di ebbrezza si punisce addirittura la mera condotta, anche quando non provoca nessun incidente e ci si mette semplicemente alla guida dopo aver assunto un certo quantitativo di alcol. Ă evidente: qui la pena non ha nessuna funzione retributiva. Si vuole evitare il piĂš possibile il rischio che succedano incidenti stradali. Ă un reato di pericolo e la pena qui ha un mero scopo di deterrenza.
Cosa dice la Costituzione? Che va bene anche la prevenzione generale, ma che quella pena, nel momento in cui viene erogata, e tanto piĂš quando viene eseguita (compito della magistratura di sorveglianza), deve avere comunque uno scopo rieducativo. Quindi la pena deve essere utile a reinserire socialmente chi ha commesso un reato.
Non si può che ripartire da qui, allora. Dalla Costituzione.
Lâarticolo 27 stabilisce la finalitĂ rieducativa. Una rivoluzione. Pochissime costituzioni al mondo hanno inserito lâesecuzione della pena nel loro testo. In quella inglese si parla di prigione, di diritto di difesa, di diritti dellâimputato, di Habeas Corpus, il principio (tanto citato nei polizieschi) che tutela lâinviolabilitĂ personale e il diritto dellâarrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da un magistrato.
Quella italiana parla proprio di ârieducazioneâ. PerchĂŠ? Intanto è il caso di ricordare che i costituenti erano stati in molti casi detenuti. Proprio cosĂŹ: erano persone che avevano conosciuto il carcere negli anni del fascismo. Nel momento in cui hanno scritto la legge fondamentale, hanno detto: noi che abbiamo provato sulla nostra pelle che cosa è la prigione dobbiamo dire qualcosa sulla pena. E cosĂŹ hanno scritto parole fondamentali. Primo: la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanitĂ . Hanno affermato cioè il divieto della pena disumana, il divieto della tortura, che alcuni di loro avevano subĂŹto nelle carceri del regime. Un principio riconosciuto â in seguito â in tutte le dichiarazioni dei diritti dellâuomo, da quella dellâOnu alla Convenzione europea.
Poi, però, si sono sentiti in dovere di orientare lo sguardo verso il futuro. E hanno detto: la pena deve essere utile. Non può, non deve essere mera retribuzione. Non può, non deve essere mera prevenzione speciale. Non può, non deve essere mera deterrenza.
Deve invece servire a qualcosa. La pena deve svolgere la sua funzione nel recupero della persona. Chi subisce la pena, alla fine della pena stessa deve essere possibilmente una persona diversa da quella che era al momento del suo inizio, e tanto piÚ diversa rispetto al momento in cui ha commesso il reato, un tempo che spesso è ormai molto lontano.
Questa è la grande scommessa del carcere e dellâesecuzione della pena.
Ma per capire come ârieducareâ è utile â forse necessario â porsi anche unâaltra domanda. PerchĂŠ si delinque? Quella che riguarda lâeziologia del reato è una domanda complessa, ma dal percorso della risposta discendono varie conseguenze. Si commette un crimine perchĂŠ si ha il libero arbitrio di scegliere di fare il male o lo si sceglie (anche) perchĂŠ si è nati in un certo quartiere, in un certo ambiente, in una certa famiglia, sotto un certo modello genitoriale?
Lâottica della prima grande riforma dellâordinamento penitenziario della Repubblica Italiana, approvata nel 1975, con cui si cambiava il regolamento in vigore dallâepoca fascista (1931), era questa: causa del reato è la deprivazione sociale. Erano gli anni Settanta, anni di grande sviluppo del welfare. Visto che la Costituzione aveva fissato il principio che il reo va riabilitato, lo Stato decise di conseguenza di investire creando gli assistenti sociali e la magistratura di sorveglianza.
E dunque, se si delinque perchĂŠ socialmente deprivati, nel momento in cui lo Stato interviene attraverso la pena e i suoi strumenti, lâaspettativa è che, finita la pena, saranno state rimosse quelle cause, e il condannato non tornerĂ piĂš al reato.
Se invece si ammette solo il libero arbitrio, la pena non può che essere retributiva. Chi ha scelto il male, male avrĂ . Ă una sua responsabilitĂ e soprattutto è stata una sua libera scelta. Responsabilmente accetterĂ anche le conseguenze del male commesso: il carcere, la sofferenza, la privazione della libertĂ . Lâottica precedente allâarticolo 27 era stata proprio quella dellâemenda: si espia la pena perchĂŠ ci si deve redimere nel proprio animo. La matrice è evidentemente religiosa: chi pecca deve purgarsi, alla fine di questa lunga sofferenza forse cambierĂ e, se si sarĂ emendato, sarĂ una persona diversa.
Soffermiamoci su questo percorso logico: è quello che ha prodotto la pena espiata in celle singole sul modello religioso â appunto â del convento. In realtĂ , però, anteriormente allâidea del carcere moderno, si era sviluppata in Olanda, allâinizio del Cinquecento, lâidea della âcasa-lavoroâ. Con lâinurbamento, conseguenza della prima industrializzazione, dalle campagne era arrivata nelle cittĂ dellâEuropa del Nord unâenorme massa di contadini affamati, fra carestie e pestilenze. Non tutti riuscivano a trovare lavoro: vagabondi, oziosi, violenti dâogni specie delinquevano nei centri urbani. Sorse la necessitĂ di contenere in qualche modo questa folla per evitare che le grandi cittĂ europee diventassero invivibili. Tra le altre, Amsterdam, appunto. E lĂŹ vennero create le case-lavoro indirizzate a fornire unâoccupazione. Con unâidea in piĂš. Chi aveva commesso un reato poteva essere a buon titolo costretto a fare qualcosa che non avrebbe voluto fare: lavorare.
Nacque cosĂŹ il concetto del lavoro forzato âmodernoâ (unâidea antica, di stampo schiavistico, che esisteva giĂ al tempo dei romani): si venne infatti a creare unâenorme forza lavoro da utilizzare per le prime fabbriche. Le grandi manifatture del Seicento vennero in parte sostenute proprio dal lavoro dei criminali: non di persone che liberamente sceglievano di lavorare, ma di gente che veniva messa a faticare come punizione per aver commesso un reato. Forza lavoro, tra lâaltro, molto a buon mercato, quasi gratis, visto che bastava dar loro solo il necessario per sostenersi. Un pezzo di pane, una coperta.
Nessuno, ancora, pensava di farli dormire in una cella tutto il giorno e di non farli uscire mai allâesterno.
Quando nasce allora il carcere attuale, con le celle? Nel Settecento, in Inghilterra, quando si è cominciato a dire: attenzione, il male è frutto di una libera scelta. Con il liberalismo, si è poi affermata lâidea che non si può costringere nessuno a fare qualcosa contro la sua volontĂ : oggi la vediamo espressa proprio nel divieto, presente in tutte le dichiarazioni di diritti dellâuomo, dei lavori forzati. Io ti posso obbligare a stare in una cella e subire la pena, non ti posso forzare a lavorare.
Ne conseguĂŹ che lâunico modo per sanzionare chi compiva un delitto fosse di fargli espiare una pena. E quale miglior sistema di quello utilizzato dai monaci che se ne stavano soli nelle celle, a pane e acqua, per purificarsi dal peccato? Ă lĂŹ che fa la sua apparizione il carcere cellulare. Lo stesso concetto di cella, proprio delle celle dei monaci, prende corpo in quel momento.
NellâOttocento il carcere era simile al convento, con le stesse regole di vita: pranzo in refettorio, lâattivitĂ della giornata suddivisa secondo le ore â quelle in cui si poteva uscire a prendere lâaria, quelle in cui si doveva pregare â e cosĂŹ via. Qualcosa che ritorna anche oggi. Ma il detenuto era lasciato in un certo senso abbandonato: non gli si davano strumenti per lavorare e tanto meno per studiare.
Quando nasce il Positivismo fondato sulle nuove scoperte scientifiche, ci si comincia a chiedere: perchĂŠ una persona delinque? Le risposte sono varie: perchĂŠ è nato povero, oppure perchĂŠ ha una malattia. Addirittura câè chi arriva a dire perchĂŠ câè sempre un difetto a livello cerebrale... Per evitare che commettano reati, la risposta viene sviluppata cosĂŹ: studiamo il reo, vediamo dove si può agire per impe...