L'antifascismo non serve più a niente
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L'antifascismo non serve più a niente

Carlo Greppi

  1. 160 Seiten
  2. Italian
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L'antifascismo non serve più a niente

Carlo Greppi

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Immaginate un paese in cui si ripete costantemente «che c'entriamo noi col fascismo?» e «ma poi, anche se fosse, tanto non era una dittatura, anzi ha fatto pure qualche cosa di buono». Immaginate un paese dove il crollo del fascismo viene chiamato anche 'morte della patria', dove la Resistenza diventa un'eredità scomoda da nascondere quanto prima nella soffitta della memoria. Ecco, ora immaginate di mettere alla prova dei fatti queste parole che sono diventate quasi senso comune. È quello che fa questo libro ripercorrendo le ragioni per cui è necessario, ora più che mai, riprendere in mano la storia dell'antifascismo italiano e con essa le parole e le azioni di alcuni suoi protagonisti, uomini e donne del secolo scorso che dedicarono anni – e spesso decenni – a una lotta senza compromessi. Anni percorsi da un afflato etico, prima ancora che politico, che manca terribilmente nell'Italia di oggi. E che va recuperato.

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Passaggio quattro.
La scelta delle armi: chi spara

Immaginate un paese in cui si parla di Resistenza per due o tre decenni senza mai nominare l’uso delle armi, o quasi. Non viene forse da chiedersi perché questo aspetto fondante sia negato, ridimensionato, offuscato, ribaltato? O si tratta forse di una sorta di effetto collaterale di tutte le storie «dimenticate» che sono andate a comporre, in particolare a partire dagli anni Settanta e Ottanta, un quadro più diversificato in cui non c’era solo la Resistenza armata a raccontare sé stessa, come invece era accaduto per decenni? È in particolare la resistenza di chi, non in armi, si oppose al progetto di dominio nazifascista ad aver assunto una dimensione sempre più centrale nel dibattito storiografico e, come conseguenza, in quello pubblico126. Finché, in una sorta di triplo avvitamento, della violenza partigiana non si è parlato che per condannarne gli eccessi, dimenticando il contesto in cui era andata in scena.
Ripercorriamo come questo è potuto accadere, come il lavoro degli storici ha dettato i tempi al dibattito pubblico. Inizialmente si è parlato, e a lungo, di combattenti, inquadrandoli in letture partitiche o comunque «di parte», tentando di costruire un’epica della guerra partigiana – una guerra vera, in cui si spara. Poi si è cercato di allargare lo sguardo, includendo – ed era legittimo, giusto, necessario – in questa ricostruzione altre categorie, quella di «resistenza civile» su tutte. E lo si è fatto parlando di coloro – in larghissima misura donne – che, senz’armi, ospitarono e protessero gli Alleati, i perseguitati o i partigiani, che con questi ultimi collaborarono. Come effetto involontario di questo spostamento di focus, anche perché la memoria della guerra – di ciò che guerra è – si allontanava inesorabilmente dalla memoria, si è sentita sempre più spesso aleggiare nel dibattito pubblico una condanna aprioristica della violenza, che pare legittimare solo gli atteggiamenti di chi una posizione in effetti la prese, e magari scelse pure la parte giusta; ma non sparò mai un colpo. Che strana guerra è questa, quella di cui si ricorda chi aiuta, ma sempre meno chi combatte.
E così, negli ultimi vent’anni, parlando di quell’humus fondamentale, indispensabile perché decine di migliaia di uomini e donne in armi si potessero organizzare per arrivare preparati all’ora dell’insurrezione, si sono perse di vista le scelte e le azioni di quella determinata e vasta minoranza armata che percorse i venti mesi senza sapere come sarebbe andata a finire, che rischiò o perse la vita propria e la tolse ad altri. Era una deriva ampiamente prevista già nell’immediato dopoguerra: basti pensare che il professor Augusto Monti nel 1951, introducendo un’Antologia della Resistenza, «quasi tutta dedicata» alla lotta armata, si sentiva in dovere di spiegare che la Resistenza «civile o politica o disarmata» e quella «militare o armata, o partigiana» avevano una relazione strettissima, come quella tra le radici e il fusto, ed esprimeva parallelamente preoccupazione perché dopo la Liberazione si era iniziata «per tutto il paese una campagna di denigrazione contro i partigiani la quale, movendo dalla constatazione di sporadici trascorsi commessi da elementi deteriori della Resistenza armata, tendeva a mettere sotto processo, come comunità di delinquenti, tutta la Resistenza armata»127.
«Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato», scriveva Nuto Revelli dei giorni di settembre in cui finì il suo fascismo «fatto di ignoranza e presunzione»128, e scelse la lotta; lui che poi avrebbe scritto la canzone Pietà l’è morta, le cui prime strofe, evocando i canti alpini, cominciano mostrando gli effetti di quegli spari:
Lassù sulle montagne
Bandiera nera
L’è morto un partigiano
Nel far la guerra129.
Anche l’altro grande canto resistenziale, Bella ciao, un canto dalla difficile attribuzione «che ha decine di nonni e zie, ma forse nessun padre»130 e che deve la sua lunga fortuna al suo essere in qualche modo ecumenico, inclusivo, ruota inesorabilmente intorno alla morte, così come Fischia il vento, l’inno «rosso» che, ancora più esplicito, prevede la «dura vendetta» contro il «fascista vile traditor» nel caso in cui la «crudele morte» colga il partigiano, ricordando «i morti, i torturati, i feriti»: è un canto che deve essere affidato «al palpitare del cuore che ritorna a rivivere ore e momenti della vita partigiana», come ammonì un foglio garibaldino nel 1945131. E non è certo un caso che quelli che sono forse i due più importanti romanzi resistenziali, i già citati Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, di fatto muovano i loro passi da una pistola, che più che metafora della lotta ne è l’essenza stessa. In mano, in entrambi i casi, a due ragazzi – un ragazzino di dieci anni e un ventenne. E le pistole, va da sé, prima o poi sparano, come in generale le armi, «quelle loro tutte diverse, sghembe, inaccostabili, incollettive, personalissime armi»: il «repellente senso d’intimità» territoriale con i fascisti era «da risolversi soltanto con l’aperto fuoco». «Ricordati che senza i morti, i loro ed i nostri, nulla avrebbe senso», dice Johnny a un suo compagno di lotta – I’ve stood, and fired, and killed132.
La stessa vicenda di Primo Levi, arrestato come antifascista e solo in un secondo momento deportato ad Auschwitz in quanto ebreo, comincia con una pistoletta incrostata, «con un tamburo piccolo piccolo, da sparare a 5 metri», che teneva sotto il guanciale nella mansarda in cui stava prima di essere catturato. Perché all’alba della battaglia la «penuria di armi rappresentava per le bande il problema dei problemi»133. E più avanti, soprattutto quando la vittoria sarebbe stata a portata di mano, l’affluenza di volontari – spesso renitenti alla leva – avrebbe superato anche la disponibilità di armi, rendendolo un problema a tratti endemico.
Può anche far sorridere, leggere a tre quarti di secolo di distanza di questi ragazzi con delle armi che scottano in mano – che le nascondono, le riprendono, le perdono, esitano ad usarle. Ma le armi, ribadiamolo, erano state tra le principali preoccupazioni dei primi che si diedero alla macchia, nei giorni a cavallo dell’8 settembre e nelle prime settimane dopo l’armistizio. Gaetano Salvemini, che pure si dichiarava contrario al tirannicidio, in un articolo uscito nella primavera del 1927 aveva intuito che in futuro sarebbe stato necessario «contrapporre forza a forza», e che la dittatura avrebbe potuto essere battuta solamente se si fossero avverate «contemporaneamente due condizioni: una disperata inquietudine serpeggiante in larghi strati del popolo; e qualche avvenimento nazionale che da un lato sommuova il popolo nel suo profondo, ne stimoli gli odi e le speranze, e lo sospinga dappertutto all’azione, e, dall’altro, sgretoli e paralizzi il partito dominante e lo renda incapace di resistere»134. Nelle ore successive all’8 settembre ci furono – nitide, visibili a tutti – queste due condizioni. E si cercarono le armi.
I combattenti in nuce come Primo Levi procedevano per tentativi cercando di procurarsele, e i leader come Parri, per sostenere la saldatura tra la tensione ideale e morale dei giovani e l’esperienza ventennale della sua generazione, cercavano di «collegare le fiammelle accese»135. Ne leggiamo il senso intrinseco in Un uomo un partigiano, uno dei primissimi testi memorialistici del dopoguerra, scritto da Roberto Batta...

Inhaltsverzeichnis

  1. Introduzione. Il lupo che non c’è, o del passato futuro
  2. Passaggio uno. Un regime criminale: chi muore
  3. Passaggio due. La clandestinità: chi sparisce, chi spera
  4. Passaggio tre. La disobbedienza: chi esita, chi no
  5. Passaggio quattro. La scelta delle armi: chi spara
  6. Passaggio cinque. Una guerra senza quartiere: chi c’era, chi no
  7. Passaggio sei. L’unità antifascista: quel che c’era, e quanto manca
  8. Conclusioni, o la ripresa dell’antifascismo
  9. Ringraziamenti
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APA 6 Citation

Greppi, C. (2020). L’antifascismo non serve più a niente ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3461257/lantifascismo-non-serve-pi-a-niente-pdf (Original work published 2020)

Chicago Citation

Greppi, Carlo. (2020) 2020. L’antifascismo Non Serve Più a Niente. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3461257/lantifascismo-non-serve-pi-a-niente-pdf.

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Greppi, C. (2020) L’antifascismo non serve più a niente. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3461257/lantifascismo-non-serve-pi-a-niente-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Greppi, Carlo. L’antifascismo Non Serve Più a Niente. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2020. Web. 15 Oct. 2022.