III. Il miracolo economico
1. La societĂ nellâetĂ dâoro del capitalismo
1.1. La rivoluzione dei consumi
Aveva aspettato fuori per ore. Nel quartiere non si parlava dâaltro da mesi. La folla era tanta e la polizia era intervenuta per stabilire turni dâentrata, qualcuno si era anche sentito male nella calca. Ma alla fine ce lâaveva fatta ed era entrata. Ne valeva la pena! I giornali lâavevano detto, câera «il ben di Dio di ogni paese», pinne di pescecane, nidi di rondine, mozzarella napoletana, e poi scatole e scatolette, carne avvolta in una specie di pellicola trasparente, un reparto intero di cibi «sotto zero», congelati (che fortuna avere comprato il frigorifero!), e anche cibi «normali» a prezzi molto convenienti. I commenti dei clienti erano entusiastici. Una vecchia signora fermĂČ un dirigente: «I miei parenti in America mi hanno parlato per anni di questi negozi favolosi... ho pregato per anni di poterne vedere uno e di farci la spesa prima di morire... mi creda, questa Ăš la risposta a tutte le mie preghiere». E un tizio a un altro: «La prossima volta che vai a votare, semplicemente ricordati di questo, in Russia non hanno niente del genere». Era davvero come avere lâAmerica in Italia. Non avrebbe mai dimenticato la sua prima visita al «supermercato»1.
Se i decenni tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale sono quelli della «grande trasformazione», gli anni 1945-73 sono lâ«etĂ dâoro» del capitalismo2. Il reddito pro capite cresce in tutto il mondo del 2,9 per cento e ancora di piĂč crescono i redditi nazionali e le esportazioni. Le migliori performance si hanno in Europa occidentale (oltre che in paesi asiatici come Giappone, Corea del Sud e Taiwan). Dal 1950 al 1973 la distanza in termini di ricchezza tra il leader mondiale, gli Stati Uniti, e lâEuropa occidentale si riduce notevolmente: la rincorsa (catch-up) Ăš cominciata.
Le cause di questa fortunata situazione sono molteplici, alcune contingenti, altre strutturali. In primo luogo operano la liberalizzazione dei mercati e lâintegrazione dei sistemi produttivi in un unico spazio economico, sovrinteso da istituzioni internazionali e saldamente ancorato al dollaro, che innescano un flusso di merci e capitali senza precedenti. Il ruolo degli Stati Uniti in questo processo non puĂČ essere sottovalutato, per la loro lungimirante leadership, per gli aiuti concessi allâEuropa in crisi dopo la guerra, per lâattiva diffusione di nuovi modelli di produzione (e consumo), per la spinta allâintegrazione politico-economica occidentale. Da questo punto di vista, studiosi come Maddison hanno sostenuto che la divisione in blocchi politici contrapposti Ăš stata persino funzionale allo sviluppo economico: ha disinnescato pericolose tensioni fra singoli Stati confinanti, proiettandole in un disegno piĂč vasto, e ha provocato in funzione antisovietica una maggiore cooperazione e unâintegrazione a tappe forzate dei paesi interni al blocco atlantico (di cui un momento fondamentale Ăš stata la costituzione del Mercato Comune)3.
Altrettanto importante Ăš la politica economica coscientemente perseguita per promuovere lo sviluppo allâinterno dei singoli paesi e anche a livello internazionale (ad esempio, verso i paesi da poco liberati dal dominio coloniale). Lâassunto di queste politiche Ăš chiaro: lo sviluppo consiste essenzialmente in una crescita economica di tipo quantitativo, che porta a un piĂč alto standard di consumi, migliora la qualitĂ della vita, diminuisce la disoccupazione e la conflittualitĂ sociale; pertanto gli obiettivi prioritari sono gli investimenti in capitale fisso e quelli in capitale umano (istruzione, formazione professionale)4.
Un terzo elemento Ăš dato dagli insospettati spazi di crescita economica e di mutamento che si aprono con la ricostruzione. La tipica resistenza al cambiamento opposta dalle istituzioni sociali e dalle stesse forme culturali viene superata dâun colpo per via della guerra, che spazza via vetuste istituzioni, caste privilegiate, ricche corporazioni, antiche famiglie, insieme a molti poveri abitanti. In paesi con regimi compromessi si aprono ampie falle nella classe dirigente (non sarĂ perĂČ il totale rinnovamento che molti sperano). Persino i danni materiali, in certi frangenti, si rivelano un incentivo positivo. Non Ăš un caso che i paesi che registrano le migliori performance economiche siano quelli usciti sconfitti e maggiormente danneggiati dal conflitto: Giappone, Germania e Italia. E questo ci ricorda le lucide parole di Hannah Arendt sulla distruzione come stimolo alla ricostruzione e allâaccumulo di nuova ricchezza; essa infatti porta a
unâesplosione di prosperitĂ che, come la Germania postbellica illustra, Ăš alimentata non dallâabbondanza delle materie prime o di alcunchĂ© di stabile e dato, ma dallo stesso processo di produzione e di consumo. Nelle condizioni moderne, non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina perchĂ© la durata degli oggetti conservati Ăš il maggior impedimento al processo di ricambio, la cui costante accelerazione Ăš la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo5.
Ecco allora che Italia e Germania condividono unâeccezionale crescita media del 5 per cento dal 1950 al 1973, ben al di sopra della media europea. LâItalia, che ancora nel 1950 Ăš lâultima delle nazioni europee con i suoi 3500 dollari a testa (contro i 6900 della Gran Bretagna, i 5200 della Francia e i 3900 dellâancora sofferente Germania, senza contare i piccoli Stati nordeuropei, tradizionalmente molto prosperi), nel 1973 ha triplicato il suo reddito pro capite: 10.600 dollari. Ora Ăš molto piĂč vicina alla media europea e alle nazioni principali (12.000 dollari Gran Bretagna e Germania, 13.000 Francia)6. Ora ha finalmente un senso il paragone con i ricchi vicini e ci sono le premesse economiche per un profondo cambiamento nei consumi.
Ma non Ăš tutto. Come era avvenuto a fine Ottocento, anche a metĂ del XX secolo un elemento fondamentale per comprendere le dinamiche che innescano profondi cambiamenti nei consumi Ăš lâaspetto demografico. La generazione del dopoguerra dĂ vita al baby boom, un piccolo sconvolgimento demografico, che porta a un rapido aumento della popolazione (in Italia ci sono 47,5 milioni di abitanti nel 1951, oltre 54 milioni nel 1971) e soprattutto a una crescita delle classi dâetĂ piĂč giovani, bambini e ragazzi. In effetti, come ci avverte Massimo Livi Bacci, siamo di fronte a una nuova fase nellâandamento demografico novecentesco: con la Seconda guerra mondiale si chiude un primo periodo, caratterizzato dallâalta mortalitĂ seguita al primo conflitto, dalla fine delle grandi emigrazioni transoceaniche e dallâisolamento demografico. Questa seconda fase vede invece un incremento demografico, complice la crescita economica dei paesi occidentali e la ripresa delle migrazioni interne e internazionali, soprattutto intereuropee; si chiuderĂ agli inizi degli anni Settanta, con una nuova stagnazione demografica7. Per intanto, nel quarto di secolo seguito alla Seconda guerra mondiale, la mortalitĂ continua a declinare, e per un paio di decenni il tasso di fertilitĂ inverte la sua costante discesa8. Questo non solo consente un aumento della popolazione, ma segna anche un significativo incremento nella speranza di vita (altro indicatore dei migliorati standard di vita): nel 1970 in Italia si vive 72,1 anni, appena meno che in Francia, ma piĂč che in Germania e Gran Bretagna â mentre per tutto il secolo la speranza di vita in Italia era stata decisamente piĂč bassa, rispecchiando fedelmente il divario nelle condizioni socio-economiche9. Ed Ăš significativo notare come il miglioramento risulti piĂč marcato per le donne che per gli uomini10.
Lâaltro importante fenomeno demografico, come detto, Ăš la ripresa dei flussi migratori. Certo, non si tratta piĂč delle imponenti migrazioni di inizio secolo: ora ci si sposta dal sud al nord, dallâEuropa meridionale a quella settentrionale (Germania in testa) e anche, in paesi con una frattura economica interna come Italia e Spagna, dalle regioni piĂč povere a quelle piĂč industrializzate. Lâemigrazione infatti Ăš indotta dal boom industriale che, nella sola Italia, spinge 1,7 milioni di persone ad abbandonare le campagne per cercare occupazione nelle fabbriche o nel piccolo commercio (lâattivitĂ agricola precipita nel giro di una generazione: in ventâanni gli agricoltori calano da 8 a 3 milioni)11. Tutto ciĂČ comporta un mutamento nel profilo demografico dellâitaliano medio, che ha unâimmediata ricaduta sui consumi. La presenza di giovani e di nuove coppie che si sposano, hanno figli, creano una famiglia nucleare, vivono in luoghi geografici lontani dalla famiglia originaria e si spostano con facilitĂ , dĂ vita a una forte domanda di beni di consumo. Ci sono dunque le premesse sociali per un mutamento nella struttura dei consumi.
Non Ăš ancora tutto. Inestricabilmente legato ai fattori economici e sociali, câĂš il cambiamento culturale. Gli anziani dellâepoca si guardavano intorno perplessi. Migliaia di persone avevano abbandonato il consueto orizzonte rurale per venire a contatto di colpo con inusuali spazi geografici e una cultura urbana molto differente; allâinterno della famiglia, iniziavano a ridefinirsi i ruoli, in base al genere e allâetĂ ; lâimprovvisa affluenza rimescolava gli antichi confini di classe e di status; le tradizionali istituzioni erano sempre meno fonte di legittimazione e riferimento a confronto dei nuovi mass media; strani oggetti di consumo apparivano ogni giorno e il significato del loro uso era mutevole. Ma quello che dava piĂč fastidio era che, dopo i duri anni della ricostruzione allâinsegna del risparmio, si era diffusa come una malattia, una febbre, una diffusa aspettativa, per cui ora tutti erano convinti che la loro condizione potesse migliorare, che potevano avere unâesistenza piĂč prospera, una vita piena di «cose». Era un sogno che veniva da lontano, dallâAmerica; era come in un racconto di Moravia, dove la famiglia di un funzionario a riposo un giorno scopre in un negozio una merce nuova:
Ora la merce la vedevano chiaramente: felicitĂ . I tre Milone, come tutta la gente di questo mondo, avevano sempre sentito parlare di questa merce ma non lâavevano mai vista.
Se ne discorreva in giro come di qualche cosa di molto raro, di una raritĂ addirittura leggendaria, quasi dubitando che esistesse realmente. Ă vero che le riviste in rotocalco pubblicavano ogni tanto lunghi articoli, corredati di fotografie, in cui si diceva che la felicitĂ agli Stati Uniti era, se non comune, per lo meno accessibile; ma si sa, lâAmerica Ăš lontana e i giornalisti ne inventano tante. [...]
Nelle vetrine [...] le felicitĂ , come tante uova pasquali, si presentavano in ordine di grandezza, per tutte le borse. Ce nâerano di piccole, ce nâerano di mezzane, ce nâerano di gigantesche, forse finte, messe lĂŹ per rĂ©clame. Ogni felicitĂ aveva il suo bravo cartellino col prezzo scritto in elegante corsivo. [...]
«Eh, perché», disse il vecchio con stizza, «dopo anni e anni che ci dicono che in Italia non câĂš la felicitĂ , che ne manchiamo, che costa troppo per importarla... ecco che tutto ad un tratto aprono addirittura un negozio dove non si vende altro. [...] ...ma sai cosa vuol dire importare? Vuol dire spendere valuta pregiata... quella valuta che dovrebbe servirci a comprare il grano... il Paese crepa di fame... abbiamo bisogno di grano... nossignore... quei pochi dollari che riusciamo a racimolare li spendiamo per comprare questa roba, questa felicitĂ ! [...]
«Ma anche di felicitĂ câĂš bisogno», osservĂČ la figlia.
«à una superfluità », rispose il vecchio. «Prima di tutto bisogna pensare a mangiare... prima il pane, poi la felicità ... ma già questo Ú il Paese del controsenso: prima la felicità e poi il pane...»12.
NellâItalia del miracolo economico era venuta lâora di «comprare» la felicitĂ . Magari per via della diffusione di un modello di benessere individualistico, dove il consumo privato Ăš il vero segno del successo e dellâintegrazione sociale (come avveniva appunto in America); o magari perchĂ© le premesse culturali di un consumo di massa erano state giĂ poste durante il fascismo, senza che ci fossero i mezzi per il loro effettivo appagamento.
Ma, piĂč prosaicamente, cosa comprano gli italiani? Si puĂČ parlare di miracolo rispetto ai consumi? Non câĂš dubbio. Basta una cifra a sintetizzare la situazione: i consumi privati pro capite impiegano sessantasei anni per raddoppiare (dal 1890 al 1956), ma bastano solo altri quattordici anni per raddoppiare nuovamente13. In termini complessivi, la spesa per i consumi era di oltre 10.000 miliardi nel 1950, sfiora i 30.000 nel 1970: un salto enorme, che consente ai consumi di crescere a ritmi record, pur restando al di sotto di quelli di reddito nazionale lordo e investimenti (fatto, questo, che riduce la propensione al consumo e favorisce lâaccumulazione e lo sviluppo)14. E tutto ciĂČ sullo sfondo di prezzi stabili e di aumenti nella produttivitĂ che consentono, insieme, un incremento nel potere di acquisto dei consumatori e nei profitti industriali.
Allâinterno di questa crescita dei consumi, assistiamo a uno sconvolgimento degli schemi dominanti. Per la prima volta, le spese alimentari non assorbono piĂč la gran parte delle risorse disponibili e scendono ben al di sotto della metĂ (nel 1970 sono il 44 per cento del totale). Ma soprattutto la dieta cambia profondamente. In sostanza, salgono un poâ tutti i cibi, con significative eccezioni: scendono gli alimenti «poveri», come il risone, i legumi secchi (a favore di quelli freschi), il lardo e lo strutto (a favore di burro e olio), la carne ovina e caprina; salgono, anzi esplodono, i consumi di alimenti «ricchi», prima troppo costosi e riservati alle Ă©lite. Rispetto agli anni Trenta, raddoppiano tutti i prodotti caseari (latte e formaggio) e le uova; cresce il consumo di vino e ancor piĂč quello di birra, ma soprattutto salgono tre prodotti simbolo: la carne bovina, lo zucchero e il caffĂš. Il consumatore medio del 1970 ha finalmente davanti a sĂ© unâalimentazione ricca e variata. Lascia da parte i miseri ingredienti del passato, ma non per questo rinuncia ad alcuni alimenti che caratterizzano la tradizione culinaria italiana e consuma in un anno 173 chili di frumento e 47 chili di pomodori. Se sono abbastanza presenti sulla sua tavola legumi freschi e patate (rispettivamente, 10 e 45 chili), egli si butta decisamente sulla carne: 36 chili allâanno, di cui 25 bovina (erano 8-9 nel fascismo) e 11 suina, accompagnati da 11 chili di formaggio, 11 di uova e 67 litri di latte (poco pesce: 7 chili annui). Tutte cifre semplicemente impensabili fino a un paio di decenni prima. Ha poi scoperto la passione dei condimenti, tanto da usare abbondantemente olio (11 litri dâoliva e quasi altrettanti della novitĂ degli oli di semi) e burro (2 chili). Il tutto accompagnato da 114 litri di vino, sempre la bevanda nazionale, poichĂ© la birra arriva a un decimo. Ma soprattutto ha dato sfogo alla sua passione per il caffĂš e i dolci: la tazzina fa consumare 3 chili di caffĂš allâanno (non si raggiungeva il chilo nel fascismo e il mezzo chilo a inizio secolo) e lo zucchero arriva a 28 chili annui (quattro volte piĂč che durante il regime, dieci volte piĂč che nel primo Novecento) (Tab. 1). Ă un consumatore che apprezza una dieta ricca e variata, con molti alimenti dolci e calorici, e con un alto consumo di prodotti freschi. Insomma, una vera e propria trasposizione alimentare dellâabbondanza e dello sfrenato ottimismo degli anni del miracolo economico.
Ma cosa fa il nostro consumatore dei soldi restanti? La percentuale di spesa per il vestiario e le calzature resta intorno al 9 per cento, e un andamento simile hanno le spese per la casa, intorno al 12 per cento, del totale. In crescita troviamo invece gli «altri» consumi: i trasporti e le comunicazioni (10 per cento), i beni durevoli (6 per cento), le spese per igiene e salute (8 per cento) e altri beni e servizi (11 per cento). Ecco qui un altro scorcio della crescita. La triade dei consumi di base appare for...