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Prima lezione di diritto penale
Giovanni Fiandaca
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Prima lezione di diritto penale
Giovanni Fiandaca
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Che cosa va punito? In che modo? Con quali obiettivi? Come dobbiamo intendere la responsabilitĂ e la colpa? Questioni come queste sono strettamente correlate ai mutevoli contesti politico-ideologici, alle tendenze culturali, all'evoluzione del pensiero filosofico e anche ai paradigmi elaborati dalle scienze.Il libro offre un quadro dei temi e dei problemi di fondo del diritto penale contemporaneo, sottolineando il rapporto di forte tensione, e in alcuni casi di contraddizione, tra i principi che dovrebbero conformare un diritto penale liberaldemocratico degno di questo nome e il concreto diritto penale che viene applicato nei tribunali.
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Thema
JuraThema
RechtsgeschichteI.
Tra punizione e riparazione
Un punto di partenza è pacifico: senza la pena, non può esservi diritto penale. BenchĂŠ essa costituisca un elemento identificativo della materia penalistica, ci si imbatte sin da subito in un dato che può apparire paradossale: la pena rimane infatti unâentitĂ problematica, che continua a sollevare un insieme di questioni controverse relative alla sua definizione concettuale, al suo significato, ai suoi scopi e ai suoi effetti. Ecco, dunque, il paradosso: se possiamo tutti convenire su di una definizione minimale di pena come reazione giuridica a carattere piĂš o meno spiacevole conseguente alla commissione di un reato, la diversitĂ dei punti di vista comincia ad emergere giĂ al momento di specificare tutte le caratteristiche che tale reazione deve presentare per poter essere davvero definita sanzione penale rispetto a sanzioni di altra natura.
Il discorso, peraltro, si complica ulteriormente se trascendiamo il versante del diritto e allarghiamo lâorizzonte di riflessione sino a includervi lâapproccio filosofico e lâapproccio sociologico al tema della punizione â questâultimo considerato nella molteplicitĂ delle sue relazioni con la societĂ e i contesti culturali di riferimento. Ma, comâè intuibile, da questa estensione dello sguardo al di lĂ dei confini giuridici è possibile trarre utili indicazioni e spunti per affrontare, con maggiore consapevolezza, il problema della pena anche sotto la specifica angolazione del diritto penale.
A dar conto della complessitĂ e polivalenza della punizione, quale fenomeno sociale e giuridico, bene si presta il concetto di ÂŤsovradeterminazioneÂť: concetto utilizzato, nellâambito delle scienze sociali, per etichettare quei fenomeni che presentano appunto la caratteristica di avere piĂš significati e di svolgere piĂš funzioni, per cui la loro comprensione richiede un approccio conoscitivo di tipo multidisciplinare1.
Anticipando invero con grande luciditĂ una tale prospettiva dâapproccio, il filosofo Friedrich Nietzsche giĂ sul finire del XIX secolo rilevava: ÂŤil concetto di pena non presenta piĂš, in realtĂ , [...] un unico significato, bensĂŹ unâintera sintesi di significati [...]. Ă oggi impossibile dire esattamente per quale ragione si addiviene alla pena: tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storiaÂť2.
Se tentassimo sin da ora di passare in rassegna i significati che la punizione è andata assumendo nella sua lunga storia, potremmo dire che essa ha potuto al tempo stesso indicare: un mezzo di repressione e/o prevenzione del crimine; unâaffermazione di giustizia; un mezzo per comunicare disapprovazione; unâespressione di sensibilitĂ popolare; un fattore di educazione collettiva; una forma di esercizio del potere o uno strumento di dominio di classe.
Ma vi è di piĂš. La pena rimane polisemica e polivalente allâinterno dello stesso discorso giuridico, come è dimostrato dal fatto che â lo vedremo piĂš avanti â anche tra i giuristi è tendenzialmente dominante una concezione cosiddetta âpolifunzionaleâ, a sua volta, peraltro, articolata secondo differenti versioni. Ciò contribuisce a spiegare come, nella stessa prassi giudiziaria contemporanea, coesistano e si sovrappongano piĂš modelli di punizione, riconducibili a matrici storiche e culturali differenti. SicchĂŠ potremmo dire, in termini metaforici, che la pena odierna somiglia a un edificio piĂš volte ristrutturato e con corpi aggiunti, in cui le parti nuove, pur sovrapponendosi a quelle vecchie, lasciano ancora intravedere i segni di stili preesistenti.
1. Significato e scopi della pena
Secondo una definizione essenziale, vicina al senso comune, la pena â come giĂ detto â consiste in una sanzione che comporta sofferenza, o comunque conseguenze spiacevoli per lâautore di un reato. Questo carattere di afflittivitĂ sottintende, tradizionalmente, un messaggio: cioè che lâautore merita una punizione perchĂŠ ha compiuto unâazione illecita, unâazione che non doveva essere compiuta. In questo senso, esiste un nesso di corrispondenza tra il âmaleâ insito nella pena e il âmaleâ derivante dal reato (malum actionis propter malum passionis): la sofferenza inferta con la sanzione retribuisce o compensa il danno provocato dallâillecito penale. Non a caso, lâafflittivitĂ e la retributivitĂ sono considerate, dalla stessa Corte costituzionale, ÂŤcondizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere taleÂť (sent. n. 313/1990).
Fin qui lâessenza della pena sul piano concettuale: non abbiamo ancora toccato la dibattuta questione dei suoi possibili scopi. Ma è corretto tenere separati i due piani? Come non di rado avviene nellâambito del dibattito filosofico-giuridico, esistono in proposito posizioni diversificate: secondo alcuni, lo scopo cui è destinata incide necessariamente sul concetto di pena; secondo altri, âsignificatoâ e âscopoâ si collocano su versanti distinguibili3.
Questa alternativa solleva questioni concettuali piuttosto sofisticate, che però rischiano di farci perdere nel cielo dellâastrazione teorica. In realtĂ , anche allo scopo di distinguere la pena da sanzioni che le somigliano, è preferibile evitare una netta cesura tra essenza e finalitĂ della punizione: per determinare lâambito di ciò che può essere inteso come pena in senso giuridico-penale, occorre infatti tenere conto del complessivo contesto ordinamentale in cui la misura sanzionatoria in questione si colloca; e di tale contesto fanno parte, senza dubbio, gli obiettivi finalistici cui la misura stessa è destinata.
Basti un solo esempio. Si ipotizzi che una persona gravemente ammalata di mente compia, a causa della sua malattia, un omicidio e che, accertatane giudiziariamente la pericolositĂ sociale in termini di probabilitĂ di commettere in futuro azioni violente analoghe (art. 203 del codice penale), questa stessa persona venga sottoposta a una âmisura di sicurezzaâ privativa (come la pena detentiva) della libertĂ personale, ma incentrata su di un trattamento terapeutico volto a migliorarne la salute psichica. Orbene, pur senza conoscere in dettaglio la disciplina legislativa delle misure di sicurezza (per la quale il lettore interessato può consultare un manuale universitario di diritto penale), anche un non addetto ai lavori potrebbe facilmente rilevare che la misura terapeutica di cui allâesempio, nella misura in cui ha un carattere coercitivo, si risolve di fatto in una forma di detenzione che limita la libertĂ personale del destinatario: sicchĂŠ si tratterebbe, nella sostanza, pur sempre di una sorta di pena.
In effetti, in questa assimilazione câè una parte di veritĂ . Tuttavia, la maggioranza dei sistemi penali contemporanei continua a mantenere ferma â a torto o a ragione â la distinzione tra pene in senso stretto, da un lato, e misure di sicurezza (considerate quale âsecondo binarioâ del sistema punitivo), dallâaltro: e ciò soprattutto in ragione della prevalente finalitĂ sanzionatoria delle prime e del prevalente scopo curativo-riabilitativo delle seconde. Che poi questa diversa finalitĂ âteoricaâ riesca a tradursi in una funzione realmente differente delle misure di sicurezza, è una questione a tuttâoggi non poco controversa, che in questo piccolo libro non può essere approfondita4.
Ma la distinzione tra scopi (o fini) perseguiti e funzioni reali della sanzione penale va, a ben vedere, mantenuta anche quando si discute delle pene in senso stretto. E ciò per una ragione, forse, intuibile: è scontato che tra le finalitĂ potenzialmente assegnabili alle pene sul piano deontologico o del dover essere, e le funzioni concrete da esse svolte (o non svolte) sul piano empirico, si verifichi un divario piĂš o meno ampio. Ad esempio, mentre la finalitĂ che la Costituzione italiana espressamente assegna alle pene consiste nella rieducazione del condannato, la pena carceraria â come, purtroppo, è ben noto â nella maggior parte dei casi, lungi dal produrre effetti risocializzanti, cagiona una ulteriore desocializzazione dei detenuti.
Due ulteriori avvertenze. Per un verso, non bisogna trascurare che la risposta relativa al problema del senso e degli scopi della punizione è in qualche modo condizionata dalle concrete tipologie di pena che vengono in rilievo: ad esempio, mentre non è del tutto escluso in partenza che la pena detentiva possa in qualche caso incidere positivamente sulla personalità del detenuto, assai meno sensato sarebbe pretendere di perseguire una finalità rieducativa con una pena a carattere pecuniario o una confisca di beni, in sÊ prive di attitudine trattamentale.
Per altro verso, e nel contempo, su significato e finalitĂ della sanzione penale può incidere il tipo di reato commesso: se il pathos drammatizzante di una punizione in chiave retributiva può a tuttâoggi mantenere una qualche plausibilitĂ in relazione ad un omicidio volontario o a un grave stupro, la pena da infliggere ad esempio allâautore di un reato di abuso edilizio non potrebbe che tendere a un piĂš neutrale effetto dissuasivo-preventivo (o riparatorio dellâinteresse urbanistico leso).
2. Le teorie sugli scopi della pena
Non è questa la sede per ripercorrere in maniera puntuale e dettagliata il risalente e amplissimo dibattito sugli scopi della pena. Dibattito che, nel corso dei decenni piĂš vicini a noi, si è andato arricchendo di sviluppi via via piĂš sofisticati ad opera della dottrina penalistica a livello internazionale, senza che tuttavia ne siano nel complesso derivate acquisizioni conoscitive radicalmente nuove o implicazioni pratiche cosĂŹ rilevanti da determinare vere rivoluzioni nel concreto funzionamento dei sistemi penali. Anzi, ne traiamo, da un lato, la conferma della difficoltĂ oggettiva di innovare profondamente la logica punitiva anche a livello di teorizzazione e, dallâaltro, la riprova della distanza che separa la teoria dalla realtĂ effettuale del punire.
In luogo di una ricostruzione completa ed esaustiva, tenteremo un consuntivo critico per punti essenziali dei paradigmi punitivi classici, accennando nel contempo ad alcuni approcci teorici piĂš recenti meritevoli di essere menzionati per importanza scientifica o potenziale valenza riformistica. Nel complesso, a prescindere dal loro carattere piĂš risalente nel tempo o piĂš recente, si tratta di dottrine di legittimazione o giustificazione della pena, vale a dire di punti di vista che prospettano ragioni atte a spiegare perchĂŠ il ricorso alla punizione sia da considerare legittimo o giustificato in base a criteri di giustizia e/o di utilitĂ sociale. In questo senso, le dottrine in questione poggiano piĂš su argomenti normativo-valutativi che non su acquisizioni scientifiche dotate di fondamento empirico relative a come il sistema punitivo funziona nella realtĂ effettuale.
In mancanza di basi scientifiche certe, la scelta di una tra le teorie concorrenti finisce inevitabilmente col dipendere da preferenze culturali e ideologiche e, persino, da atteggiamenti emotivi che rimandano alla mutevole sensibilitĂ collettiva e individuale. Se cosĂŹ è, non può allora sorprendere che lâalterna preferenza storicamente accordata ai diversi paradigmi punitivi (retribuzione, prevenzione generale o rieducazione ecc.) abbia potuto risentire del contingente clima politico e degli orientamenti di volta in volta dominanti nella pubbl...