Dante
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Dante

Il suono dell'invisibile

Carlo Sini

  1. 146 páginas
  2. Italian
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Dante

Il suono dell'invisibile

Carlo Sini

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Uno dei maestri della filosofia italiana legge Dante. Il libro raccoglie tre saggi su tre luoghi esemplari delle tre Cantiche della Commedia, e si chiude con una riflessione di rara profondità sulla tecnica poetica del "Paradiso". Carlo Sini mostra in queste pagine come in Dante si vada costruendo un inedito, circolare rimando tra il mondo degli affetti privati, il destino politico di Firenze e dell'impero, l'affresco generale della storia umana e della salvezza che la attende. Assistiamo così alla fondazione di una nuova identità – psicologica, etica, politica – dell'Occidente. Un'identità che vediamo oggi attraversare profondissime trasformazioni, non prive di una enigmatica fedeltà a quanto Dante vide e cantò nel suo capolavoro.

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Información

Editorial
Orthotes
Año
2019
ISBN
9788893141888
Il suono dell’invisibile
La parola poetica del Paradiso
Come intendere la parola poetica del Paradiso è una questione antica. Non ho bisogno di ricordare quante e quanto diverse, o contrastanti, posizioni critiche si sono succedute in proposito. Se stiamo a una tesi ancora oggi diffusa, l’Inferno sarebbe la cantica più poeticamente riuscita; il Purgatorio la seguirebbe da vicino; il Paradiso invece mostrerebbe una generale diminuzione della forza poetica. Qui l’elemento dottrinario, la filosofia e la teologia con le loro componenti politiche e morali, occuperebbero uno spazio sempre più rilevante, a detrimento della pura ispirazione ed espressione poetiche. Da tempo questa tesi è stata validamente contestata. Vorrei addurre a mia volta ulteriori argomenti critici per avvalorare un diverso giudizio, soprattutto suggerendo un lettura che tenga conto di un generale mutamento di prospettiva, ispirato a quel suono dell’invisibile di cui qui si tenterà di far questione.
La prima cosa che chiedo è di avviare una sorta di esperimento mentale, volto a rievocare rapidamente gli scenari visivi che si succedono nel Paradiso. Si tratta di scenari spesso liquidati dai commentatori in poche battute, come semplice cornice o sfondo della vicenda poeticonarrativa. Ma supponiamo invece di voler tentare una traduzione del Paradiso in un film, o in una trasmissione televisiva a puntate: ecco che gli scenari acquistano una pregnanza e una centralità del tutto particolari. È vero che Dante non poteva immaginare nulla di simile; al più si poteva supporre, al tempo suo, di accompagnare il testo con illustrazioni, come poi fece nell’Ottocento Gustave Doré, o nel nostro tempo Salvator Dalì. Però anche Dante, come diremo in seguito, dovette necessariamente misurarsi con un problema straordinariamente complesso, nel quale gli scenari visivi, e non solo visivi, rappresentavano un elemento cospicuo. Ma anzitutto è un fatto che il Paradiso è la cantica più difficile da rendere in forma visiva, per esempio su un silenzioso supporto a due dimensioni come la tela di un quadro. A dire il vero non basterebbe neppure un film per rendere visivamente in modo efficace il Paradiso dantesco: quanto meno ci vorrebbe un film accompagnato da un gran numero di effetti speciali, magari un film costruito in gran parte al computer, come oggi siamo in grado di fare. Immaginiamo dunque di essere chiamati a progettare una simile traduzione della terza cantica e sulla base di questa supposizione puramente teorica ripercorriamo ora i principali scenari che si presentano agli occhi della nostra immaginazione quando leggiamo il Paradiso.
Il primo scenario concerne ovviamente la salita del poeta e di Beatrice dalla montagna del Purgatorio al cielo della Luna. Beatrice si volge sul sinistro fianco (cosa importante per stabilire le coordinate geografiche di questa salita), fissa il Sole e, così facendo, induce in Dante, come effetto di un arco riflesso, un analogo atteggiamento e un’analoga postura. Dante fissa il Sole «oltre nostr’uso», cioè al di là delle capacità umane: non farà che ripeterlo per tutta la cantica; per tutto il Paradiso, infatti, si assiste a un continuo transumanare e sulla natura e il significato di questo fatto il lettore è più volte invitato a riflettere. Alla riflessione si accompagna talora un ammonimento, un invito alla prudenza, che si potrebbe rendere così: se non ce la fai, se non sei da tanto, se non ti è possibile metterti all’altezza della comprensione e della visione richiesti dal transumanare nelle sue varie figure (quelle figure che «significar per verba non si poria»), allora lascia perdere: ciò che qui è evocato e descritto non è scritto per te.
Nella salita al cielo della Luna Dante presenta dapprima una descrizione della visione della terra dall’alto. La terra si presenta per metà illuminata (l’emisfero marino con la montagna del Purgatorio) e per metà al buio (l’emisfero delle terre emerse), cioè contemporaneamente bianca e nera: una immagine notevolmente audace per il comune lettore contemporaneo del poeta. Sappiamo che la salita cade nell’ora del mezzogiorno e che siamo nel giorno dell’equinozio di primavera, quando si formano tre croci nella intersezione dei quattro cerchi (variamente interpretati, ma per lo più riferiti all’equatore, all’eclittica, al coluro degli equinozi, all’orizzonte). Questa salita avviene nel segno che Dante ha molto caro, poiché è appunto il suo: il segno dell’Ariete.
Tutto questo è notizia, nutrita di molta erudizione. Ma noi cerchiamo invece di guardare davvero la scena: essa mostra una salita nella luce, una luce che si fa sempre più intensa. Il cielo si incendia della luce del sole, che si estende come lago o fiume. Dice Dante: è come se un secondo Sole si fosse aggiunto al primo per noi consueto. Un Sole che è «com’ferro che bogliente esce dal fuoco». La luce, cioè, sfavilla, lancia faville luminose da ogni parte. Questa immagine dell’intensificarsi della luce con la salita, già di per sé notevole e più volte ripresa nel corso della cantica, è però subito accompagnata dalla «novità del suono». Come se le due cose fossero una. Anzi, mi correggo: poiché lo sono nel loro perfetto corrispondersi ed è così che dobbiamo sforzarci di immaginare la scena: un crescendo di luce e di suono. Dante lo dice espressamente. Ciò che lo stupisce sono due fenomeni tra loro strettamente collegati: «la novità del suono e il grande lume». Non bisogna lasciarsi sfuggire che, dei due, viene prima il suono. Nel contempo Dante è attratto nel cielo della Luna dalla forza del movimento. Quindi, in realtà, gli elementi in gioco sono tre: il suono, la luce, il movimento. Suono degli occhi e luce delle orecchie, direbbe Marius Schneider, ricordandoci come nel medioevo queste percezioni globali e unitarie (divenute per noi soltanto metaforiche e immaginarie) fossero al contrario comuni, per esempio nella costruzione e ricezione delle figure musicali dei chiostri. Ci torneremo. Il movimento gioca qui come una componente di ciò che i Greci chiamavano mousiké: unità delle arti dinamiche, musica, poesia e danza, con l’annessa luminosità delle loro incorporazioni e del loro gioco di reciproci rispecchiamenti. Dante vi allude espressamente: «Quando la rota che tu sempiterni / desiderato a sé mi fece atteso / con l’armonia che temperi e discerni…»: tutto l’universo ama Dio e gli si protende girando intorno al punto luminoso che lo raffigura e che diffonde ovunque la musicale armonia.
Si è molto discusso se Dante esponga qui una teoria dell’armonia dei cieli di matrice pitagorica. Non avrei dubbi in proposito. Dante sta disegnando una visione dell’universo che ha origini antichissime e che è mediata, per gli europei del medioevo, dal Timeo di Platone: ne avremo tra breve una prova. Per parte mia ricorderei i versi 91-93 del trentesimo del Purgatorio, che raramente vedo citati a questo proposito dagli interpreti. Qui Dante descrive l’armonia delle sfere, cioè l’unità pitagorica di suono, luce e movimento, e scrive: «così fui sanza lacrime e sospiri / anzi ‘l cantar di quei che notan sempre / dietro a le note de li eterni giri». Si tratta senza dubbio degli angeli o spiriti che, come in Platone, conducono i cieli. Il che non toglie che vi siano delle differenze rispetto alla visione pagana, di cui diremo.
Veniamo ora a un secondo scenario: il cielo della Luna. Qui la prima notazione interessante è che l’«eterna margarita», cioè questo cielo e questo astro ricevono il poeta e Beatrice «com’acqua recepe raggio di luce permanendo unita». Non accade dunque alcuna trasformazione nel corpo dell’astro. I due penetrano come un raggio di luce attraversa l’acqua, che la lascia alla vista appunto com’era prima, che non la smuove. Perciò i due viandanti dei cieli si trovano avvolti da una nube «lucida, spessa, solida e pulita»; pulita perché non ha macchie (donde la celebre lezione che Beatrice impartirà sulle solo apparenti macchie della Luna). Ora, come potremmo rendere questo corpo lucido, solido, pulito e nondimeno trasparente? questo corpo attraversato dalla luce e non discriminato da essa? Ecco un problema che esigerebbe soluzioni tecnicamente assai complicate.
Nel cielo della Luna compaiono le prime anime del Paradiso; si sa che queste e quelle del cielo di Mercurio, ma con una differenza tra loro, conservano qualche traccia delle sembianze umane; poi non accadrà più. Qui invece si scorge ancora qualcosa della fisionomia del viso. Tuttavia, dicevamo, in maniera diversa: nella Luna gli spiriti sono «evanescenti»; in Mercurio sono «balenanti» (e nel balenio del fuoco di quando in quando compare per un attimo il volto; per esempio la fattezza umana di Giustiniano).
Ora, come sappiamo, Dante, di fronte allo «specchiato sembiante» di queste anime (cioè di queste visioni che danno l’impressione di essere figure riflesse in uno specchio), cade nell’errore contrario di Narciso, che prende la sua immagine riflessa come se fosse una realtà; Dante prende il volto di Piccarda come se fosse un’immagine. Si gira e naturalmente non trova nulla e allora torna all’immagine che gli era data «quale per vetri trasparenti e tersi». Questa è la scena nel suo insieme. Ma bisogna ancora ricordare che, quando Piccarda mostra a Dante l’anima della grande Costanza, aggiunge che essa «s’accende di tutto il lume della sfera nostra». C’è quindi in queste anime un essere più e un essere meno partecipi della luminosità del cielo della Luna, a seconda della altezza della loro visione di Dio. Se dovessimo quindi programmare una realizzazione visiva di questa sfera «acquatica», dovremmo immaginarla percorsa, senza essere partita, dalle luminosità crescenti, sino a essere pari alla luminosità della Luna stessa, e dalle luminosità decrescenti degli spiriti scesi a mostrarsi.
Tutti ricordiamo la sublime conclusione poetica del canto: «Così parlommi, e poi cominciò “Ave / Maria” cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave». Ecco, qui bisogna sforzarsi di sentirlo questo canto: è il primo canto intonato nel Paradiso. In seguito i beati non faranno che cantare, esprimendo in modo sonoramente luminoso, sia la loro passione caritatevole nei confronti di Dante, sia il loro amore nei confronti di Dio. Infatti non faranno che lampeggiare (vedremo in che modo) e in armonia con questo movimento del lampeggiare canteranno a piena, benché celestiale, voce: dobbiamo continuamente suscitare in noi l’immagine il più possibile intensa e concreta di questo canto, di questo oceano spirituale di musica che attraversa e risuona grandioso per tutto il Paradiso, se vogliamo intenderne a fondo la poesia. Cantare e gridare: sino alla intensità di quel grido terribile che farà svenire Dante.
Torniamo alla meravigliosa terzina appena citata. Raramente, credo, ci soffermiamo sul fatto che l’anima di Piccarda se ne va appunto cantando e che nel contempo dilegua come un sasso che sprofondi nell’acqua scura: nello stesso modo, quindi, dobbiamo sentir dileguare il suo canto, la sua preghiera a Maria. Proprio qui Dante confuta, subito dopo, l’opinione di Timeo (ecco la citazione promessa) secondo la quale le anime, dopo la morte, tornerebbero ciascuna al proprio cielo. No, le anime, secondo la dottrina cristiana, stanno tutte nell’Empireo; esse si danno a vedere a Dante di cielo in cielo, a seconda della loro collocazione nell’immensa margarita del paradiso e dell’astro che ne ha governato il carattere. Questo, si dice spesso (e già ci è capitato di osservarlo), è un brillante espediente estetico: come si poteva scrivere il Paradiso senza la trovata di articolare l’incontro con i beati di cielo in cielo? Io direi, tuttavia, che non si tratta affatto di un espediente meramente estetico, o di un’abile mossa per animare una cantica che altrimenti sarebbe risultata troppo statica: lo vedremo. Intanto però chiediamoci che cosa sapeva Dante del Timeo. Non lo conosceva per lettura diretta, ma, come tutti i suoi contemporanei, solo in riassunto, attraverso il Somnium Scipionis e il commento di Macrobio. Nell’insieme la dottrina e le immagini finali del Timeo gli erano pertanto familiari.
Terzo scenario: la salita al cielo di Mercurio. Come le altre, è istantanea; tuttavia è modulata a suo modo e queste differenze sottilmente calibrate e sagacemente simboliche che Dante si inventa per ogni salita meriterebbero da sole uno studio specifico. Qui Dante si serve di una similitudine: l’istantaneità della salita è come quella di una «saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta» . La corda ancora vibra e già la freccia ha colto il bersaglio. In un altro punto usa l’immagine di quell’istante che precede il pensiero di cui diventiamo poi consapevoli: istantaneo movimento del pensiero prima che esso si sia rivelato alla coscienza. C’è dunque una gradazione, sebbene sottilissima.
All’arrivo di Dante e Beatrice la stella di Mercurio «ride», vale a dire si infiamma più del suo naturale per la gioia di riceverli. Di fronte a Dante si presenta lo spettacolo straordinario di migliaia di faville, di «mille splendori» che si precipitano «come pesci nella peschiera alla pastura», cioè come fanno i pesci quando corrono nella parte dell’acquario in cui è stato messo il cibo. Così le anime corrono verso il poeta e naturalmente cantano: «Ecco chi crescerà li nostri amori». La stessa cosa faranno, in senso inverso, alla loro dipartita. Allora canteranno l’Osanna, canto che richiama Giustiniano e quindi il Signore, Iddio degli eserciti.
Giustiniano appare nei balenii del fuoco che lo fascia: la sua anima (e la sua fisionomia) si annidano entro i propri raggi e balenano in modo corrusco, «come il sole che discioglie i suoi vapori». L’immagine è efficace; noi però chiediamoci: perché questo continuo gioco della luce, del canto e del riso che attraversa tutto il Paradiso? C’è un passo del Convivio (III, 8-11) che lo spiega benissimo. Dice Dante: «E che è ridere se non una corruscazione de la dilettazione dell’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro?» Ciò che nei viventi fa...

Índice

  1. Cover
  2. Frontespizio Collana
  3. Collana Sillabario
  4. Title
  5. Copyright
  6. Indice
  7. Avvertenza
  8. Inferno, Canti X e XI
  9. Purgatorio, Canti III e IV
  10. Paradiso, Canti XIII e XIV
  11. Il suono dell’invisibile La parola poetica del Paradiso
  12. Backcover
Estilos de citas para Dante

APA 6 Citation

Sini, C. (2019). Dante ([edition unavailable]). Orthotes. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1096141/dante-il-suono-dellinvisibile-pdf (Original work published 2019)

Chicago Citation

Sini, Carlo. (2019) 2019. Dante. [Edition unavailable]. Orthotes. https://www.perlego.com/book/1096141/dante-il-suono-dellinvisibile-pdf.

Harvard Citation

Sini, C. (2019) Dante. [edition unavailable]. Orthotes. Available at: https://www.perlego.com/book/1096141/dante-il-suono-dellinvisibile-pdf (Accessed: 14 October 2022).

MLA 7 Citation

Sini, Carlo. Dante. [edition unavailable]. Orthotes, 2019. Web. 14 Oct. 2022.