Mossad base Italia
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Mossad base Italia

Eric Salerno

  1. 255 páginas
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Mossad base Italia

Eric Salerno

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Nel 1945, lo stato di Israele non era ancora sorto. Per la sua posizione geografica nel Mediterraneo. l'Italia era il luogo ideale scelto dai fondatori del Mossad, - il leggendario Yehuda Arazi, meglio noto col nome in codice "Alon", impersonato nel film Exodus da Paul Newman, e Mike Harari, l'uomo che ha accettato di svelare all'autore di questo libro i segreti della sua vita di spia - per impiantare la loro rete e diventare così il principale luogo di smistamento dell'immigrazione clandestina di ebrei europei e la base di transito dei militanti delle organizzazioni terroristiche ebraiche. Oltre a quello geografico, il Mossad potè godere in Italia di un altro fattore decisivo: il beneplacito delle autorità politiche, disposte a "chiudere un occhio, e possibilmente due" dinanzi alle operazioni clandestine, che permisero all'esercito israeliano, in pochi anni, di superare la capacità militare di tutti gli eserciti arabi messi insieme. A Roma il quadrilatero intorno a via Veneto sembrava un quartiere della Casablanca di Bogart, pullulante di spie e di agenti segreti con licenza di uccidere: personaggi reali fatti rivivere da Eric Salerno attraverso i ricordi di Mike Harari, che per la prima volta abbandona i suoi nomi in codice e viene allo scoperto.

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Información

1. L’incontro
«Credevo che voi spie sapeste tutto, Tim.»
«Solo Dio sa tutto, e lui lavora per il Mossad.»
JOHN LE CARRE´, Il giardiniere tenace
Il nome in codice «Mike», riservato al capo delle operazioni clandestine del Mossad, risale agli albori dell’«Istituto». Itzhak Shamir è stato il primo Mike ancora prima della creazione dello stato d’Israele. Faceva parte del triumvirato della banda Stern, responsabile dell’eliminazione di Lord Moyne e del conte Folke Bernadotte, e di aver ordinato la distruzione dell’Ambasciata britannica a Roma. Negli anni successivi lui, come altri «terroristi» della Stern e dell’Irgun, fu reclutato dai servizi segreti, e l’uomo che un giorno avrebbe ricoperto la carica di primo ministro divenne il primo capo dell’organizzazione a cui erano affidati assassinii politici e altri compiti delicati.
Per anni avevo cercato di immaginarmi Mike, in piedi, fermo, davanti all’ingresso dell’Excelsior. Alto o basso? Intellettualmente arido o con la passione delle arti? Una voce dura o ammaliante? Il suo accento, poi. Quale? E i suoi occhi? Ghiaccio, o freddi soltanto il necessario per stare al tavolo verde? La vecchia fotografia sbiadita in bianco e nero, che avevo scaricato da internet, raffigurava una faccia simpatica. Era una foto scattata molti anni prima in un luogo imprecisato dell’America Latina con il teleobiettivo di qualche spia come lui, forse finita in rete per una specie di avvertimento mafioso: per la gente comune come me era l’unica esistente. Potrebbe essere quella di un tranquillo uomo d’affari di mezz’età, di un attore belloccio, sportivo o, meglio ancora, di un pilota appena sbarcato ai tropici dopo una trasvolata atlantica a godersi poche ore di riposo sperando anche in un’abbronzatura da riportare a casa. Ma sapevo che quei lineamenti tutto sommato anonimi nascondevano una vita di intrighi sotto l’egida di uno dei più famosi, spietati e onnipresenti servizi segreti del mondo. Avevo deciso di attendere accanto all’edicola di fronte a Doney, sul lato opposto di via Veneto. Volevo riservarmi qualche attimo per osservarlo da lontano, una specie di «fantasma», prima di attraversare la strada per quell’incontro: come si fa, da ragazzi e non soltanto, quando vuoi valutare una donna conosciuta al telefono o su internet. Me lo aspettavo più alto, ma l’età deve aver lasciato il segno. Corpo robusto, sicuro. Occhi chiari, freddi come se dovessero rispettare il cliché di ogni buon film su 007. Aveva l’aria di chi si trova a proprio agio un po’ ovunque.
art
Corriere Lombardo, 18-19 settembre 1946.
La stretta di mano era quella che mi sarei aspettato. Forte, sicura, perché l’ultima cosa che l’età tradisce sono i muscoli del palmo. Non mi aspettavo, invece, la sua risposta alle mie prime domande sparate a raffica, seduti comodamente al famoso caffè ai piedi del lussuoso albergo dei potenti, due espressi e una bottiglietta di minerale sul tavolino rapidamente consegnati da un cameriere che aveva visto tempi migliori. Lui, la sua strada, il suo bar della dolce vita.
«Se ti racconto tutto, poi dovrei ucciderti. O scomparire per sempre.» Il «fantasma» scherzava, con battute da brutta pellicola in bianco e nero, ma quelle parole in bocca al signore non più giovane con gli occhi azzurri penetranti, lo sguardo intenso e la parola volutamente lenta, smascheravano un profondo conflitto interiore. Non voleva che la fedeltà al Segreto seppellisse per sempre la sua Storia – gelosamente custodita e protetta negli archivi di mezzo mondo – quando il suo corpo sarebbe finito arrotolato nella stoffa bianca del sudario, abito estremo degli ebrei, e abbandonato sottoterra.
Mike Harari aveva poco più di vent’anni, nel 1947, quando si era trovato con i suoi compagni di ventura, tutti più grandi di lui, seduto per la prima volta su una poltroncina di vimini sulla strada più famosa di Roma. Cinquant’anni fa, ma per lui molto più di mezzo secolo. Il tempo è relativo. Può racchiudere avvenimenti particolarmente importanti nella lunga, densa storia dell’umanità o un insieme di quotidianità personali che non lasceranno tracce. Lo stato indicato sulla copertina blu del passaporto di Mike, uno dei tanti documenti d’identità con la sua foto, non era ancora nato. La sua patria, quando era approdato per la prima volta nella via alberata romana, aveva un nome antico, Palestina, ma non era quello a cui i suoi avi per millenni avevano rivolto le loro preghiere. E in cui avevano sognato di poter ritornare. Cinquant’anni fa la terribile guerra che aveva devastato l’Europa era appena finita e nuovi flussi migratori avevano invaso l’Italia con un’orda stanca, affamata, stravolta nell’intimo. Gli ebrei sopravvissuti puntavano ancora più a sud per allontanare corpi e menti traumatizzati dai luoghi della scientifica macchina di morte nazista. Dalla Palestina, dove era cresciuto, i suoi capi lo avevano spedito in Italia, poco più che ragazzo, per aiutare. E in un modo o nell’altro l’Italia sarebbe stata per sempre il grande palcoscenico della sua attività.
Delle sue storie, delle storie di molti suoi colleghi, sapevo parecchio. Aveva licenza di far uccidere e l’ha usata più di una volta. A Roma, senza ombra di dubbio; in altre località della penisola, non so. Se avesse ucciso lui stesso, era tra le cose che volevo capire, anche se poco avrebbe cambiato. Uccidere o far uccidere lascia, comunque, un segno; anche quando si è convinti di farlo per il bene di tutti. Di altre vicende di un lungo e tormentato processo tra guerre clandestine e spionaggio, episodi noti e meno noti, volevo scoprire dinamiche e protagonisti. E tracciare una linea tra i mille punti sparsi nell’Italia per far emergere una figura, in questo caso un uomo o la storia della somma di molti uomini, per ricostruire una Storia.
Ricordo, tra le persone incontrate in giro per il mondo, un distinto, simpatico, colto, navigato agente dei servizi segreti italiani con una memoria invidiabile. Anche dall’archivio mentale di Mike nomi, date, circostanze vicine e lontane emergono senza sforzo. Quella capacità di catalogare tutto per estrarre complicati e talvolta apparentemente insignificanti dettagli del passato, senza dover frugare troppo, deve costituire un elemento essenziale del mestiere. I due si assomigliano. Mike non aveva bisogno di appunti per raccontare, per ricostruire. Per dire e non dire. Parlava e io ascoltavo. Cercavo di capire perché avesse scelto me. Rappresento, mi veniva da pensare, una specie di registratore a cui affidare ricordi e sensazioni che vanno oltre il senso delle note caratteristiche aggiornate dai burocrati del suo mondo, o delle relazioni secche depositate nelle cartelle scritte in ebraico dalle quali un giorno, forse, sarebbero usciti i segreti.
Via Veneto, epicentro romano del conflitto internazionale che si propaga dal Medio Oriente, l’avevo percorsa su, in direzione di Porta Pinciana e giù, dall’altro lato fino a piazza Barberini, per la prima volta pochi anni dopo di lui. Ero ancora bambino. Lui aveva già assaporato gli orrori amari della guerra, quella strisciante sulla «sua» terra, anche se non aveva ancora ucciso. O fatto uccidere. Che io sappia non ci siamo mai incrociati prima d’oggi, ma posso pensare che prima di accettare la mia richiesta abbia consultato un dossier sulla mia attività di giornalista, sui miei viaggi e incontri fra la gente contro la quale ha sempre lottato o con la quale ha collaborato, perché come attesterà questa ricerca, convenienza supera coerenza e moralità. La telefonata per confermare l’incontro di oggi è arrivata a sorpresa. Un amico comune aveva garantito, diciamo. Erano mesi che davo la caccia a Mike tra la sua Palestina, ormai Israele, e l’Italia, dove sapevo che approdava di tanto in tanto con l’affetto riservato a qualcosa che era, l’avrei capito dalle sue parole, molto più di un tormentato amore giovanile. Il suo Mossad è nato a Roma. Via Veneto l’ha tenuto a battesimo ed è ancora al centro delle molteplici attività clandestine dell’organizzazione.
Da dove cominciare? Mi accorgo, dopo poche battute, toccate iniziali di due spadaccini che si fronteggiano per la prima volta con cautela, che non sarà facile andare a fondo. Mike vuole raccontare. Ma a modo suo. Parla, preferisce non rispondere alle domande. So già che toccherà a me mettere ordine e riempire i vuoti, se mi condurrà, come spero, attraverso le tappe della sua storia.
«L’Italia è un paese straordinario. Agli italiani dobbiamo molto. Non parlo del periodo fascista ma di quel che è successo dopo, quando io e altri come me stavamo costruendo le basi del nostro futuro.»
Mike appartiene a una famiglia bene della Palestina mandataria. Quando è sbarcato per la prima volta in Italia conosceva già cinque lingue: arabo, ebraico, inglese, francese e italiano. Le aveva studiate dalle suore a Giaffa, allora città araba in riva al mare, oggi un pezzo di Tel Aviv, da dove gli arabi vengono lentamente e inesorabilmente allontanati con una politica di sviluppo a base di migliorie architettoniche e buone uscite modeste, criticata anche da molti ebrei residenti nel quartiere. L’edificio della sua scuola, sulla strada principale che costeggia il mare, c’è ancora.
«Il mio primo contatto con l’Italia fu quando ero piccolo» racconta con aria nostalgica. «Mia sorella era stata ricoverata all’ospedale italiano di Gerusalemme. Andai a farle visita, incontrai le suore, e scambiai qualche parola in italiano. Il mio vero approdo risale, però, al 1947. Ero andato in Francia, per disposizione del Palmach, il nostro esercito di allora, e del Mossad aliyah bet per organizzare, con altri, la partenza di una nave per un gruppo di immigranti clandestini. L’equipaggio era italiano e non c’è niente meglio di un viaggio in mare per avvicinare le persone, per cominciare a conoscersi, a comprendere costumi e anima. La volta successiva, l’inizio vero dei miei contatti con l’Italia, fu quando andai a Milano. Da Tel Aviv a Praga in aereo, poi in treno ho attraversato l’Austria fino alla Lombardia per approdare a Milano, in via dell’Unione 5.»
Non un indirizzo qualunque, quello della città della Lombardia a pochi passi dal Duomo. Ne parleremo.
«Sì, con calma. Nomi e date e luoghi creano confusione. I miei amici e compagni di ventura sono stati tanti in quegli anni. Tutti importanti. Tutte parti essenziali, come un grande mosaico, di un’organizzazione artigianale. Cominciamo col ricordare che Mossad aliyah bet letteralmente significa “Istituto per l’immigrazione B”; aliyah A era quella legale, B quella illegale. Nacque come emanazione dell’Haganah, l’Associazione per la difesa ebraica nel periodo del Mandato britannico della Palestina. Molto più di una semplice milizia, che con il tempo sarebbe diventata esercito. Il suo scopo iniziale, stiamo parlando del 1938, era di facilitare l’immigrazione degli ebrei della diaspora, superando non soltanto le difficoltà logistiche, che non erano poche, ma anche e soprattutto le restrizioni e le limitazioni imposte dal governo di Sua Maestà. L’immigrazione legale, quella accettata dalle autorità di Londra in base alle cifre imposte per contenere l’afflusso di ebrei e non modificare sostanzialmente il rapporto demografico rispetto agli arabi della Palestina, era chiamata aliyah A. Dunque, la B sta per la grande ondata illegale che sarebbe finita soltanto nel 1948 con la proclamazione dello stato d’Israele. Due sono le personalità chiave dell’attività del Mossad aliyah bet in Italia. Due esseri completamente diversi ma complementari.»
A comandare tutto, e molto di più, era stato scelto Yehuda Arazi. Numerosi italiani lo avrebbero conosciuto con il suo nome in codice, «Alon». Qualcun altro si sarebbe rivolto a lui come «dottor Paz». Era nato Tannenbaum, come i suoi genitori che arrivando in Palestina avevano adottato un nome ebraico. I suoi genitori lo chiamavano Yehuda. In giro per il mondo lo conoscevano con tanti nomi diversi: Yehuda Alon, Joseph Tannenbaum, José de Paz, Mr Oppenheim, Dr Schwartz, Rabbino Lefkowich, Albert Miller. E forse altri, persi tra fantasmi e realtà. Era arrivato in Italia, la prima volta, nel 1945, con alle spalle un considerevole bagaglio di esperienze nel mondo della clandestinità. I suoi genitori polacchi lo avevano portato in Medio Oriente nel 1923, quando lo stato ebraico era ancora poco più di un sogno. Tel Aviv, città solare nata da pochi anni, era un sobborgo di Giaffa, il contrario di quello che è oggi, e Yehuda fu mandato a studiare in una scuola ebraica dove si arruolò nell’Haganah. Tre anni dopo, quando ne aveva venti, il suo comandante gli ordinò di arruolarsi nella polizia britannica della Palestina. Intelligente, abile, di notevole fascino, non gli fu difficile arrivare in breve alle tre stellette di capitano e dirigere il delicato Dipartimento politico. Furono anni intensi e pericolosi. Le informazioni riservate che passavano dalla scrivania del giovane agente segreto, un agente doppio, finivano rapidamente negli uffici dell’Haganah, ma nel 1933, per alcuni disaccordi con i dirigenti dell’organizzazione ebraica, lasciò la polizia palestinese e si dette all’import-export. Le famose arance di Giaffa in cambio di armi. Con la sua famiglia era tornato in Polonia, dove rimase, lavorando clandestinamente per l’Haganah, fino allo scoppio della guerra, quando i Tannenbaum-Arazi rientrarono in Palestina giusto in tempo per non finire in qualche campo di concentramento.
Anni curiosi quelli. Alleanze strane. Lealtà confuse. Ebrei e inglesi contro la Germania nazista, altri ebrei che guardavano con simpatia i tedeschi in quanto nemici dei colonizzatori britannici della Palestina. Il nemico del mio nemico è il mio migliore amico.
Dal 1940, Arazi approfittò del sodalizio in funzione antitedesca tra Haganah ed Esercito britannico. Lui e gli inglesi studiavano insieme come organizzare operazioni di sabotaggio dietro le linee nemiche e Arazi usava gradi ed entrature per svuotare i magazzini d’armi e farle arrivare all’Esercito ebraico clandestino. Quando si accorse che l’intelligence di Sua Maestà cominciava a sospettare, si nascose per due anni. Nel 1945 fu spedito in Italia come responsabile per l’Europa di Shai, l’intelligence dell’Haganah. La guerra era finita. E il compito che gli veniva affidato enorme. Dai campi di sterminio nazisti appena liberati, dalle città europee devastate, migliaia di ebrei cercavano scampo. Qualcuno voleva tornare a casa, altri volevano allontanarsi il più possibile, in America o in Australia, ma gli inviati della Palestina ebraica riuscirono a convincere decine di migliaia di persone a trovare rifugio in Medio Oriente, dove presto e anche grazie a loro, dicevano, sarebbe nato uno stato ebraico.
Nel giro di tre anni, Alon – Leon Uris lo rese famoso come Ari Ben Canaan nel suo libro Exodus, Paul Newman lo impersonò sulla celluloide – e i suoi collaboratori spedirono in Palestina almeno ventiseimila clandestini a bordo di una ventina di navi allestite in fretta e furia. In Italia i campi d’accoglienza si riempivano e si svuotavano rapidamente. In alcuni le vittime dell’orrore nazista imparavano nuove idee e nuove usanze, e anche chi non era sionista lo diventava. Dopo la tempesta, un antico sogno si stava avverando. Con qualche modifica, rispetto all’ortodossia sionista, di stampo socialista. Come vivere in un kibbutz, come coltivare i campi, nonostante il mestiere dell’agricoltore fosse quasi ignoto agli ebrei europei, a cui era stato vietato per secoli di possedere la terra. Come combattere per difendersi. E per conquistare la nuova nazione.
Era stato Alon a reclutare Ada Sereni, ebrea romana nata Ascarelli, una grinta alimentata da convinzione e rabbia. Un cognome importante. L’aveva acquisito dal matrimonio con Enzo, sparito per sempre nel campo di concentramento nazista di Dachau dopo essere stato paracadutato in Germania. Il papà di Enzo, Samuele, era il medico della Casa reale. Abitava al Quirinale. La loro era una famiglia dell’alta borghesia romana. Lo zio di Enzo era il presidente della Comunità ebraica di Roma. Suo fratello Enrico era uno scienziato legato al movimento antifascista di Giustizia e Libertà, l’altro, Emilio, un politico comunista. I fratelli erano cresciuti sotto l’ombrello protettivo di Samuele. Lui conosceva tutti. E tutti quelli che contavano lo conoscevano e rispettavano. Almeno fino all’entrata in vigore delle leggi razziali, volute da Mussolini e sottoscritte dallo stesso re che si faceva curare da un ebreo.
Più di una volta Ada, come capo del Mossad in Italia dopo l’uscita di scena di Arazi, si è servita di quelle conoscenze, di quel cognome entrato nel mito, per favorire l’immigrazione clandestina prima, e per indurre poi le autorità italiane a chiudere un occhio, o addirittura collaborare, quando si trattava di minare una nave con il suo carico di armi per gli arabi, o sabotare un arsenale, o una fabbrica italiana che aveva incassato dollari dagli arabi per una fornitura di navi o aerei da usare contro gli ebrei della Palestina.
Lei stessa, in un libro di memorie – I clandestini del mare – racconta la mezz’ora più importante di quegli anni per il successo delle operazioni del Mossad in Italia. Un incontro a tre organizzato da Massimo Teglio, un noto aviatore ebreo di Genova che ha avuto un ruolo fondamentale negli eventi di quegli anni difficili. Presenti Ada Sereni, Yehuda Arazi e, di fronte a loro, Alcide De Gasperi. Il presidente del Consiglio democristiano investe la donna con una raffica di domande sul Medio Oriente.
Infine concluse: «Quello che voi chiedete è praticamente di farvi vincere la guerra in Palestina. Quale è l’interesse dell’Italia alla vostra vittoria?». La mia risposta fu pronta: «Primo: l’Italia non ha nessun interesse a essere circondata da paesi arabi troppo forti; noi siamo uno degli elementi equilibratori contro una futura arroganza araba nel Mediterraneo. Secondo: sono tre anni che voi ci aiutate a far defluire dall’Italia i profughi. Se noi perderemo la guerra in Palestina ci sarà un deflusso di masse di profughi; per ragioni geografiche la maggior parte arriverà in Italia: che interesse avete a riprenderveli?».
De Gasperi rimase un attimo in silenzio, poi disse: «Allora cosa dobbiamo fare per voi?».
«Chiudere un occhio, e possibilmente due sulle nostre attività in Italia.»
«Va bene», disse De Gasperi alzandosi.
Italiani brava gente. Fascisti brava gente. Due miti paralleli costruiti a tavolino. Con la Liberazione, gli ebrei italiani tornarono a godere dei pieni diritti civili e il governo di Roma fece di tutto per attribuire alla collaborazione di Mussolini con la Germania nazista la responsabilità della persecuzione degli ebrei, sottolineando il più possibile come singoli italiani e piccole comunità, spesso legate alla Chiesa, si fossero impegnati per proteggere e nascondere le vittime della follia hitleriana. Ad aiutare nella costruzione di questo mito furono anche molti capi delle varie organizzazioni ebraiche. Zorach Wahrhaftig, osservatore ufficiale per conto del Congresso ebraico mondiale e del Congresso ebraico americano, nel 1946 descrisse una popolazione italiana e un governo calorosi nei confronti degli ebrei nonostante la pesante situazione economica. Gli italiani si accorsero fin dall’inizio dell’immigrazione clandestina e dei campi provvisori dove venivano ospitati gli ebrei arrivati dal resto dell’Europa, ma non soltanto chiusero un occhio, aiutarono quando e come poterono. Aiutarono anche nella fase successiva, quando il Mossad, parallelamente all’immigrazione clandestina, si impegnò nell’addestramento militare dei rifugiati, nell’acquisizione d’armi e nel loro trasporto in Palestina, nella lotta per impedire agli arabi di armarsi, anche quando questo significava il ...

Índice

  1. Copertina
  2. Glossario
  3. 1. L’incontro
  4. 2. Le origini
  5. 3. «Abbiamo bisogno di armi»
  6. 4. Obiettivo Lino
  7. 5. Bombe contro l’Ambasciata
  8. 6. Nel mirino le industrie italiane
  9. 7. Nazisti, prelati, ustascia, ebrei e di nuovo nazisti
  10. 8. Il nemico del mio nemico è mio amico
  11. 9. Xa Mas
  12. 10. Berette e Dc-5
  13. 11. All’Urbe nasce l’Aviazione israeliana
  14. 12. L’alleanza Italia-Israele
  15. 13. BAGAGLIO DIPLOMATICO umano
  16. 14. Vendetta
  17. 15. «Uccidete Golda»
  18. 16. Misteri: da Argo 16 a Moro
  19. 17. Il Grande Vecchio
  20. 18. Rapimento a Roma
  21. 19. Troppi segreti di stato
  22. Appendice
  23. Cronologia
  24. Bibliografia
  25. Ringraziamenti
  26. Immagini
Estilos de citas para Mossad base Italia

APA 6 Citation

Salerno, E. (2010). Mossad base Italia ([edition unavailable]). Il Saggiatore. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1096616/mossad-base-italia-pdf (Original work published 2010)

Chicago Citation

Salerno, Eric. (2010) 2010. Mossad Base Italia. [Edition unavailable]. Il Saggiatore. https://www.perlego.com/book/1096616/mossad-base-italia-pdf.

Harvard Citation

Salerno, E. (2010) Mossad base Italia. [edition unavailable]. Il Saggiatore. Available at: https://www.perlego.com/book/1096616/mossad-base-italia-pdf (Accessed: 14 October 2022).

MLA 7 Citation

Salerno, Eric. Mossad Base Italia. [edition unavailable]. Il Saggiatore, 2010. Web. 14 Oct. 2022.