Introduzione
In un paesino medievale arroccato su un poggio dell’entroterra ligure si era ritirato un ufficiale del British Army. L’ho incontrato qualche anno fa. Era molto anziano. Passava gran parte del suo tempo guardando il mare all’orizzonte. Parlava poco. Ma quando gli capitava di dar voce ai ricordi parlava senza interruzione. Di quando era di stanza in Birmania, quando era ancora colonia britannica, poco prima dell’indipendenza nel 1948. La ricordava con quel feeling blue, quel senso di melanconia molto difficile da definire e comprendere e che spesso sfuma nel rimpianto. Il suo ricordo non era molto dissimile dalla Birmania descritta da Kipling.
Anche il mio ricordo era simile, e il mio sentire blue. Almeno quello del primo viaggio nel paese, quasi vent’anni fa. Era, come disse un amico che la conosceva bene, un posto arcano. Dopo quel primo viaggio se ne sono susseguiti molti. Con un’interruzione di due anni circa, tra il 2010 e il 2012, in cui mi è stato negato il visto. Non sempre le cronache di quei viaggi erano state apprezzate dal regime che proprio in quel periodo stava decidendo quale strada scegliere nella road map per la “democrazia”. Il fatto che sia potuto tornare, come molti altri, ben più importanti, fa pensare che la strada, anche se molto accidentata, sia quella giusta. Sembra una di quelle strade che si costruiscono in Birmania: a mano, spianando il terreno, posando le pietre, riparandola dopo ogni pioggia.
In questi ultimi anni, sono accadute molte cose. Nel mondo, nel Sudest asiatico, in Birmania, per me. Tanto che spesso mi accade di pensare alle mie piccole vicende personali o agli avvenimenti della geopolitica planetaria collegandoli a un viaggio in Birmania o a qualcosa che ne ha segnato la storia recente.
«Siamo stati fortunati. Abbiamo avuto la possibilità di vivere in molti mondi, in molte epoche», dice oggi un amico fotografo che sembra manifestare una certa predilezione per il mondo non ancora globalizzato. Sia pure con una certa discontinuità. Questo è uno dei punti di disaccordo tra noi, a volte reali, altre per il puro piacere del contraddittorio. E questo era motivo di discussione nei primi viaggi compiuti assieme in Birmania. Lui la vedeva con gli occhi del fotografo, ne era stregato. La Birmania era una maga che gli concedeva tutte le immagini che poteva desiderare, altrove svanite. «Come lacrime nella pioggia». In me, invece, la Birmania destava una certa inquietudine. A volte, più che una maga, mi appariva come una strega che celava l’orrore dietro un velo di fascino. Vedevo soprattutto le lacrime.
«Perché proprio qui, con tanti posti che ci sono?», avevo chiesto a un francese che si era stabilito in Birmania. Mi sembrava assurdo.
«Forse perché non ci viene nessuno. Forse proprio perché è un teatro dell’assurdo dove l’Asia recita il suo spettacolo», mi aveva risposto, con un rovesciamento di prospettiva che mi aveva spiazzato.
Col tempo e nel susseguirsi dei viaggi in quel paese ho compreso una frase di Elémire Zolla. «Invero geografia e storia ribaltano ogni regola intorno al male e al bene», ha scritto quel filosofo, orientalista e studioso d’esoterismo. Significa, così la interpreto, che muovendosi nel tempo e nello spazio – specie in Oriente – dobbiamo immergerci in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di noi stessi. Così, con un diverso atteggiamento mentale, ho cominciato anch’io a vedere la Birmania in modo diverso, più affascinato.
Questo libro, dunque, è la raccolta di storie birmane degli ultimi vent’anni, che per sincronicità, casualità o come riti di passaggio sono state scritte intrecciando la mia vita con la Storia globale. Perché, come vedremo, la Birmania è “L’Occhio del Buddha” al centro dello scenario geopolitico indopacifico. Storie di viaggi in Birmania, ma anche ai suoi confini, tra “rifugiati e trafficanti” come diceva una canzone, di incontri più o meno segreti con esuli politici e oppositori, con personaggi ambigui, sorprendenti, illuminanti. Storie di luoghi, di politica e cultura, religione e magia di violenza e pace. Ordinarie e straordinarie. Tutte storie che appaiono, scompaiono e poi riappaiono. Che s’intrecciano tra loro, tra tante vite compresa la mia.
Formalmente le storie sono suddivise cronologicamente, in periodi, ognuno con una sua specificità. Ma è una suddivisione determinata in gran parte da fattori personali, da come e perché si svolgevano i miei viaggi, come si sviluppava la mia conoscenza del paese. Anche per questo, per mantenerne lo spirito originale, i testi sono stati modificati e rielaborati solo parzialmente. In alcuni casi le modifiche sono state minime e quindi potranno apparire datati o con qualche ripetizione. In altri casi, alle storie originali sono stati aggiunti dei sequel, appunti o altri testi scritti in momenti successivi, ma che appaiono più interessanti se collocati nel passato. Altri testi ancora sono totalmente nuovi o scritti pensando a una diversa forma di narrazione. Allo stesso modo, il lettore potrà seguire l’ordine che preferisce, cominciare dove preferisce, passare da un testo all’altro, da un periodo all’altro secondo un interesse specifico, una curiosità.
Insomma, è un percorso libero, che varia secondo i momenti e le occasioni. Un po’ come accade con l’intercambiabilità, il mutare e l’intrecciarsi dei toponimi: Birmania, Myanmar; Rangoon, Yangon… La questione è stata oggetto di dibattiti e contrapposizioni semantiche, storiche, soprattutto politiche. Nel 1989, infatti, il regime militare ha bandito il termine Birmania (Burma), allora d’uso comune, quale retaggio coloniale e lo ha sostituito con quello di Myanmar (in birmano Myanma, ufficialmente Repubblica dell’Unione del Myanmar), richiamandosi a radici storiche risalenti al xiii secolo e per sottolineare la predominanza dello stato centrale rispetto a ogni etnia (compresa la maggioranza Bamar, da cui deriverebbe Birmania). Allo stesso modo sono state cambiate quasi tutte le denominazioni geografiche: città, fiumi, montagne. L’uso dei “vecchi” toponimi, quindi, era un modo di opporsi al regime e non riconoscerne la legittimità, soprattutto da parte delle opposizioni interne ed estere. Negli ultimi anni la questione è divenuta sempre meno rilevante e Myanmar si va a poco a poco affermando nel paese come denominazione sia ufficiale sia comune, mentre Birmania (o Burma) è ancora più diffuso all’estero.
Qui i termini sono usati con una certa libertà in funzione del momento, del contesto, dell’opportunità. Anche questo fa parte del gioco. è un gioco combinatorio, un metaracconto, si potrebbe dire, citando le forme narrative di Calvino (che farà una sua apparizione non casuale sulla scena della nuova capitale Naypyidaw).
«La geografia combinata col tempo equivale al destino», ha scritto il poeta Joseph Brodsky. Il trascorrere dei viaggi in Birmania in questi ultimi anni lo dimostra. Almeno per me e quell’ex ufficiale inglese che non ho più visto.