Antologia
La trappola
Nell’Odissea l’isola di Circe appare come una terra boscosa e promettente. Ma si rivelerà una trappola, ideata da un essere soprannaturale e pericoloso. L’episodio ha molti tratti in comune con quei racconti folk, diffusi in narrative anche molto lontane dalla Grecia omerica, in cui un protagonista maschio – spesso errando in un bosco incantato – incappa in un personaggio femminile insidioso che mette in scacco tutti quelli che passano dalle sue parti. Nella cosiddetta “Tradizione dell’asino” (di cui troviamo esempi nella narrativa cinese, indiana, giapponese oltre che europea), per esempio, un personaggio femminile accoglie gli ospiti con grande cordialità ma li avvelena e li trasforma in animali; solo uno scampa alla trasformazione e trova il modo di sconfiggere la maga, spesso restituendo agli altri uomini tramutati il loro primitivo aspetto. In altri racconti, anch’essi molto diffusi, un giovane cacciatore trova una strega e rimane intrappolato nel bosco – perché la strega lo ha trasformato in animale oppure perché gli ha inferto qualche altro brutto colpo (lo ha legato, o castrato, o mutilato in altro modo o addirittura ucciso per mangiarselo). Forse, dunque, nell’immaginare la dea di Eea, i cantori omerici si erano ispirati a figure femminili presenti nel repertorio folclorico dell’epoca.
Nella vallata trovarono le case di Circe costruite
con pietre squadrate, in un luogo protetto:
c’erano intorno lupi montani e leoni
che ella aveva stregato, dandogli filtri maligni.
Essi non assalirono gli uomini, ma
agitando le lunghe code si alzarono.
Come quando i cani scodinzolano al padrone che torna
da un pranzo, perché porta ogni volta dei buoni bocconi;
così i lupi dalle forti unghie e i leoni scodinzolavano
ad essi: temettero, quando videro le orribili fiere.
Si fermarono davanti alle porte della dea dai bei riccioli,
sentivano Circe che dentro con voce bella cantava,
intenta a un ordito grande, immortale, come le dee
sanno farli, sottili e pieni di grazia e di luce.
E cominciò fra essi a parlare Polite, capo dei forti,
che mi era tra i compagni il più caro e fidato:
«O cari, qui dentro, intenta a un grande ordito,
canta in modo perfetto – ne risuona tutta la casa –
una dea o una donna: su presto, gridiamo».
Disse così, ed essi con grida chiamarono.
Lei subito uscita aprì le porte lucenti
e li invitò: la seguirono tutti senza sospetto.
Indietro restò Euriloco: pensò che fosse una trappola.
Li guidò e fece sedere sulle sedie e sui troni:
formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiò
ad essi col vino di Pramno; funesti farmaci
mischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria.
Dopoché glielo diede e lo bevvero, li toccò subito
con una bacchetta e li rinserrò nei porcili.
Dei porci essi avevano il corpo: voci e setole
e aspetto. Ma come in passato la mente era salda.
Così essi furono chiusi, piangenti, e Circe
gli gettò da mangiare le ghiande di leccio, di quercia
e corniolo, che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra.a
Sentirsi cambiare
Nella versione ideata dal poeta romano Publio Ovidio Nasone la metamorfosi è rappresentata nel suo svolgersi ed è raccontata proprio da uno dei malcapitati finiti nel porcile di Circe. La mossa narrativa rende la versione ovidiana della storia più vicina al gusto moderno, non solo perché induce il lettore a immedesimarsi con il personaggio, ma anche perché si realizza in una sequenza quasi “cinematografica”.
Fummo tirati a sorte, e al palazzo di Circe la sorte mandò
me e il fedele Polite, con Euríloco ed Elpènore,
troppo dedito al vino, e altri diciotto compagni.
Come arrivammo e ci affacciammo alla porta di casa,
migliaia di lupi, mischiati ad orsi e leonesse,
ci atterrirono venendoci incontro. Ma non c’era da temere:
nessuna belva avrebbe fatto un graffio al nostro corpo.
Anzi, si misero a scodinzolare mansuete,
a farci festa, seguendo in corteo i nostri passi, finché ancelle,
non ci accolsero e, attraverso un atrio rivestito di marmi,
ci condussero dalla padrona: sedeva su un trono solenne
in una bella stanza appartata, indossava una veste splendente,
sulla quale si avvolgeva un manto dorato.
Attorno a lei Nereidi e Ninfe non filano con le dita
i bioccoli di lana e non ne tramano poi nell’ordito i fili,
ma dividono erbe e dispongono in canestri, secondo i tipi,
fiori ammucchiati alla rinfusa e steli di vario colore.
Lei controlla il lavoro che fanno, perché conosce
l’impiego d’ogni foglia, l’armonia delle combinazioni,
ed esamina con occhio esperto i dosaggi delle varie erbe.
Come ci vide, ricevute e rivolte parole di saluto,
distese il volto e ci accolse nel modo migliore possibile.
E subito ordina di stemperare chicchi di orzo tostato
in miele, vino robusto e latte appena cagliato; ma vi aggiunge
di nascosto succhi che non si avvertono fra il dolce.
Noi accettiamo le coppe offerte da quella mano maledetta.
Ma appena con la gola secca bevemmo assetati
e con la verga quella dea tremenda ci sfiorò i capelli
(mi vergogno a narrarlo), cominciai a coprirmi d’orrende setole,
a non poter più parlare, a emettere in luogo di parole
sordi grugniti, a cadere carponi con tutta la faccia a terra;
sentii il mio viso incallirsi in un curvo grugno, il collo
gonfiarsi di muscoli, e con le mani, con cui un attimo prima
impugnavo la coppa, impressi in terra le orme di una bestia.
E con le altre vittime della stessa sorte (tanto può quel filtro)
fui rinchiuso in un porcile. Il solo che evitò di mutarsi in porco
fu, come vedemmo, Euríloco, il solo a non bere la coppa offerta.
Se non l’avesse evitata, farei ancora parte di quel branco
setoloso, perché Ulisse, senza che lui l’informasse di quella
sciagura immane, non sarebbe venuto da Circe...