L'uomo Capriolo
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L'uomo Capriolo

Vivere il bosco come scelta di vita

Geoffroy Delorme

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L'uomo Capriolo

Vivere il bosco come scelta di vita

Geoffroy Delorme

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Questo è il resoconto dei sette anni trascorsi da Geoffroy Delorme nella foresta di Bord-Louviers, in Normandia, insieme ai caprioli. L'uomo, da sempre affascinato dalla vita all'aperto, tanto che sin da piccolo usciva di nascosto la notte per addentrarsi nei boschi, trascorre un'infanzia e un'adolescenza solitarie, cresciuto da genitori freddi e anaffettivi. Dopo alcuni anni nel bosco, l'autore comincia a subire il "richiamo della foresta", sentirsi come l'animale di compagnia dei caprioli, che paiono averlo adottato. Soffre assieme a loro per le battute di caccia, per i repentini disboscamenti di un territorio già abbastanza urbanizzato, per la durezza degli inverni; al contempo gioisce delle nuove nascite, delle amicizie, delle scoperte entusiasmanti che ogni stagione gli riserva. Quando poi, dopo alcuni anni, proverà a rientrare nella sua casa d'infanzia per mangiare e farsi una doccia, trovando però porte e mobili sbarrati, tornerà tra gli alberi definitivamente e senza rimpianti. Solo la debolezza fisica e il desiderio di fare qualcosa di concreto per preservare le specie che vivono nella foresta lo convinceranno, anni dopo, a riavvicinarsi agli umani.
Con una lingua diretta, toccante e priva di sovrastrutture, Geoffroy Delorme, alias l'uomo capriolo scrive la sua personale elegia alla natura, all'amore per gli animali e alla libertà della vita selvatica.

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Información

1

Alle elementari, nel calduccio della classe, mentre imparo le basi del mio futuro da umano come leggere, scrivere, contare e comportarmi in società, spesso mi lascio andare a contemplare dalla finestra la nobiltà del mondo selvaggio. Osservo i passeri, i pettirossi, le cinciallegre, insomma ogni animale che entri nel mio campo visivo, e riconosco la fortuna di quelle creaturine che godono di tanta libertà. Mentre sono rinchiuso in questa stanza con altri bambini, che a quanto pare ci stanno bene, dall’alto dei miei sei anni aspiro già a quella libertà. Certo, mi rendo conto che dev’esser molto dura la vita là fuori, ma osservare quell’esistenza semplice e serena, anche se piena di pericoli, fa nascere in me una specie di rivolta nei confronti di una visione umana in cui mi sembra vogliano rinchiudermi. Ogni giorno che passo davanti a quella finestra, in fondo alla classe, mi allontano sempre un po’ di più dai cosiddetti valori “sociali”, mentre il mondo selvaggio mi attira con la forza di una calamita su una bussola.
Solo pochi mesi dopo l’inizio della scuola, un fatto banale fa sbocciare quel germoglio di ribellione. Una mattina arrivo in classe e scopro che c’è nuoto. Vista la mia indole un po’ paurosa, sono già in agitazione. Quando mi ritrovo davanti alla vasca rimango paralizzato. È la prima volta che vedo tanta acqua tutta insieme e, siccome non ho mai nuotato in vita mia, mi sale una paura istintiva. Tutti gli altri bambini sembrano perfettamente a proprio agio, mentre io mi irrigidisco sempre di più. La bagnina, una donna dai capelli rossi e il viso allungato e severo, mi chiede di buttarmi in acqua. Io mi rifiuto. Il suo viso si contrae, il tono si fa duro, mi ordina di tuffarmi. Mi rifiuto di nuovo. Allora, con passo pesante da militare, mi si avvicina, mi prende per mano e mi butta di peso in acqua. Ovviamente bevo e, visto che non so nuotare, comincio ad affondare. Tra un gesto disperato e l’altro vedo che la mia aguzzina si tuffa per raggiungermi. Sono preso dal panico, sono convinto che stia venendo per ammazzarmi! L’istinto di sopravvivenza mi spinge a fare l’impensabile. Nuoto a cagnolino fino al centro della vasca, vado sotto per superare la rete di sicurezza che mi separa dal resto della vasca e cerco di raggiungere la riva. Arrivato al bordo, mi aggrappo alla scaletta e corro con tutte le forze a rifugiarmi negli spogliatoi. Mi rimetto i pantaloni e la maglietta. La bagnina è uscita ormai dall’acqua e mi sta cercando dappertutto. Dal rumore dei suoi passi sul pavimento umido capisco che sta risalendo il corridoio stretto con le cabine sui lati. Io sono nascosto nella terza a sinistra. Apre la prima porta, che si richiude sbattendo. Il cuore mi sta per esplodere. Apre la seconda, che si richiude con altrettanta violenza. Dal baccano infernale che sento ho l’impressione che spalanchi con forza le porte che le capitano davanti. Preso dal panico mi metto a strisciare furtivamente da una cabina all’altra, infilandomi nello spazio tra le pareti e il pavimento. Arrivato in fondo alla fila, approfitto di una manciata di secondi in cui lei controlla una cabina, per attraversare dall’altro lato e sgattaiolare fino all’uscita. Una volta fuori corro per strada, con le lacrime e il cloro che mi annebbiano la vista, fino a che un signore, che mi sembra di conoscere, mi ferma e mi chiede di seguirlo prendendomi per mano. È l’autista del pullman. Mi ha visto uscire da solo e ha avuto la prontezza di riflessi di seguirmi. Tra i singhiozzi gli spiego cos’è successo e perché non voglio mai più tornare in piscina. La sua voce e le sue parole mi rassicurano un po’. Una volta conclusa la mia breve epopea e avvertita la maestra della fine della fuga, mi ritrovo in fondo al pullman, con i professori e i compagni che mi fissano come se fossi un animale selvaggio, pericoloso, da tener d’occhio. Dopo quell’incidente decidono di farmi lasciare la scuola. Proseguirò gli studi a casa grazie al Centro Nazionale di Educazione a Distanza (CNED).
Insomma, mi ritrovo solo in camera mia, isolato dal mondo esterno, senza compagni né professori. Per fortuna ho a disposizione una grande biblioteca con i tesori della letteratura (di autori come Nicolas Vanier, Jacques Cousteau, Dian Fossey, Jane Goodall, ecc.), nei quali si raccontano la natura e la vita selvaggia. Divoro anche tutte le opere di divulgazione scientifica (La natura giorno dopo giorno, La legge del più forte, Compagno dei boschi). Una miniera di informazioni preziose che cerco di applicare nel mio giardinetto. Un melo, un susino, un ciliegio, delle siepi di berberis, dei cotognastri, dei piracanta, qualche rosa, ci sono talmente tante cose intorno a me che è impossibile annoiarsi. La cura di tutta questa vegetazione diviene ben presto la mia principale fonte di evasione.
Un mattino scopro che dei merli hanno fatto il nido nella siepe davanti alla mia camera. Nella mia mente di bambino quella scoperta significa un compito inderogabile: vegliare su di loro. Come un guardiano comincio a fare delle ronde intorno alla siepe per tener lontani i gatti attratti dall’odore di una facile preda. A tutte le ore del giorno e della notte, non appena si allenta la sorveglianza degli adulti, apro la finestra e scivolo fuori, con la discrezione di un felino, per vedere come sta la mia famigliola con le piume. A forza di vedermi sembra che si abituino a me. Gli do da mangiare delle briciole di pane, dei lombrichi o degli insetti che metto in un piatto. I genitori li vengono a beccare e li portano agli uccellini. Ogni giorno che passa guadagno sempre un po’ di più la loro fiducia. Ormai posso entrare nella siepe per guardare i piccoli che pigolano, avvicinando la testa a venti centimetri dalla loro. Quando finalmente arriva il momento di lasciare il nido è il padre che esce per primo. I piccoli gli saltano dietro, cadono per terra. La madre è in coda. Fanno il giro della siepe. Certe volte vengono verso di me. Mi sembra che vogliano fare le presentazioni. Il mio cuore di bambino di nove anni batte all’impazzata. È il mio primo contatto con il mondo selvaggio e per immortalarlo scatto una foto degli uccellini che spedisco alla mia professoressa del CNED, la signora Krieger.
A ogni passeggiata mi spingo sempre un po’ più in là nell’esplorazione dei dintorni. Dietro la siepe c’è una rete e sotto è stata scavata una buca, forse dalle volpi. Riesco a passarci senza difficoltà, per andare alla scoperta del terreno vicino, che promette grandi avventure. Le prime volte, nella notte appena rischiarata dalla luna, la sete di libertà si mescola alla paura, l’istinto focoso del piccolo avventuriero è sempre un po’ frenato dalla prudenza del bravo bambino. Ma il richiamo irresistibile della natura fa ben presto pendere la bilancia in favore della vita selvaggia. In quel nuovo parco giochi tutti i miei sensi si risvegliano. Concentrato sul percorso che faccio registro la topografia e la qualità del suolo. Ogni sera il tatto sostituisce la vista e il mio corpo memorizza il territorio fino a poterlo percorrere a occhi chiusi. È esattamente lo stesso processo che il corpo mette in pratica quando ci alziamo al buio e sappiamo esattamente dove si trova l’interruttore, solo che in quel caso io lo applico all’aperto. Anche gli odori cambiano. Le ortiche, per esempio, di notte hanno un odore molto più forte. Anche la terra non esala più lo stesso profumo. E quando sento gli effluvi umidi dello stagno del Petit-Saint-Ouen so che la passeggiata sta per finire. Se mi spingo ancora un po’ oltre arrivo alla casa della guardia forestale. E oltre a quella c’è la foresta, l’ignoto. Le nottole mi girano sopra la testa, il loro volo genera un curioso ronzio, roco e monotono. Non ho più paura. Sto bene.
Dentro di me sento l’istinto alla libertà, che mi spinge a fuggire non appena se ne presenta l’occasione giusta. Solo una regola mi sembra degna di essere rispettata, quella della natura. Non spezzo mai un ramo, non tocco neppure quelli secchi. Mi invento dei riti sempre più sofisticati, al limite dell’assurdo. Non passo mai a sinistra dei grandi alberi, perché ho l’inspiegabile impressione che quando giro intorno agli alberi da destra scopro più cose e più interessanti. Costruisco così il mio immaginario, la mia spiritualità, il mio rapporto con la natura, al tempo stesso documentato, ragionato e impregnato di un misticismo infantile.
Da un po’ di tempo a questa parte una volpe viene a dormire sotto un albero folto del nostro giardino. Una sera d’inverno decido di seguirla per i campi. Arrivato davanti alla casa della guardia forestale la vedo proseguire trotterellando. È giunto il momento di tuffarmi nell’ignoto. Un centinaio di metri più avanti, al confine con la foresta, la giovane volpe mi rivela l’ingresso della sua tana. Non mi ero mai avventurato così lontano da camera mia. Il vento che soffia sempre nello stesso senso porta tutti gli odori che vengono dal campo. La penombra si fa d’improvviso più fitta. Anche i suoni cambiano. Ci sono tantissimi rumori nuovi, perché la vita è là, in fondo al bosco. Mi ci addentro per qualche decina di metri, giusto il tempo di provare quel piccolo brivido di adrenalina dovuto al mistero, e poi faccio dietro front. In realtà non c’è niente da temere. Il pericolo non viene mai dalla foresta. Gli animali lo sanno bene, bisogna diffidare degli spazi aperti. La foresta è affascinante, ammaliante. Ogni sera mi spingo sempre un po’ più lontano, sempre con attenzione, come per non offenderla. E una notte mi ritrovo faccia a faccia con un cervo. Li ho sentiti spesso bramire alla fine dell’estate, ma non ho mai avuto il coraggio di avvicinarli. I loro muggiti rauchi nel bel mezzo della notte erano troppo spaventosi per un ragazzino di dieci anni. Per questo adesso sono pietrificato da quest’incontro inatteso. Quel corpo così pesante a meno di dieci metri da me, il terreno che vibra a ogni passo che fa, sono soggiogato dalla potenza che emana quella creatura. Il battito del mio cuore deve sentirsi a centinaia di metri di distanza. All’improvviso si gira verso di me e si mette a gemere con voce roca. Intorno a lui le femmine di cervo iniziano a rispondere con un timbro leggermente meno grave, anche se altrettanto potente. Ogni grugnito mi fa vibrare la cassa toracica, come le basse frequenze di uno stereo hi-fi. Il cervo finisce per andarsene da dov’è venuto. Faccio lo stesso, per mostrargli che non sono venuto qui per lui. E ci lasciamo così, come due esseri che si sono incontrati nei meandri della foresta. Quando scivolo in silenzio sotto le lenzuola poco dopo, mi rendo conto che quel cervo mi ha dato la più bella lezione della mia breve vita: gli animali non mi vogliono alcun male. Ho già voglia di ritornarci, ma devo essere paziente. Il mondo selvaggio non si apre al primo venuto.
Da allora, non appena in casa dormono, scavalco la finestra di camera e me la svigno dietro la siepe dei merli, sotto la rete e attraverso il campo delle nottole per ritrovare la penombra dei grandi alberi e il formicolio degli animali. Le volpi, che per prime mi hanno guidato fin là, mi fanno scoprire i loro vicini di tana: i tassi. Sopra la testa mi accorgo di avere le civette e i gufi. Se esiste nel bosco un animale agghiacciante, quello è senza dubbio il gufo. Un predatore silenzioso che non ha paura di niente e di nessuno. Nel mormorio permanente della foresta non lo si sente volare e se si attira la sua curiosità non esita ad avvicinarsi il più possibile. La prima volta che mi imbatto in un gufo sono ancora sconvolto dalle scene infernali del film Jurassic Park. L’animale, senza che me ne renda conto, viene a posarsi su un ramo a meno di due metri da me. All’improvviso, senza preavviso, lancia il suo «uh-uh». Faccio un salto all’indietro, inciampo su una radice e mi ritrovo a gambe all’aria, con gli occhi sgranati e il sedere nel fango. La vita notturna della foresta è palpitante. Molti animali sbrigano le loro faccende quotidiane la notte. Sia i piccoli sia i grandi. Ma alcuni sembrano non riposarsi mai. È il caso degli scoiattoli, che vedo girellare nel mio giardino di giorno e correre da tutte le parti di notte. Ma quando trovano il tempo per dormire? Questa domanda mi tormenta, fino a che non capisco il mio errore. Sfogliando un bel libro illustrato sul mondo silvestre, scopro che i piccoli roditori iperattivi che osservo la notte non sono degli scoiattoli, bensì dei giovani ghiri. La loro coda piccola e folta mi aveva tratto in inganno.
Tutti questi eventi della mia infanzia sembrano indicarmi che la vita selvaggia mi aspetta da qualche parte e che quando mi sarò liberato dai vincoli degli obblighi umani, la foresta sarà pronta ad accogliermi. Credo così tanto in quella profezia che mi capita di addormentarmi con i pugni stretti stretti, pregando di trasformarmi in volpe durante la notte e fuggire trottando all’alba, quando la finestra della camera si aprirà verso l’immenso mondo silvestre che mi fa tanto sognare. La realtà è molto meno esaltante. Vivo quasi da solo, non ho nessun amico o compagno di classe, non vado mai in vacanza, né a fare gite scolastiche e, al di fuori delle scappatelle notturne, me ne sto seduto alla scrivania a studiare per corrispondenza con dei professori dall’altra parte della Francia o a fare dei giretti in bici in giardino. Nelle rare uscite autorizzate, per esempio per fare la spesa, mi capita di parlare con i commercianti che mi fanno domande su questa faccenda della scuola a casa. A tutti rispondo che le cose vanno bene così perché, anche se dentro di me sento che qualcosa non torna, non ho alcun metro di paragone con gli altri bambini.
La verità è che quella vita che mi viene imposta, con il passare del tempo, si trasforma in un calvario morale. A tal punto che a sedici anni inizio a trascorrere, non solo le notti, ma anche le giornate nel bosco. E quella ribellione giunge al culmine il giorno dell’esame di maturità. Decido di sabotare la nave scolastica gettando il foglio della convocazione in un campo di mais. Negli ultimi anni ho scoperto di avere una vera passione per l’illustrazione naturalista e mi piacerebbe indirizzarmi verso lo studio del disegno, ma i miei genitori vogliono che faccia degli studi di “azione e comunicazione commerciali”. Non capisco neppure cosa voglia dire. Alla fine, stanco di battermi, accetto di iscrivermi a una formazione in “forza vendita” e, come premio di consolazione, ottengo un corso di fotografia per corrispondenza. La mia passione per la fauna selvatica rimane intatta e sono fermamente intenzionato a farne qualcosa. Durante le mie passeggiate nella foresta mi rendo conto che gli animali selvatici riconoscono il mio odore, le mie differenti posture, i miei atteggiamenti. Mi accettano nel loro ambiente fino a confondermi in qualche modo con lo sfondo. Questo mi richiede molto tempo, resto giorni e settimane intere nella foresta, inventando di dover fare un importante lavoro di fotografia. Ogni volta che torno a casa mi sento dire che che il mio non è un mestiere e che non posso vivere di quell’attività. Ma il denaro non mi interessa. Io cerco una stabilità morale. Vivere il momento presente, come fanno gli animali della foresta, mi fa trovare il mio posto nell’ordine delle cose. Gli animali mi mostrano che più rifletto e più vengo risucchiato dal senso del pericolo. I problemi del mio passato, o quelli legati all’incertezza del mio futuro, sommati alla volontà di controllare il presente, senza mai mollare il colpo, mi stanno distruggendo a poco a poco. Invece, osservare la natura che mi circonda, riempiendomi del mondo selvatico, mi risveglia lo spirito e mi rende più lucido.
Da qualche mese ho perso la cognizione del tempo, delle ore e dei giorni passati nel bosco. La mia vita è più intensa, avverto più forti la gioia, la meraviglia e la serenità. Eppure non perdo il senso del reale. Per non fare una brutta fine, realizzo qualche servizio fotografico sportivo per dei giornali locali e questo mi perm...

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