Elena, la spudorata.
Sono una cagna spaventosa, capace di tramare ogni malvagità. Come vorrei che il giorno in cui mia madre mi diede alla luce una tempesta di vento mi avesse portato lontano, sulla cima di una montagna o fra le onde del mare sonoro.
È Elena in persona che parla cosí. Lei stessa, nel VI canto dell’Iliade, davanti al cognato Ettore, si definisce per ben due volte «una cagna». Non è l’unica occasione in cui la regina di Sparta si mostra tanto spietata nell’autoaccusarsi: in altri casi si attribuisce, per esempio, l’epiteto sprezzante di kynòpis, «faccia di cane». Simili insulti (o autoinsulti) sono frequenti nei poemi omerici. Secondo i commentatori antichi chiamare «cane» o «faccia di cane» qualcuno, come fa anche Achille litigando con Agamennone all’inizio dell’Iliade, significa definirlo «senza vergogna» (anaidès). E, almeno nel caso delle donne, l’epiteto «cagna» sembra in effetti implicare l’accusa di svergognatezza.
La femmina del cane, nell’immaginario dei Greci, è spesso il prototipo dell’animale infido. «Cagne» sono le donne che, magari fingendo devozione, disobbediscono all’uomo, tramano contro di lui, antepongono l’istinto alla compostezza, cedono all’eros senza ritegno. Già per Esiodo la nefasta Pandora aveva «una mente di cagna». Mentre la dea Afrodite, nell’Odissea, mostra una «faccia di cane» nel momento in cui tradisce il marito Efesto. Anche Clitennestra, moglie traditrice che uccide lo sposo Agamennone appena tornato dalla guerra di Troia, viene descritta come un essere odioso e «dalla faccia di cane». Ciò che caratterizza le donne di questo tipo, inoltre, è l’astuzia messa al servizio del male. Elena dice di essere «capace di tramare ogni malvagità» (kakomèchanos): la femmina traditrice unisce alla seduzione della bellezza gli inganni dell’intelligenza.
Cosí dunque, nell’Iliade, attraverso le sue stesse parole, Elena viene per la prima volta delineata come modello negativo di donna. Una nuova Pandora, radice di una serie infinita di sofferenze. Eppure il vero motivo per cui è scoppiata la guerra di Troia non è chiarissimo. All’inizio del poema viene citato un misterioso «piano di Zeus», che sarebbe all’origine dell’immane strage. Ma in cosa consisteva questo piano? Omero non lo esplicita. Alcuni testi ci dicono che il signore dell’Olimpo voleva alleggerire la Terra dal peso degli uomini, sempre piú molesti e fastidiosi, eliminandone un discreto numero con una guerra: il tradimento di Elena sarebbe stato solo lo strumento che serviva a realizzare lo scopo.
Del desiderio di Zeus di spopolare la Terra parlavano già i Canti Ciprii, un poema epico arcaico che, a parte alcuni frammenti, è andato perduto. Il titolo rimanda ad Afrodite che, essendo emersa prodigiosamente dalle onde del mare davanti all’isola di Cipro, era chiamata Cipride. Il ruolo della dea dell’amore è infatti centrale nella vicenda di Elena. Nei Canti Ciprii si narrava anche la storia della celebre contesa sorta tra Afrodite, Atena ed Era per stabilire quale delle tre divinità fosse la piú bella. Contesa risolta con il giudizio di Paride, che assegnò la vittoria a Cipride. In cambio, la dea promise al principe troiano la mano di Elena, che era invece la piú bella tra le donne mortali. Ed è per ottenere il suo premio che Paride salpa da Troia alla volta di Sparta. Qui viene ricevuto da Menelao, che lo intrattiene con un festino di tre giorni. Poi, però, il re deve lasciare il palazzo: è atteso a Creta per partecipare ai funerali del nonno materno. Approfittando della sua assenza, si leggeva nei Canti Ciprii, «Afrodite fa congiungere Elena con Alessandro, – il nome alternativo di Paride, – e, dopo avere fatto l’amore, caricano gran parte dei beni su una nave e salpano durante la notte».
Omero e i Canti Ciprii avevano già alle loro spalle secoli di narrazioni mitologiche tramandate in forma orale, di cui non sappiamo nulla. Può darsi che, come ha sostenuto Lowell Edmunds, la storia della regina sottratta al marito scaturisca da una tradizione folklorica universale incentrata intorno al tema della «bella moglie rubata». Leggende indiane, africane, cinesi, irlandesi, bulgare, e anche alcune favole italiane catalogate da Italo Calvino ci restituiscono un’affollata galleria di spose rubate: tutte donne di una bellezza sovrumana, rapite e poi riscattate dai mariti con imprese in cui si combinano forza e astuzia.
Inoltre, secondo alcune testimonianze che risalgono fino all’età arcaica, Elena aveva già subito un rapimento molto prima di sposarsi con Menelao e di conoscere Paride: l’eroe Teseo, re di Atene, l’avrebbe stuprata quand’era ancora una bambina. Queste narrazioni di violenze sembrano rispecchiare antichissimi paradigmi mitologici. Rimandano, forse, a misteriose ierogamie fra creature che abitano una dimensione diversa da quella dei comuni mortali. Le relazioni tra eroi, eroine e divinità hanno sempre qualcosa di speciale: sono vicende arcane in cui affiora una valenza religiosa e sacrale.
La tradizione epica, comunque, non si preoccupa piú di tanto di definire se e quanto Elena fosse colpevole per aver abbandonato il marito. La sua autoaccusa nell’Iliade è solo uno dei possibili punti di vista sulla vicenda. Altri personaggi del poema, lo vedremo, esprimono un giudizio meno severo su di lei. La questione cruciale resta dunque aperta: Elena era solo lo strumento di un progetto divino, la vittima innocente di un rapimento, l’oggetto inerte del desiderio maschile? Oppure, viceversa, era una svergognata che, cedendo di sua volontà al richiamo della lussuria, ha provocato una catastrofe mondiale?
La difficoltà nel classificare il comportamento di Elena si spiega anche, almeno in parte, alla luce degli schemi narrativi del mito e sulla base delle concezioni antiche del femminile. Negli amori mitologici non è chiaro dove finisca la seduzione e inizi lo stupro: quando un dio insegue una ninfa, o un eroe si unisce con un’eroina, è spesso difficile distinguere l’eros dalla violenza. Mentre, nella morale comune dei Greci c’era, come scriveva K. J. Dover, «una certa tendenza a considerare la donna come irresponsabile e sempre pronta a cedere alla tentazione». Gli autori antichi ripetono spesso che il sesso femminile è per natura lussurioso. Perciò piegare la volontà di una donna non è difficile. Pur fingendo ritrosia, in realtà desidera concedersi, e basta usare un po’ di forza per conquistarla: vis grata puellis, «la violenza è gradita alle ragazze», recitava un celebre verso di Ovidio nell’Arte di amare (I, 673). Una maniera di concepire le relazioni tra i sessi che, come sappiamo, è dura a morire: l’adagio ovidiano, tradotto in massima giuridica, è stato usato a lungo, fino a tempi molto recenti, nei processi per violenza carnale.
Per gli antichi, insomma, era facile pensare che, se pure Elena era stata rapita, è perché voleva farsi rapire. Ma bisogna aggiungere un ulteriore elemento a questo quadro culturale: la concezione tipicamente greca per cui eros, il desiderio, non è una semplice pulsione umana ma una divinità tirannica a cui nessuna creatura può resistere. È un aspetto che complica le cose e che ritorna in diverse versioni del mito in cui Elena è solo la vittima dell’invincibile potere di Eros e di sua madre Afrodite.
La storia di Elena, insomma, si presta fin dall’inizio a essere letta in chiavi diverse. Nel corso dei secoli saranno comunque in molti a imboccare la via piú diretta: Elena è solo «la cagna», una semplice svergognata. Se ha abbandonato il marito Menelao e la piccola figlia Ermione, se ha attraversato il mare seguendo il bellissimo Paride, lo ha fatto perché intimamente malvagia e incapace di controllare i suoi istinti. E, forse, pure perché incantata dalle immense ricchezze dell’Asia, dal fasto del regno di Troia, che eclissava la rustica Sparta di cui era regina.
Prendiamo per esempio il dramma satiresco Ciclope, dove Euripide riscrive in modo scanzonato uno dei piú famosi episodi dei viaggi di Odisseo. Siamo nell’antro di Polifemo stavolta abitato anche da un gruppo di satiri, sguaiati e bestiali seguaci di Dioniso, che il ciclope si tiene come servitori. I satiri, è risaputo, sono maniaci di sesso. Per cui nel trovarsi davanti Odisseo vogliono sapere tutto della famosa «cagna». Cosa hanno fatto di lei gli Achei quando hanno conquistato Troia? Certo non si saranno lasciati sfuggire l’opportunità di spassarsela con quella donna bellissima e depravata.
– Dimmi, – intima a Odisseo il capo del coro dei Satiri: – Presa la giovane Elena, non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? Che spergiura! Alla vista di un paio di brache colorate su cosce maschili e di un monile d’oro al collo perse la testa e piantò Menelao, un omino cosí per bene! La razza delle donne non doveva mai nascere, tranne che per me, si capisce.
Le brache colorate sono, ovviamente, quelle di Paride che, da buon orientale, al contrario dei Greci, portava i calzoni e non il chitone. Mentre quel monile d’oro al collo del seduttore ricorda appunto la ricchezza delle città d’Asia. Euripide, è chiaro, sta scherzando. Ma può scherzare in questo modo perché il suo pubblico, verso la fine del V secolo a. C., era già predisposto ad accogliere una versione del mito in cui Elena era solo una svergognata, una donna perversa e malvagia, una kakè gynè, come si dice in un altro dramma di Euripide, l’Oreste (vv. 521-522): a sostenerlo è qui lo stesso Tindaro, il padre di Elena.
In realtà, il problema della responsabilità di Elena continuerà a essere discusso per molto tempo, fino a diventare un luogo comune della poesia e delle esercitazioni retoriche. Bisogna sempre ricordare che Elena, al pari di ogni eroe o eroina del mito, è una figura multiforme. La sua stirpe è divina, la sua origine prodigiosa. Secondo la versione piú diffusa era figlia di Zeus e della regina spartana Leda, che il signore dell’Olimpo aveva posseduto trasformandosi in cigno. Le immagini di Leda con il cigno vengono replicate infinite volte, non solo nell’antichità. Cosí come era raffigurata spesso la nascita di Elena da un uovo deposto dalla madre. Il lato divino dell’eroina affiora in molte testimonianze. A Sparta, nei sobborghi di Therapne e Platanistàs, Elena era venerata come una dea. A lei, e ai suoi fratelli Castore e Polluce, si raccomandavano i marinai quando solcavano le onde. Lo stereotipo della «cagna» sorvola su questa complessità soprannaturale del personaggio. O la piega, comunque, a una narrazione in cui lo splendore divino di Elena diventa una forza soltanto distruttiva.
«Il bello non è altro che l’inizio del terribile», scriveva Rainer Maria Rilke nelle Elegie duinesi. E la bellezza di Elena ha sempre qualcosa di sinistro. Secondo una versione attestata già nei Canti Ciprii, del resto, l’eroina era figlia non di Leda ma di Nemesi, oscura divinità della vendetta, generata dalla notte. Anche nei poemi omerici gli epiteti associati al personaggio di Elena rimandano di solito a una dimensione di morte e di terrore. Sono termini (come kryoèsse o righedanè) che rinviano a uno spavento raggelante e si trovano spesso in contesti collegati all’oltretomba. Nel fulgore della sua bellezza devastatrice Elena è un angelo della morte. O, per dirla in termini pagani, come scrive Eschilo nell’Agamennone (v. 749), «una Erinni che provoca pianto alle spose».
«Elena, distruttrice di navi, distruttrice di uomini, distruttrice di città» (Helèna, helènas, hèlandros, helèptolis), canta ancora il coro (vv. 688-90) giocando sul nome dell’eroina. Che Elena sia colpevole o no, la sua bellezza è portatrice di morte. Che dipenda dalla sua svergognatezza o dal demoniaco potere connaturato alla seduzione erotica, Elena si attira comunque l’odio di tutti. Non solo degli uomini, ma anche delle donne: quelle che, per colpa della guerra di Troia, hanno visto morire figli e mariti.
C’è un racconto mitico, inquietante e strano, riferito da Pausania (III, 19, 10), il quale narra che, negli ultimi giorni della sua vita, Elena sbarcò a Rodi e fu ospitata da Polissò, la regina dell’isola, vedova di un guerriero che era caduto sotto le mura di Troia. Decisa a vendicare la morte del marito, Polissò mandò a Elena mentre faceva il bagno alcune schiave mascherate da Erinni. Le donne l’afferrarono e la impiccarono a un albero.
Non possiamo fermarci ora sulle complesse implicazioni simboliche e storico-religiose di questa vicenda (Pausania riferisce che da allora in poi Elena fu venerata a Rodi come una dea dendritis, una divinità dell’albero). Notiamo solo che la morte destinata a Elena, l’impiccagione, è tipicamente femminile: l’eroe maschio perisce di spada, mentre in genere l’eroina (si vedano per esempio Antigone o Giocasta) si soffoca con una corda. Persino Leda, vergognandosi per la figlia, si sarebbe uccisa col cappio. Ma l’impiccagione è pure la pena infamante riservata, nel finale dell’Odissea, alle schiave che hanno tradito Odisseo e hanno diviso il letto con i Proci.
Questi racconti mitologici rimarcano la natura oscura, e persino infera, di Elena, la cagna spaventosa, l’Erinni, la distruttrice di città. Ma nell’Iliade, la stessa Elena, per quanto incline ad autodenigrarsi, sa un’altra cosa: tutti i dolori e i lutti che la sua bellezza ha provocato sono comunque serviti. Essi saranno materia di canto per l’eternità: «Saremo cantati in futuro, dagli uomini che verranno», spiega a Ettore nell’Iliade (VI, v. 358). I personaggi di Omero sanno già di essere i protagonisti di un’epopea, sono consapevoli di far parte di una grande leggenda. Nel bene o nel male, ognuno, tra il sangue e le lacrime della guerra troiana, si è conquistato una fama immortale, quel kleos, quella memoria perenne che spetta ai grandi eroi. Qualcosa di analogo si legge nel finale dell’Odissea (XXIV, vv. 192-202), dove si dice che anche la fama (kleos) della virtú (aretè) di Penelope non morirà mai, e sarà sempre oggetto di canto. Ma qui, per l’appunto, si tratta di una fama diversa.
Penelope, la saggia.
Quando i pretendenti si ritrovano nella reggia di Tindaro, marito di Leda e re di Sparta, per chiedere la mano di Elena, Odisseo si tiene saggiamente da parte. Sembra comprendere che quella donna porterà solo sventure. Eppure sono tantissimi gli eroi convenuti per contendersi il privilegio di sposare la donna piú bella del mondo, tutti pronti a mettere mano alla spada per farsi valere. Odisseo, astuto come sempre, suggerisce al padre della futura sposa di costringere quegli uomini a impegnarsi a soccorrere il marito prescelto qualora avesse subito un’offesa da terzi. Il giuramento vincolerà in seguito i pretendenti di Elena a partecipare alla guerra di Troia quando Menelao verrà offeso da Paride.
Odisseo, in cambio del suo consiglio, chiede a Tindaro di aiutarlo a ottenere la mano di Penelope, figlia di suo fratello, Icario (la madre, Peribea, era invece una ninfa dei fiumi). Il re di Itaca, dunque, fa una scelta. Potrebbe sposare Elena ma non scende neppure in gara per averla e preferisce Penelope. Una mossa saggia, celebrata anche da Plutarco in un suo manualetto intitolato Consigli agli sposi (21): «Elena amava la ricchezza, Paride il piacere; Odisseo era accorto, Penelope onesta: ecco perché il matrimonio di questi ultimi fu felice e invidiabile, mentre il primo procurò a Greci e barbari un’Iliade di mali».
Gli antichi collegavano il nome di Penelope (Penelòpeia in Omero, Penelòpe negli autori piú tardi) al termine penèlops, che indica un tipo di anatra dalle piume multicolore. Illustravano questa etimologia con una storia bizzarra. Si raccontava infatti che Penelope era stata gettata in mare dai suoi genitori, ma alcune anatre erano accorse per salvarla e l’avevano accompagnata a riva. Le ragioni di questo tentato annegamento non sono chiare. Resta il fatto, e la cosa forse stupisce, trattandosi della morigerata Penelope, che la morte in acqua era spesso considerata una pena per le donne svergognate e adultere.
Comunque sia, è sbucando da questo passato mitologico, prodigioso e oscuro che Penelope si prepara ad andare in sposa a Odisseo. Ma per l’eroe non fu facile ottenere la sua mano. Dovette sfidare gli altri pretendenti in una gara di corsa e superare le ulteriori resistenze di Icario che si rifiutava di lasciar partire la figlia per Itaca e cercava di convincere Odisseo a restare a Sparta. Come racconta Pausania (III, 20, 10-11), la decisione fu rimessa alla stessa Penelope che, posta di fronte al dilemma, non disse nulla e si limitò a coprirsi il volto con un velo. Il padre capí che quel gesto indicava il desiderio di sottomettersi al marito. E, nel punto esatto della strada in cui si separò dalla figlia, consacrò una statua ad Aidòs, la personificazione divina del pudore.
Anche Penelope, dunque, al pari di Elena, era nata per essere ambita e contesa dai maschi. Anche lei, fin dall’inizio, ben prima di essere insidiata dai Proci, aveva avuto una schiera di pretendenti scesi in gara per possederla. Perché era di una bellezza abbagliante e sconvolgente, come si addice alle eroine. Sí, è vero, lo stesso Odisseo ammette che la ninfa Calipso è piú alta e piú bella di sua moglie: ciononostante Omero sottolinea piú di una volta il fascino meraviglioso di Penelope, paragonandolo a quello di una dea, Artemide o Afrodite.
Quando nella reggia di Itaca Penelope si mostra ai pretendenti, le sue apparizioni suscitano un turbamento erotico. Accade, per esempio, nel XVIII canto dell’Odissea (vv. 212-213): «Ai Proci si piegarono le ginocchia, furono vinti dalla passion...