Ottant'anni di follia
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Ottant'anni di follia

E ancora una gran voglia di vivere

Vittorino Andreoli

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  1. 192 páginas
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Ottant'anni di follia

E ancora una gran voglia di vivere

Vittorino Andreoli

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Información del libro

Dopo aver svelato il volto della follia, Vittorino Andreoli ripercorre in questo libro le tappe di una vita attraversata da numerose sfide e scommesse, non senza qualche amarezza. "Ho aspettato ottant'anni per capire che la vita è fatta di continuità, non di avventure" e che la memoria invece può essere ingiusta perché lavora per celebrazione. Ma allora cosa significa compiere ottant'anni? Quali ombre ci lasciano e quali invece si ostinano a farci compagnia?
Un "vecchio", ci insegna Andreoli, non è solo una persona con lo sguardo rivolto all'indietro, anzi è proprio a ottant'anni che è possibile affrontare con più libertà le "grandi domande dell'esistenza", come il rapporto tra fede e ragione; dedicarsi alla musica, al teatro, alla letteratura, continuando a sostenere la causa dei "miei matti" - come li chiama affettuosamente dal lontano giorno del 1959 in cui mise per la prima volta piede in un manicomio - attraverso interviste, dibattiti e conferenze.
In queste pagine dense di riflessioni intime ma dal sapore universale, Andreoli racconta la sua esistenza unica, ricca di scoperte, di rivoluzioni e di riconoscimenti, di segni che ha inciso "sulla pietra" e "sulla carta". Una vita, da testimone e da protagonista, vissuta all'insegna dell'umanesimo per affermare, prima di tutto e sopra tutto, il valore e la straordinarietà dell'uomo "tutto intero".

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2020
ISBN
9788831801508
Copertina. «Ottant’anni di follia» di Vittorino Andreoli

Il libro

Dopo aver svelato il volto della follia, Vittorino Andreoli ripercorre in questo libro le tappe di una vita attraversata da numerose sfide e scommesse, non senza qualche amarezza. “Ho aspettato ottant’anni per capire che la vita è fatta di continuità, non di avventure” e che la memoria invece può essere ingiusta perché lavora per celebrazione. Ma allora cosa significa compiere ottant’anni? Quali ombre ci lasciano e quali invece si ostinano a farci compagnia?
Un “vecchio”, ci insegna Andreoli, non è solo una persona con lo sguardo rivolto all’indietro, anzi è proprio a ottant’anni che è possibile affrontare con più libertà le “grandi domande dell’esistenza”, come il rapporto tra fede e ragione; dedicarsi alla musica, al teatro, alla letteratura, continuando a sostenere la causa dei “miei matti” – come li chiama affettuosamente dal lontano giorno del 1959 in cui mise per la prima volta piede in un manicomio – attraverso interviste, dibattiti e conferenze.
In queste pagine dense di riflessioni intime ma dal sapore universale, Andreoli racconta la sua esistenza unica, ricca di scoperte, di rivoluzioni e di riconoscimenti, di segni che ha inciso “sulla pietra” e “sulla carta”. Una vita, da testimone e da protagonista, vissuta all’insegna dell’umanesimo per affermare, prima di tutto e sopra tutto, il valore e la straordinarietà dell’uomo “tutto intero”.

L’autore

Vittorino Andreoli è uno dei maggiori psichiatri italiani. Tra i suoi ultimi saggi pubblicati per Rizzoli ricordiamo La gioia di vivere (2016), La gioia di pensare (2017), I principi della nuova psichiatria (2017), Homo stupidus stupidus (2018) e Homo incertus (2020). Per Rizzoli è uscita anche l’autobiografia La mia corsa nel tempo (2016).
Vittorino Andreoli

Ottant’anni di follia

e ancora una gran voglia di vivere
Rizzoli

Ottant’anni di follia

Il tempo

Il tempo che passa

Giunti alla mia età si scopre di non essere un uomo, ma una storia.
Sarebbe bene rendersene conto prima di essere così vecchi.
Se confronto ottanta chilometri con uno, avverto chiaramente una differenza e mi pare di cogliere una proporzionalità anche paragonandone ottanta a quaranta e persino ottanta a cinque. Se lo stesso confronto, invece, riguarda gli anni, la percezione è del tutto diversa. Come se l’unità di misura fosse un’altra. Nel primo caso mi è utile l’aritmetica, nel secondo si attiva il sentire, un’espressione importante dell’esistenza, che però manca della misura o, perlomeno, usa per il confronto il sentimento, un metro che cambia in rapporto a ciò che si misura. I miei ottant’anni mi appaiono così una denominazione non diversa da quando ne avevo accumulato una metà o un quarto. Non sono nemmeno una misura ponderale: non pesano.
È straordinario considerare che il tempo trascorre in maniera da non accorgersi di come si modificano il proprio viso, il proprio corpo. Passa così lentamente che non si colgono le variazioni tra un minuto prima e un minuto dopo.
Non si può negare che ci siano, basta mettere a confronto la fotografia di quando avevo un anno e quella scattata il giorno in cui ne ho compiuti ottanta. Ma la mia attenzione, che è pressoché continua, mi impedisce di essere testimone consapevole del cambiamento.
Occorre sottolineare che l’attenzione e la coscienza sono parte della mente, di una funzione che appare sempre identica anche se il tempo passa. Un pensiero logico che esca da un cervello di dieci anni non è strutturalmente diverso, se è razionale, da un pensiero dei miei ottant’anni.
Mi sembra che questo stratagemma della natura sia straordinario. E mi sento di biasimare una società che, invece, continui a ricordare che il tempo passa e ci attacca non un anno dopo l’altro, ma addirittura un giorno dopo un altro, un sabato dopo un venerdì.
L’età non è segnata dentro di me, ma mi è ossessivamente indicata da tutto quanto mi circonda. Non amo i calendari e trovo di pessimo gusto le anagrafi.
Non sono un fisico, ma mi pare che il tempo lo abbia inventato la società e in particolare i gabellieri, che oggi sono chiusi negli uffici delle entrate.
A ottant’anni mi sono convinto che questo destino non è toccato alle farfalle, agli aironi e nemmeno ai pidocchi, tutti esseri per i quali non esiste il tempo.
Il sentimento del tempo non ha mai fatto festa ai miei compleanni, poiché non capiva cosa significasse avere un anno di più.
Il tempo della mente è meraviglioso poiché non esiste. La coscienza di essere non ha tempo, percepisce l’esserci, ed è questa semmai la grande caratteristica dell’uomo. Ma l’esser-ci ammette un solo confronto, con il non esser-ci. La differenza tra queste due condizioni è abissale. E l’abisso non si può misurare.
L’uomo ha la percezione del cambiamento solo quando viene interrotta la continuità, che scorre con una lentezza che passa inosservata.
E ce ne accorgiamo quando capita un avvenimento inatteso, quando si subisce un trauma. In entrambi i casi si tratta di eventi che segnano la diversità, ma accadono indipendentemente dalla conta degli anni accumulati. È più facile che si rompa una gamba un giovane che corre rispetto a un vecchio che, seduto, «passeggia» nel ricordo.
Certo, la morte la si associa alla vecchiaia, ma anche questo è un arbitrio sociale poiché, semmai, va collegata alla vita, all’esser-ci. E, quando capita il trauma della morte, si perde la coscienza e così si evita di avvertirlo.
Prima della scoperta della penicillina, la morte era più frequente nella prima infanzia, non nella vecchiaia. Fino al secondo dopoguerra, la vecchiaia era indicata in uno spazio temporale che oggi è quello dell’età adulta.
È la società a essere ossessionata dagli anni e impegnata a contare persino i minuti. E ciò, forse, permette di capire perché l’orologio rimanga un caposaldo della civiltà del tempo, resistente a tutte le mode e a tutti gli oggetti che il mondo civilizzato impone.
L’esistenza è un continuum caratterizzato dall’acquisizione di capacità che, anch’esse, cambiano lentamente.
È sbagliato pensare che, con il passare del tempo, si perda qualcosa: semplicemente si muta. Si può semmai parlare di adeguamento all’ambiente, non di perdita di capacità.
Anche in questo caso si tratta di un errore sociale e deriva dalla follia del confronto, dagli schematismi che non rispecchiano i bisogni della vita umana, ma l’utilizzo che, della vita umana, fanno le società. La società, non va dimenticato, non è mai stata una demo-crazia, ma sempre l’imperio di uno o di pochi potenti.
Da queste considerazioni emana il profumo della lentezza, di quella condizione in cui si avverte soltanto il rumore dell’esistenza, e non quello dei padroni, dei regolatori della vita dell’uomo, di ciascun uomo.
A indicare la presenza del tempo si dice siano gli astri, i corpi che si muovono nell’Universo, a cui gli antichi hanno dato il nome di Cielo.
Un altro errore, poiché l’Universo – semmai – non è la rappresentazione del «tempo che passa», ma del «tempo che ritorna». Questa notte ci sarà luna piena, domani tornerà il sole, lo stesso di ieri, identico a quello del giorno in cui sono nato, ottant’anni fa. E farei sorridere se dicessi che il sole è invecchiato con me, o perlomeno è certo che il sole, se ciò è accaduto, non se ne è accorto. Compie oggi la stessa funzione di allora.
Il tempo come ritorno, non come percorso che degenera. Il tempo rappresentato graficamente da un cerchio, non da una retta che si perde come non fosse mai stata: era questo il fondamento su cui gli antichi Greci avevano separato il Kairos da Cronos.
Il tempo suggerito dalle stelle è continuo, all’insegna del ritorno. Il tempo sociale è il percorso di una pietra che precipita, senza un senso, nel vuoto.
Un’amica astronoma mi ha svelato che anche il sole finirà tra due miliardi di anni e allora mi sono reso conto che non solo lui non lo saprà, ma anche l’uomo lo ignorerà. Ha subito aggiunto che nascono continuamente stelle novae, e ci sarà un altro sole. Ma non finisce qui. È sorto poi il problema della fine dell’Universo – mi ha spiegato –, del buco nero. Per il momento si sa che questa sarà la fine, ma non è ipotizzabile fra quanti miliardi di miliardi di anni accadrà, se accadrà. E, sorridendo, mi ha consigliato di preoccuparmi semmai solo della fine del sole!
Anche la scienza, dunque, è ossessionata dal tempo. Solo i saggi sembrano non tenerne conto. Ho amato la scienza, adesso cerco più la saggezza e, per quanto paia incredibile, credo sia dentro di me, e forse dentro ogni uomo.
Penso che compiere ottant’anni sia l’occasione per celebrare un rito, ed ecco il perché delle piccole o grandi feste che, tutte, richiamano alla partecipazione. Un grande compleanno, come se il tempo che segue non dovesse più essere considerato, non si dovesse più nemmeno tenerne conto, attenderlo. Non appartiene più alla vita della Terra, ma già a quella del Cielo. È un regalo del mistero. Come si fosse giunti, su una scialuppa, alle Colonne d’Ercole.
Anche questa festa è un errore della civiltà, la civiltà che attraverso i numeri ha fatto grandi conquiste, ma li ha usati a volte per compiere idiozie. Non bisogna dimenticare che il «contare» è il fondamento del possedere.
Io amo il tempo che scorre talmente lento da non accorgermi che passa. E così continuo a vivere dando alla vita il senso che è dentro di me: la consapevolezza di esserci e della bellezza di continuare a esserci.
Riesco a pensare l’immortalità, ma trovo difficile immaginare un uomo che vive un tempo che non finisce mai.
Ho imparato che tutto quanto la mente umana è capace di elaborare sul Cielo è fatto di buio, di dubbi e persino di assurdo. E forse sarebbe meglio dedicare i propri pensieri alla Terra, perché è nell’ambito delle cose terrene che si riesce a distinguere ciò che si deve fare e ciò che invece sarebbe bene non fare.
Conosco un poco la Terra, gli uomini e ne sono attratto, interessato. Posso forse dire che da sempre amo questo frammento di Universo e questo Uomo, così umano e così imperfetto. Anche la Terra ignora la perfezione.
Talora penso che anche la mia mente sia fatta di Terra e forse per questo non so spingermi con i pensieri oltre il confine di questo pianeta. Non ho mai aspirato all’immortalità e, anzi, a ottant’anni mi fa paura. E credo di conoscere tutto quanto è stato immaginato sul tempo che si ferma e si fa eterno. Resuscitano addirittura i corpi. Per sempre nel Regno di Dio.
Ho paura persino del Re dei re, così mi rifugio tra gli uomini e confesso che mi piacerebbe mantenere, almeno per un poco, la mia presenza in questo mondo anche quando non mi troverò più sulla Terra, ma sotto la sua coltre. È un bellissimo pensiero: lasciare per un poco viva la mia immagine, l’ombra del ricordo.
Lasciare l’impronta, fosse anche sulla sabbia che presto il vento ricopre.
Essere ricordato come un uomo.

Diventare ombra

Non mi occupo del tempo presente e tutto ciò che credo di fare è nell’illusione, forse, di essere ricordato domani. Cerco ormai di costruire un’ombra e per questo ripulisco persino il mio corpo. Sto in silenzio, cammino leggero sulla Terra.
Talvolta vedo chiaramente il paradosso: vivere il presente nella speranza di lasciare un’ombra, quando non ci sarà più nemmeno il corpo.
Sono sempre stato affascinato dall’ombra, dalla rappresentazione del mio essere distesa sulla superficie della Terra. Attaccata ai calcagni. Che sempre mi segue, ora allungandosi, ora trasformandomi in uno gnomo. A volte, non vedendola, mi sono persino disperato.
Il deserto è il luogo della Terra da cui sono stato più attratto, il deserto di dune, fatto di sabbia e della mia ombra. Nel deserto non si percepisce il corpo, ma la propria ombra. Di tanto in tanto, con la mia ombra ho giocato a nascondino. Volevo lasciarla sola, proiettata su una duna e adagiata silenziosa su quella parte che io non potevo più vedere. È come correre su una circonferenza. L’ombra non si vede anche se giri la testa.
Non so perché sia così forte il bisogno di lasciare per un poco la mia ombra, anche quando sarà senza corpo. Perché tenda a chiudermi al mondo e dunque sparire, per dedicarmi a confezionarla. È come se trasferissi l’energia vitale all’ombra, perché possa esistere e permettere che qualcuno veda in essa il corpo che non c’è più.
Non credo a un mondo di ombre, vorrei che la mia restasse sulla Terra e fosse vista non dalle ombre dei vivi, ma dai loro corpi. Vorrei si accorgessero che, questa volta, è l’ombra a tenermi in vita.
Lo so che, senza di me, non esisterebbe un’ombra, me lo insegna il deserto. Ma mi pare di poter ribaltare questo rapporto cedendo la mia energia vitale all’ombra perché ricordi che ci sono stato. È una sensazione strana, come morire nel presente per vivere (come ricordo) nel futuro, quando non sarò più.
Non è il narcisismo dell’ombra. Le ombre non si specchiano. Sono scure, ma permettono di intravedere un uomo da vivo. Forse è proprio questo il mio desiderio: sembrare vivo da morto, attraverso la mia ombra. Un’ombra che si costruisce, vivendo da morti per essere vivi quando si muore.
A ottant’anni c’è tempo per viaggiare tra i ricordi, per rileggere frammenti di vita che sono trapassati così in fretta da doverli ricercare con calma, poiché si erano persi negli anfratti della memoria.
In questo peregrinare, talora ho l’impressione di aver vissuto dedicandomi sempre alla mia ombra. La ricordo anche quando era piccola. L’ombra di un bambino è bellissima, perché lo segue sempre. E un bambino ha paura, tanta paura. Senza quell’ombra, sarei morto di paura.
Sono vecchio e so benissimo che gli uomini del tempo presente non guardano alle ombre. Sono ubriachi di «cose», invasi da demoni, fantocci di carne. Guardano solo a se stessi, evitando qualsiasi confronto perché così è più facile ritenersi belli. Figuriamoci se possono percepire le ombre.
Questa considerazione non riesce però a distogliermi dal dedicarmi a ciò che è nulla oggi, ma forse non lo sarà domani quando, del mio corpo, rimarrà solo l’ombra. Non mi importa avere consapevolezza che, se sei nulla, anche la tua ombra, giungesse pure a essere gigantesca, sarebbe nulla.
L’uomo è fatto di carne e di mistero, e l’ombra deriva dalla carne ed è puro mistero. È un mistero umano. Sono questi i misteri che mi affascinano.
Il mistero dell’immortalità mi spaventa, quello del ricordo mi aiuta a vivere: nel ...

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