Il popolo del Duce
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Il popolo del Duce

Storia emotiva dell'Italia fascista

Christopher Duggan, Giovanni Ferrara degli Uberti

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  1. 550 páginas
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Il popolo del Duce

Storia emotiva dell'Italia fascista

Christopher Duggan, Giovanni Ferrara degli Uberti

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Esprimere gratitudine, avanzare una supplica, dimostrare la propria fede, chiedere favori o un aiuto economico, ma anche esprimere al proprio leader ammirazione incondizionata, fino al desiderio amoroso o all'adorazione religiosa. Durante il ventennio migliaia di italiani impugnarono la penna per scrivere al loro capo carismatico. Per tanti il culto del Duce non fu soltanto il prodotto della propaganda ma un attaccamento profondamente sentito. Christopher Duggan ricostruisce il ventennio dagli albori dello squadrismo sino alla caduta del regime, attraverso una documentazione fatta di lettere e diari privati inediti, resoconti giornalistici, programmi radio, canzoni popolari. La straordinaria relazione intimache moltissimi italiani intrattennero con Mussolini racconta una storia emotiva dell'Italia fascista che corre sotterranea e parallela lungo i binari degli avvenimenti storici.

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Información

Año
2019
ISBN
9788858138618
Categoría
Historia

X. La difesa della razza

Paure sessuali

Quando nell’estate del 1936 il giornalista Ciro Poggiali s’imbarcò a Napoli diretto in Etiopia in veste di corrispondente speciale del suo giornale, il «Corriere della Sera», sapeva che c’erano molte cose che non avrebbe potuto raccontare. La cosa non lo turbava più che tanto. Lavorava per il «Corriere» dal 1923, e come la maggioranza dei giornalisti aveva pragmaticamente accettato la transizione dal liberalismo al fascismo e le restrizioni alla libertà che ne erano derivate. Guardandosi indietro qualche anno più tardi, non si sentì affatto tentato di pronunciare un qualsivoglia giudizio complessivo sul regime, ma riteneva che nell’atteggiamento del governo verso la stampa ci fosse stato qualcosa di «piuttosto singolare», e anzi «un tantino paradossale». Perché, ad esempio, si era messo tanto impegno nel nascondere il fatto che in Etiopia dopo il maggio 1936 la resistenza rimaneva assai diffusa? Dopo tutto, molti altri paesi avevano impiegato decenni per sottomettere le loro colonie. E perché era stata messa la sordina alla difficoltà di fare di questo paese così svantaggiato un paese prospero, quando, di nuovo, si sapeva benissimo che altre potenze coloniali avevano dovuto penare per sviluppare i loro territori? «Ma tant’è: non si volevano seminare pessimismi, non si volevano suscitare allarmi nell’animo delle moltitudini italiane ritenute tanto facili all’entusiasmo quanto proclivi all’abbattimento», scrisse Poggiali1.
Sicuramente dopo la proclamazione della vittoria fu fatto il possibile per incoraggiare l’ottimismo magnificando le meravigliose opportunità che si profilavano in Etiopia. Nel maggio 1936 un articolo uscito su «Gerarchia», la principale rivista del partito, parlava delle «inesauribili risorse», fino ad allora sfruttate solo in minima parte dalla popolazione indigena, che una «colonizzazione razionale, sistematica e progressiva» avrebbe presto sbloccato: «Si può senz’altro affermare che gli orizzonti agricoli aperti ai nostri coloni si allargano a tal punto da poterne discernere difficilmente i veri limiti». L’importante gerarca Asvero Gravelli descrisse le enormi ricchezze ricavabili dall’Africa, insistendo in particolare sul grande potenziale racchiuso nella produzione di banane, «l’oro vegetale». E nelle pagine del «Popolo d’Italia» Mario Appelius, notissimo giornalista e scrittore di viaggio, ritrasse l’Etiopia come un autentico Eldorado, sostenendo che nel suo sottosuolo si celavano «vaste possibilità». La presenza di oro era «sicura»: la confermavano i geroglifici della Valle dei Re, che ne precisavano addirittura l’esatta ubicazione: nella parte occidentale del paese, tra i fiumi Balasa e Atbara. In Etiopia c’erano anche platino, nitrati, enormi quantità di zolfo e ingenti giacimenti di ferro2.
Giornalista di grande esperienza, Ciro Poggiali aveva il forte sospetto che l’immagine ufficiale dell’Etiopia fosse destinata a rivelarsi in gran parte un miraggio, e decise di tenere un diario per registrare le impressioni e gli episodi inadatti alla pubblicazione. Già durante il viaggio s’era imbattuto in un lato più oscuro della vita nella nuova colonia. Sulla nave c’era un gruppo di donne destinate a un bordello di Asmara. Una di loro disse a Ciro che avrebbe lasciato l’Etiopia soltanto quando avesse messo insieme 400.000 lire; e calcolava che al ritmo di cinquanta uomini e 1000 lire al giorno le ci sarebbe voluto poco più di un anno: «Così potrò anche smetterla e far studiare il mio bambino sino all’università». La presenza delle prostitute a bordo creò qualche tensione, perché le donne rischiavano il rimpatrio forzato se accettavano clienti durante il viaggio. Due uomini vennero alle mani per una di loro, e Ciro pensò che se fossero stati napoletani o siciliani sarebbe scorso il sangue. La donna contesa si scusò filosofeggiando: «[S]arebbe così agevole ridare la calma al vostro sangue acceso, mercé qualche sapiente carezza professionale [...] La morale lo vieta. E la morale non l’abbiamo fatta noi». La necessità della discrezione era messa in risalto dalla presenza sulla nave di missionari e monache3.
La partenza di prostitute bianche per l’Europa rifletteva una preoccupazione crescente del governo. Nel 1927 Mussolini aveva varato la campagna demografica adducendo tra l’altro i timori (da lui pubblicamente dichiarati) riguardo alla minaccia che le razze di colore rappresentavano per l’Occidente. La prospettiva dell’incrocio delle razze nelle colonie africane gli faceva orrore. Nel 1934 aveva irosamente ordinato il sequestro del romanzo Sambadù amore negro, perché l’immagine in copertina – una donna bianca abbracciata a un uomo nero – era un oltraggio alla «dignità di razza»; e questo malgrado la storia fosse sostanzialmente «ortodossa», nel senso che si concludeva con il riconoscimento da parte della donna bianca della natura barbarica dell’amante e con il ritorno di Sambadù alla sua tribù in Africa4. Una volta iniziata la campagna etiopica, i sottintesi sessuali di molte canzoni popolari furono una fonte di costernazione, e nella primavera del 1936 il governo tentò di mettere al bando Faccetta nera. Quando la cosa si dimostrò impossibile cercò di ripulire il testo rendendolo più «decoroso»: «quando saremo insieme a te» diventò «quando staremo vicino a te»5. E subito dopo la vittoria furono adottate misure per introdurre una rigorosa segregazione razziale, e le mogli furono sollecitate a raggiungere il più presto possibile i mariti impegnati in Africa. Nel frattempo il ministro delle Colonie chiese al nuovo viceré dell’Etiopia, Rodolfo Graziani, di creare dei bordelli (mobili, se necessario) con prostitute esclusivamente bianche, e «vietando assolutamente l’accesso agli indigeni»6.
Il problema che il governo aveva di fronte in Etiopia apparve con chiarezza a Ciro quando sbarcò ad Asmara. Il porto formicolava di soldati italiani, e c’era un solo bordello con prostitute bianche: un grande edificio con celle di legno e due ingressi: uno per la truppa, che pagava 15 lire per la marchetta (utilizzabile in qualunque giorno, ma non dopo le otto di sera); e l’altro per gli ufficiali e i membri rispettabili della popolazione civile, che pagavano 25 lire e dovevano indossare la cravatta (ma chissà perché non la sahariana). Le donne servivano entrambi i gruppi, e si sapeva che intascavano in media mille lire al giorno. Chiaramente, come scoprì Ciro, stentavano a far fronte a una domanda così elevata, col risultato che restava un ampio spazio per le prostitute locali, che lavoravano in un complesso di edifici perfettamente arredati in un determinato quartiere della città («Evidentemente qui la civiltà della prostituzione è più elevata che da noi»). Per impedire ai clienti d’infilare le porte sbagliate, le case contigue avevano le parole «casa per famiglia» scritte sui muri esterni. Ciro s’imbatté in una giovane prostituta che piangeva rumorosamente. Il carabiniere che era appena stato con lei spiegò che era sconvolta perché le aveva dato dieci lire, quando lei ne voleva venti. Ciro sospettò che in realtà l’incidente nascesse dal fatto che «quel giovane rappresentante dell’ordine italiano» s’era rimangiato la sua promessa7.
Ciro si rese presto conto che il proposito del governo d’introdurre una rigorosa segregazione razziale e di far cessare i contatti sessuali tra gli italiani e la popolazione locale era destinato a dimostrarsi di difficilissima realizzazione. Non c’è dubbio che fin dall’inizio le autorità coloniali non lesinarono gli sforzi. Nei limiti del possibile, tennero bianchi e neri separati nei luoghi pubblici (compresi gli autobus), e approntarono piani per lo sviluppo urbano che avrebbero permesso alla comunità italiana di vivere isolata dagli etiopici8. E nella primavera del 1937 fu varata una legge che puniva con il carcere fino a cinque anni il matrimonio interrazziale e il mantenimento di un’amante africana (il cosiddetto «madamismo»). Ma in pratica queste misure si rivelarono assai poco efficaci; e non aiutava il fatto che in Etiopia parecchi alti ufficiali continuassero a intrattenere rapporti con donne del posto. Un ulteriore problema era la scarsità di contraccettivi (Ciro seppe di una farmacia di Asmara che esaurì i mille pezzi appena arrivati in un solo giorno)9, con conseguente alto rischio di infezioni e gravidanze. Non conosciamo il numero preciso dei bambini di sangue misto nati nelle colonie italiane, ma le stime suggeriscono la cifra di forse 10.000 casi tra il 1936 e il 194010.
Dietro gli sforzi del governo per creare una barriera tra italiani ed etiopici si celavano ansie di varia specie. Mussolini era personalmente in preda a una miscela particolarmente sordida di paure e pregiudizi. In una notissima intervista concessa nel 1932 allo scrittore tedesco Emil Ludwig argomentò giudiziosamente che la razza era «un sentimento» piuttosto che una realtà, e che la «forza e bellezza» di una nazione erano spesso il prodotto di una ricca mescolanza di razze nel corso dei secoli11. Ma le opinioni che esprimeva in privato erano meno gradevoli. Nel maggio 1936 disse a un alto diplomatico che era vitale impedire agli italiani di avere rapporti sessuali con africani, perché «una razza di mezzosangue» sarebbe diventata «il nostro peggior nemico». Non spiegò che cosa esattamente intendeva12. In compagnia di Claretta diventava particolarmente disinvolto. Nel 1938 l’informò che il suo razzismo risaliva al 1921, e insisté sull’importanza di creare negli italiani una coscienza razziale, affinché non generassero una prole di mezzosangue e «non guastino ciò che c’è di bello in noi». Giudicava la situazione esistente in Francia – un paese che aveva un presidente del Consiglio ebreo e un vicepresidente dell’Assemblea Nazionale nero («non olivastro, negro come l’inchiostro») – un ammonimento circa i pericoli della mancanza di una chiara coscienza razziale. Prevedeva che presto la Francia sarebbe stata sommersa dalla gente di colore, perché le donne di quel paese avevano uno spiccatissimo debole per la potenza sessuale dei negri13.
A stereotipi razziali di questo tipo riguardanti i neri si affiancavano opinioni non meno razziste sugli stessi italiani. Mussolini inveiva spesso contro i difetti dei suoi connazionali, e sosteneva che i loro vizi erano dovuti al fatto che molti erano discendenti di schiavi. Nel 1938 disse a Claretta che erano gli italiani di stirpe servile che in Etiopia coabitavano con donne nere. E t...

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