Verdi tribù del Nord
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Verdi tribù del Nord

La Lega vista da un antropologo

Marco Aime

  1. 168 páginas
  2. Italian
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Verdi tribù del Nord

La Lega vista da un antropologo

Marco Aime

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«Un linguaggio nuovo e allo stesso tempo antico, come tutto ciò che viene dalla Lega che, muovendosi liberamente e senza disagio alcuno nell'ambiguità, presenta come novità idee vecchie, e finge di legarsi al passato, per introdurre proposte nuove». L'antropologia spiega la politica della Lega, popolare e populista, convinta che esistano un territorio, una tradizione, delle radici da difendere, e il consenso che ha raccolto in tutto il paese, spostando il fulcro dal demos all'ethnos, dal popolo all'etnia.

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Información

Año
2012
ISBN
9788858103845

1. Un nazionalismo ignorante

Nazionalismo, etnocentrismo e razzismo – dèmoni che da tempo credevamo esorcizzati – sono riapparsi più forti che mai dopo mezzo secolo di quiescenza.
Patrick Geary
Il mito delle nazioni

Il passato e la memoria

Da ormai una trentina di anni il panorama politico italiano si è arricchito di una nuova componente che, smarcandosi dai vecchi partiti delle cosiddette Prima e Seconda Repubblica, ha declinato le istanze dell’elettorato in elementi post-ideologici, traducendo le istanze di classe e le ideologie del Novecento in termini di identità etnica e territorialità, mettendo peraltro in discussione l’unità del paese.
Le ripetute minacce e i ricorrenti richiami dei vari esponenti leghisti alla secessione e alla nascita di una Padania libera e indipendente, vanno intese come segni evidenti di una nascente spinta di tipo nazionalista o meglio etno-nazionalista. Storici come Benedict Anderson e antropologi come Ernest Gellner ci hanno insegnato che sono i nazionalismi a dare vita alle nazioni e non viceversa e che l’idea di nazione non parte dal basso, ma sono le élites a costruire un nuovo quadro di riferimento simbolico capace di catalizzare la volontà popolare[10].
Un aspirante Stato non può fare a meno di un passato che lo legittimi. «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato», recitava uno degli slogan del Ministero della Verità nel celeberrimo 1984 di George Orwell. Il ministero dove lavorava Winston Smith, protagonista del romanzo, il cui compito era «correggere» libri e articoli di giornale, al fine di rendere riscontrabili e veritiere le previsioni fatte dal partito. In questo modo il passato finiva per fornire al partito di governo una sorta di legittimazione ineludibile e incontestabile.
Con il suo lucido cinismo Orwell ha sempre colto, con estrema puntualità, le dinamiche più profonde della politica e della storia. Se osserviamo i processi che hanno dato vita alle nazioni, ieri come oggi, vediamo che il perno più solido su cui i nazionalisti di ogni angolo del pianeta hanno fatto leva è il passato, o meglio una certa idea di passato che fa riferimento più alla memoria collettiva, che alla storia vera e propria. La differenza, ci spiega Enzo Traverso, sta nel fatto che: «la memoria ha una vocazione singolare, legata alla soggettività degli individui e dei gruppi, mentre la storia ha una vocazione universale»[11]. La memoria è pertanto più facilmente manipolabile perché è qualitativa e non ha bisogno di prove: per questo è sempre stata uno degli strumenti principali per la costruzione di ideologie di carattere nazionalista. Nel caso della Lega – come vedremo – si è messo in atto un tentativo per «costruire» una memoria collettiva, anziché basarsi su una memoria già esistente.
La manipolazione e la ricostruzione del passato sono pratiche ricorrenti, che tendono a proiettare sempre più all’indietro nel tempo l’origine del sistema di potere vigente o di quello auspicato, ad affermare un senso di continuità, a fare apparire sempre più «naturale» ciò che invece è un prodotto storico. In questo modo si compie un’operazione doppia e apparentemente contraddittoria: utilizzando la storia in modo strumentale e ingannevole si sottrae il sistema dominante o quello che si auspica prenda il sopravvento proprio alla storia; in seconda battuta, evocandone il prolungato passato, lo si consegna a una dimensione remota, originaria, un po’ confusa e molto più vicina alla natura che alla storia. Naturalizzare e reificare il passato, è un modo per renderlo ineluttabile, inscalfibile, e attribuirgli un potere condizionante illimitato.
«Nazionalismo e razzismo si giustificano mediante un’appropriazione e un’alterazione sistematica della storia», scrive il medievista Patrick Geary; «secondo questa pseudo-storia i popoli europei sono entità distinte, stabili e oggettivamente identificabili. Questi popoli sono diversi gli uni dagli altri per lingua, religione, costumi e carattere nazionale, tutti elementi che vengono presentati come realtà incontestabili e immutabili». Il tutto intriso di una retorica che si fonda su presunti elementi (lingua, origine, costumi) che vengono presentati appunto come realtà incontestabili e immutabili e che si rifà «all’idea sottesa di una ‘acquisizione iniziale’, che avrebbe avuto luogo in un momento dato»[12]. In realtà, la cultura non è ciò che viene dal passato ma, al contrario, è il passato che noi costruiamo. Si tratta di quel processo chiamato filiazione inversa, secondo cui «non sono i padri a generare i figli, ma i figli che generano i propri padri. Non è il passato a produrre il presente, ma il presente che modella il suo passato. La tradizione è un processo di riconoscimento di paternità»[13].
Si arriva così a quello che François Hartog ha definito «presentismo», una situazione nella quale il presente è diventato l’unico orizzonte. Un presente che, senza futuro e senza passato, genera in permanenza entrambi, secondo i bisogni[14].
Grazie alla rapidità delle comunicazioni, tutto avviene sotto i nostri occhi, in tempo reale e la dimensione del presente sembra dilatarsi sempre di più. La rapidità con cui tutto viene consumato comprime il tempo e ogni attimo sembra comprendere intervalli temporali sempre più lunghi. L’ora e il qui diventano preponderanti rispetto al tempo passato e a quello futuro. È questa la surmodernità, un’accelerazione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze e pertanto il tempo prevale sullo spazio. Dai nonluoghi si è passati al nontempo, bruciando la tradizionale fatica dell’attraversare il presente, su cui sembriamo oggi scivolare senza attrito alcuno[15].
Per millenni l’uomo ha vissuto a cavallo di due piani cronologici che bilanciavano la sua esistenza: dietro di sé aveva un passato più o meno lungo, più o meno conosciuto, con cui fare i conti. Una sorta di pozzo da cui attingere elementi per costruire la sua esperienza, ma anche per erigere la propria identità. Davanti a sé c’era il futuro, un canestro vuoto da riempire con le speranze, le istanze di cambiamento, i sogni. Ci sono state epoche più statiche, altre animate da spinte in avanti, ma passato, presente e futuro rimanevano in costante dialogo tra di loro.
Oggi, con la colonizzazione mediatica che segna sempre più le nostre vite, passato e futuro sono diventati piccole ancelle del presente: il primo, triturato da una valanga di informazioni di rapido consumo, dal fiato corto e reso sempre più apparentemente inutile dalla rapida rivoluzione in corso; il secondo, sempre più vago, immerso in quella liquidità di cui parla Zygmunt Bauman, sempre meno incline ad accogliere mete da raggiungere. Alla storia si sostituisce la memoria collettiva e, secondo la definizione formulata da Henry Bergson, al tempo matematico viene opposto un tempo vissuto[16].
La storia comincia là dove la tradizione finisce e si decompone la memoria sociale, sostiene Maurice Halbwachs[17]. Un’affermazione che riflette un approccio che in antropologia viene definito etico e cioè quello dell’osservatore esterno, del ricercatore, che è altro rispetto alla comunità che studia. È uno sguardo da fuori, che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo scientifico. Nel caso della memoria, invece, è il punto di vista emico a prevalere, quello di chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi fatti con una prospettiva interna, che spesso compie gesti, agisce, senza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo, routine.
Non sono i fatti in sé a essere importanti, ma la percezione che si ha di essi. Ecco allora che, come scrive Enzo Traverso, nelle retoriche nazionaliste si assiste a una reificazione del passato, che diventa oggetto di consumo: «il passato si trasforma in memoria collettiva dopo essere stato selezionato e reinterpretato secondo le sensibilità culturali, gli interrogativi etici e le convenienze del presente [...] la memoria è una costruzione sempre filtrata da conoscenze acquisite successivamente»[18].
Nel caso della Lega abbiamo assistito e assistiamo in tempo reale a una vera e propria «invenzione della tradizione»[19], a una proiezione all’indietro – in un passato peraltro confuso, oscuro (quando non falso) e volutamente non definito – di istanze del presente alla ricerca di una legittimazione etnica e storica.
Il richiamo all’antico, da cui deriverebbe il diritto all’autodeterminazione dei contemporanei, sembra essere una costante e ci costringe a riflettere su come i movimenti nazionalistici possano affidarsi alla storia oppure alla natura e all’idea di naturale per legittimare le proprie scelte. Si possono cercare nel passato storico eventi più o meno veritieri, che giustifichino rivendicazioni di specificità e di incompatibilità con il resto, oppure si può spingere la propria origine indietro, fino a epoche remote, quasi mitiche, consegnando così il momento della nascita del proprio gruppo a una dimensione quasi sacra. Come recita un proverbio africano, «Quando la memoria va a raccogliere rami secchi, ritorna con il fascio di legna che preferisce».

Barbari e naturali

Già nell’antica Grecia si distinguevano quei popoli, la cui esistenza era considerata costituzionale, da quelli definiti naturali. I primi erano nati da una storia, dalla costruzione di regole comuni e dalla volontà dei loro membri di stare uniti, in altre parole erano i popoli civilizzati. Gli altri erano invece i barbari, che venivano situati al di fuori del processo storico e la cui esistenza era considerata legata alla natura, cioè fondata sulla discendenza, sui costumi e sulla geografia. La loro cultura era determinata dalla natura, più che dalla loro volontà. C’era però, per gli individui, la possibilità di emanciparsi dalla condizione originaria: il barbaro che imparava il greco e che assimilava i costumi della polis diveniva cittadino.
Questa visione si è perpetuata nei secoli, con l’attribuzione, da parte di quelli che si consideravano civilizzati, di una condizione di selvatichezza quasi animale agli indigeni di diverse parti del mondo. In epoca moderna tale visione venne ulteriormente accentuata, anzi si potrebbe dire che l’inizio della modernità coincida proprio con l’incontro con culture fino ad allora sconosciute, come quelle americane. La scoperta di Colombo spezzò la visione monocentrica del mondo e allo stesso tempo diede inizio alla «messa in discorso dell’altro»[20]. Fu in seguito a queste nuove narrazioni che i popoli «naturali» continuarono, nel nostro immaginario, a vivere la loro esistenza tribale e condizionata dalla tradizione, mentre l’Occidente dava vita allo Stato-nazione e successivamente alla democrazia, che emancipava gli individui dalle pastoie della loro origine per proiettarli in un’esistenza fatta di regole costruite, per garantire a tutti diritti comuni. Lo Stato, la nazione erano la conquista, il progresso, l’allontanamento dalla natura in favore di una sempre maggiore preponderanza della cultura e delle scelte degli uomini. Non a caso i popoli extraeuropei venivano spesso definiti con espressioni che rivelavano non ciò che erano, ma cosa non avevano: popoli senza storia, senza scrittura, senza Stato. A designarli era sempre una qualche mancanza.
Sarà lo sguardo indulgente e un po’ paternalista di Rousseau a rivalutare la condizione naturale degli uomini. Il suo «buon selvaggio», più ipotizzato che reale, viveva in uno stato di assoluta simbiosi con la natura, non ancora intaccato dall’idea della proprietà privata e dell’interesse personale. Il progresso e la civiltà lo allontaneranno poi dalla sua condizione originaria per catapultarlo in un mondo di diseguaglianze. Ecco, però, intervenire lo Stato a porre rimedio a queste ingiustizie, sancendo e garantendo un patto collettivo. È il contratto tra individui, anche diversi, non la loro origine, a tenere insieme gli uomini.
La Rivoluzione francese diede vita a un cambiamento radicale nel modo di vedere il passato. Per la prima volta ci si rifiutò di riconoscere una matrice etnica al popolo francese, che non venne neppure più definito sulla base della lingua comune, ma sull’appartenenza a una cittadinanza. Da quel momento l’idea di nazione assunse il significato di comunità basata sull’eguaglianza politica e sulla democrazia[21]. L’unico vero requisito, semmai, era la volontà di difendere il bene comune contro gli interessi particolari e di accettare le libertà e le leggi della Repubblica. Nasceva la coscienza di poter scegliere il proprio destino e non di vederselo assegnato da un marchio originario.
Oggi però, proprio nel cuore dell’Occidente, come nel caso della Padania, si assiste al s...

Índice

  1. — epigrafe
  2. Introduzione
  3. 1. Un nazionalismo ignorante
  4. 2. Noi, padani
  5. 3. Dialetti, lingua e linguaggio
  6. 4. Verde ambiguo
  7. 5. Avanti verso il passato
Estilos de citas para Verdi tribù del Nord

APA 6 Citation

Aime, M. (2012). Verdi tribù del Nord ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3460285/verdi-trib-del-nord-la-lega-vista-da-un-antropologo-pdf (Original work published 2012)

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Aime, Marco. (2012) 2012. Verdi Tribù Del Nord. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460285/verdi-trib-del-nord-la-lega-vista-da-un-antropologo-pdf.

Harvard Citation

Aime, M. (2012) Verdi tribù del Nord. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460285/verdi-trib-del-nord-la-lega-vista-da-un-antropologo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Aime, Marco. Verdi Tribù Del Nord. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2012. Web. 15 Oct. 2022.