III. Sulla odierna ‘incertezza’
del diritto
1. Certezza del diritto, modernità giuridica, assolutismo giuridico; 2. La certezza del diritto come certezza della legge. L’assillo moderno per la legalità; 3. Il Novecento giuridico e le sue novità dirompenti; 4. Il costituzionalismo pos-moderno: principii versus legalità; 5. Principio di ragionevolezza versus legalità; 6. I principii nel laboratorio giuridico Europa; 7. Sull’odierno ripensamento delle fonti del diritto; 8. Centralità dei principii e nuovo ruolo della interpretazione; 9. Il principio di legalità nella attuale vicenda storica in Italia; 10. Legalità e certezza nel diritto amministrativo; 11. Legalità e certezza nel ‘Codice del processo amministrativo’.
1. Se dovessi dare un titolo a questo saggio, il più conveniente mi parrebbe essere: Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto, segnando bene il vocabolo incertezza tra due virgolette. Anche perché, come vedremo nel distendersi delle nostre considerazioni, se c’è una forca caudina di carattere culturale e tecnico di cui dobbiamo sbarazzarci, è la netta antìtesi certo/incerto, certezza/incertezza, inculcàtaci pressantemente e restata nel cuore – più che nell’intelletto razionale – di noi giuristi italiani. Ma cerchiamo di spiegarci meglio.
Ciò che noi siamo soliti chiamare ‘certezza del diritto’ è una ‘verità’ che ci proviene dal seno profondo della modernità giuridica, una ‘verità’ in cui parecchie generazioni di giuristi – dagli adepti settecenteschi del credo illuministico ai sacerdoti otto-novecenteschi del culto della legge – hanno convintamente creduto, tanto da proporla come una acme di civiltà giuridica, ineguagliabile e, pertanto, insopprimibile.
Avvìo le mie considerazioni con quella che può a taluno sembrare una blasfemìa: per i giuristi italiani la mala sorte della ‘certezza del diritto’ è stata di aver formato oggetto, nel 1942, anno ancora lacerato da un disastro mondiale, delle riflessioni di levatura altissima da parte di Flavio Lopez De Oñate, un filosofo che, ovviamente, l’ha osservata e sviscerata con l’unico occhiale che gli era proprio, quello filosofico. I giuristi, quelli intrisi della tradizione post-illuministica e post-rivoluzionaria, se ne impossessàrono immediatamente, né si résero conto (o non lo si volle fare, ma per i più si trattò di una pedissequità inconsapevole) che Lopez De Oñate disegnava la certezza ben all’interno della sua visione filosofica dominata dall’idealismo attualistico di Gentile; una visione dove il diritto si stagliava automaticamente come volontà costante e generale, la quale unicamente nella sua costanza e generalità (ossia anche nella sua certezza) trovava e affermava la propria eticità.
In questa visione la legge si proponeva in una sua dimensione soprattutto etica, perché considerata quale efficace salvaguardia dagli arbitrii del particolare. Un acuto filosofo del diritto, che ha – di recente – letto simpateticamente le pagine di Lopez De Oñate ottanta anni dopo la loro pubblicazione (ma anche pacatamente, nella decantazione che il decorso del tempo conferiva loro), ha segnalato (e non lo poteva, certo, negare) l’orientamento attualistico, tentando però di identificarlo nella “aspirazione allo Stato di diritto”. Così facendo, tuttavia, non mancava di immergere l’ènfasi lopeziana per la certezza in quello ‘Stato di diritto’ di conio sette-ottocentesco contrassegnato dal culto della legge e da una visione volontaristica e, conseguentemente, assolutistica del diritto. Lopez De Oñate, insomma, in grazia delle proprie adesioni all’attualismo gentiliano, dava una legittimazione filosofica al giuspositivismo moderno. Ecco perché parlavo più sopra di mala sorte, almeno dal punto di vista che viene espresso in questa riflessione e che è decisamente critico.
Infatti, furono proprio i tanti pervicaci apologeti del verbo legalistico a cantarne le lodi, primo fra tutti Piero Calamandrei, ancora avvinto (ma per poco) da un legalismo compattissimo, dimentico anche di quelle leggi fasciste del 1938 formalmente perfette e, ohimè!, assolutamente certe nei loro contenuti aberranti e ripugnanti di indole razzistica.
Si trattava degli estremi rivèrberi di quella che, per due secoli, era parsa luce orientatrice per ogni giurista. Più sopra, abbiamo scritto ‘verità’, vocabolo ingombrante, evidenziàndolo bene fra due virgolette per trasmettere al lettore la fragile consistenza di un dogma sostanzialmente immotivato e immotivabile; e avremmo potuto scrivere più efficacemente ‘mito’, ossia una proposizione da credere e rispetto alla quale è indebito un atteggiamento di conoscenza critica.
Sia, infatti, chiaro che la certezza quale principio sommo deve essere còlto come strettamente collegato a una civiltà improntata a un fermo assolutismo giuridico, espressione prima e fondamentale di essa, di essa autentica condicio exsistendi; deve essere, insomma, vista come strumentale alla autorità investita del potere di produrre le norme. Essa è un bene, un pregio, una verità solo se la si osserva, come – ohimè! – generalmente si è fatto, dalla parte del titolare del potere, ma perde parecchio di senso se la si guarda sotto il profilo del quisquis de populo, del povero cristiano inteso non più come suddito ma come persona meritevole di tutela.
Incantati dai luoghi comuni che ci hanno accompagnato fino al nostro risveglio ‘costituzionale’ dei tardi anni Quaranta, non ci si è resi conto che, per tutto il tempo della modernità, ivi compreso il momento in cui si modella e si realizza il cosiddetto Stato di diritto, il protagonista è costantemente il potere politico, restando al diritto come caratterizzante una dimensione potestativa; e tutta la sbandierata conquista si è ridotta in autolimitazioni dello Stato. È ovvio che, se il diritto è espressione del potere, si ha inevitabilmente la sua riduzione a comando, a un insieme di comandi; e se è comando, deve essere ubbidito, ma può esserlo solo se il comando è certo.
2. Con la moderna ‘certezza del diritto’ siamo immersi, dunque, ben all’interno di una ampia serie di arnesi mitologici di cui la modernità giuridica è straordinariamente doviziosa.
Il primo è lo Stato quale unico produttore di diritto, al quale consegue, dapprima, il mito della legge quale unica fonte capace di esprimere la volontà generale e, quindi, quello della sua intrinseca giustizia e della indiscutibile infallibilità del legislatore.
Il secondo è che la produzione del diritto ha termine con la promulgazione del testo contenente la volontà del legislatore quale unico produttore, con la rilevantissima conseguenza (rilevantissima precisamente per costui) che l’attività intellettuale di ogni interprete (e soprattutto del giudice) si riduce (non può non ridursi) nella rigida scansione logica del sillogismo benedetto in tante pagine illuministiche. Ecco, chiaramente, in che consiste, essenzialmente, la cosiddetta certezza del diritto.
Quando, nel 1942-43, si ebbe la coralità laudativa per il libro di Lopez De Oñate fresco di stampa (alterando anche la sua idealistica fisionomia di nuvola filosofica galleggiante al di sopra della terrestrità dell’esperienza giuridica), una voce lucidamente stonata fu quella di Francesco Carnelutti, sonoramente critico verso i suoi maestri e colleghi (tra i quali inseriva espressamente Calamandrei) da lui identificati nei “candidi adoratori della legge, ossia della certezza del diritto”. L’equiparazione carneluttiana può apparire, di primo acchito, indebita, ma coglie invece nel segno. Quel che unicamente importa è la certezza della legge; il diritto – realtà ben più ampia – non ha nulla a che fare, ed è completamente fuori della strategia mitizzatoria moderna.
Certezza della legge. Ora, si è finalmente usato un vocabolo appropriato. La ‘verità’ – il ‘dogma’, il ‘bene supremo’ – rivela il suo vero vólto: fa parte (vale la pena di ripeterlo) della strategia portante di una civiltà – quella moderna, consolidata a fine Settecento nelle rigidezze giacobine della Rivoluzione francese – che ha la propria fondazione nel monopolio statale della produzione giuridica e che intende renderlo indiscutibile grazie a un processo mitizzatorio della legge e del legislatore. La certezza che preme è soltanto quella della legge quale manifestazione della volontà del supremo potere politico, perché unicamente di una legge certa, ossia certa nei comandi segnati nel suo testo cartaceo, si può pretendere l’obbedienza.
Il diritto, di cui si parla nel sintagma tralatizio, si riduce, dunque, qui inesorabilmente al contenuto di un comando, a un atto di volontà che deve essere obbedito. Nel cittadino la virtù massima che si pretende è una obbedienza semplice, senza perplessità o discussioni, cui corrisponde da parte del legislatore il dovere della certezza, unico presupposto perché possa scattare il meccanismo di una automatica obbedienza. È per ciò che il diritto moderno nell’Europa continentale non è solo scritto, ma è costretto in testi organici dalla intelaiatura rigorosamente sistematica, i Codici, dettagliati al punto da poter pretendere di esaurire ogni possibile fattispecie. Siamo qui di fronte alle nervature più riposte (ma anche più gelose) del positivismo giuridico moderno, sapientissimo nell’ammantarsi di pretese verità, anche se queste coprivano sostanzialmente la veste più grossolana di apparecchiature patentemente ideologiche. Il che è stato ammesso da positivisti come Bobbio e Scarpelli, non dimentichi di essere allievi del d...