La democrazia del leader
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La democrazia del leader

Mauro Calise

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La democrazia del leader

Mauro Calise

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La nostra democrazia è irriconoscibile. Senza una rappresentanza funzionante, senza partiti governanti, senza elettori partecipanti. Una democrazia senza. Al centro della scena politica resistono solo i leader, ultimo perno di comunicazione, mobilitazione e decisione. Avamposto sempre più isolato della frontiera pubblica occidentale. Ma può la democrazia sopravvivere solo come protesi e baluardo della leadership? Per rispondere, dobbiamo avere il coraggio di capire perché il re è ritornato nudo. E cosa ci aspetta, oltre l'ultima spiaggia.

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Información

Año
2016
ISBN
9788858124109
Categoría
Économie

1.
La metamorfosi del partito

I tre pilastri del figurino costituzionale classico – Parlamento, Magistratura, Governo – hanno subìto poche modifiche nella loro storia secolare. Sono divenuti più complessi, cresciuti nella sfera di intervento e nel personale operativo coinvolto. Ed è mutato l’equilibrio interno dei loro poteri, a discapito del parlamento e a vantaggio di magistratura ed esecutivo. Ma le loro funzioni fondamentali sono rimaste le stesse, nella realtà non meno che nella rappresentazione corrente. In un mondo che ha subìto trasformazioni e rivoluzioni su scala planetaria, continuiamo a parlare di questi tre poteri come se fossimo ai tempi di Montesquieu. Come è stato possibile? Come si spiega la straordinaria stabilità dell’assetto istituzionale a dispetto dei radicali sommovimenti della nostra società, economia, cultura? La risposta sta nel partito politico. È il partito ad avere svolto il ruolo cruciale di ammortizzatore, canalizzatore e traduttore delle spinte fortissime che, dal basso, hanno a più riprese messo alla prova la stabilità dell’ordine politico. La definizione classica di questo ruolo risale alla scienza giuridica tedesca, con la definizione di «incorporazione delle masse», che mette a fuoco i due corni principali del problema.
Da un lato, il ruolo chiave del partito, la vera ragione della sua ascesa al centro della scena politica, risiede nella capacità di intercettare e governare le domande di un elettorato che coinvolge la totalità dei cittadini. Abituati a dare per scontato il diritto universale al voto, spesso dimentichiamo quanto questa conquista sia stata contrastata. E come solo in pochi paesi si sia riusciti a evitare che l’ingresso delle masse in politica si trasformasse in un processo rivoluzionario. A fronte di Stati Uniti e Inghilterra, che faranno da battistrada in un processo di progressivo ampliamento della franchigia e di altrettanto graduale crescita dell’importanza dei partiti, i paesi dell’Europa continentale stenteranno a trovare tempi e modalità pacifici di assorbimento. Col risultato di dare vita a – più o meno durature – rotture. Sul fronte destro o su quello sinistro dello schieramento ideologico, ma comunque senza una evoluzione lineare del regime liberale in una compiuta democrazia dei partiti.
Nel termine «incorporazione delle masse» ritroviamo anche un altro elemento fondativo della nostra tradizione politica, l’idea che la comunità dei cittadini si costituisca in un organismo collettivo che la comprende e, al tempo stesso, la trascende. Trasformandola da un aggregato – più o meno omogeneo e volatile – di individui in un corpo dotato di una propria vita autonoma. È questo il nocciolo dell’idea di Stato, che si affaccia sulla scena europea agli albori dell’età moderna. La culla di questo costrutto è in quel fervido laboratorio di riscoperta e divulgazione del diritto romano rappresentato dalla cultura cluniacense, cui si devono i princìpi portanti della statualità tramandatisi fino ai nostri giorni: un corpo politico dotato di vita propria, che si sottrae alla caducità e aleatorietà dei suoi componenti, e che ne regola la riproduzione nel tempo attraverso un sistema di leggi, sottraendoli all’arbitrio e, al contempo, garantendone la durata. Per questa idea che sancisce il passaggio dal potere personale a quello collettivo, la lingua inglese usa il termine corporation, il corpo che si fa istituzione.
I partiti politici rientrano a pieno titolo in questa millenaria tradizione corporata o, se si preferisce, corporativa. Fin dagli esordi si costituiscono come un «body of men», quale che sia il loro collante: princìpi, interessi, ideologie. Ed è proprio questa loro natura statuale a colpire i primi studiosi, in positivo come in negativo. Ostrogorski, il precursore della loro analisi comparata, metteva in guardia contro il fatto che i partiti si stessero organizzando come una macchina di potere in concorrenza col «legislativo imperiale». E Michels li vedrà come «uno Stato nello Stato», anticipando pregi e difetti di quella legge di ferro dell’oligarchia che sarà il primo a denunciare. La forza e la coesione istituzionale dei partiti varieranno a seconda dei contesti geopolitici e delle fasi di evoluzione. Ma resterà una loro caratteristica fondativa, un tratto qualificante e identitario. Fino alla consacrazione nella nota definizione alberoniana dei «partiti chiesa», un organismo in cui elettori, simpatizzanti, militanti e quadri professionali si ritrovano con ruoli diversi. Ma unificati e cementati dalla medesima appartenenza.
Questo processo di incorporazione associativa sarà agevolato dalle radici sociali che alimentano la formazione dei principali partiti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. L’analisi politologica individua quattro grandi fratture – i cleavages – che spaccano in due parti contrapposte grandi aggregati di popolazione: città e campagna, operai e padroni, centro e periferia, Stato e Chiesa. La profondità e la durata di queste fratture saranno determinanti nel fornire ai nascenti partiti di massa un serbatoio costante di partecipazione e sistemi valoriali, che consentiranno loro di consolidare la propria organizzazione come attore istituzionale. Raggiungendo un alto livello di autonomia, nei meccanismi di riproduzione interna, che è il tratto distintivo di ogni potere corporato. Al punto di riuscire a sopravvivere al declino delle fratture sociali da cui avevano trovato origine, cristallizzandosi al potere e finendo con il monopolizzare l’accesso ai vertici del sistema politico, impossessandosi dei canali di selezione del ceto rappresentativo. E trasformando il loro stesso ruolo di aggregazione della domanda: da settori specifici – religiosi, di classe, territoriali – a una raccolta indifferenziata del consenso. Con l’avvento di quelli che Kirchheimer chiamerà i partiti pigliatutto, organizzazioni che, per sopravvivere, sono costrette a inseguire elettorati sempre più instabili e disarticolati.
Fino al passaggio che segna lo scorcio del Novecento, la progressiva statalizzazione dei partiti. La creazione, cioè, di una simbiosi sempre più stretta tra organizzazione di partito e organismi – ai vari livelli – dello Stato. Il fenomeno assume denominazioni – e connotazioni – diverse, a seconda del clima culturale. I tedeschi saranno i primi a parlarne, vedendo nel Parteienstaat il coronamento di un processo di legittimazione democratica di un apparato statale rimasto, a lungo, ostile alla partecipazione delle masse. In Italia, la sinergia virtuosa della repubblica dei partiti verrà – col tempo – etichettata, in chiave più derogatoria, come regime partitocratico. Fermo restando l’assunto portante che l’edificio statale si reggeva e funzionava – nel bene come nel male – prevalentemente grazie all’apporto dei partiti: in termini di personale politico-amministrativo non meno che di canali di collegamento tra il centro e la periferia. La codificazione, su un piano sistematico e comparato, arriverà con le analisi di Katz e Mair sul cartel party, l’oligopolio dei partiti storici sulle risorse istituzionali, in termini sia di accesso che di gestione. Un meccanismo che coinvolgerà la stessa struttura organizzativa dei partiti, sempre meno capace di intercettare nuovi input dalla società, e sempre più condizionata dai canali di smistamento – e occupazione – delle risorse pubbliche.
In questi snodi dell’evoluzione partitica – di massa, pigliatutto, statocentrici – persiste, anzi si rafforza, il carattere originario di una formazione corporativa. Vale a dire, di un organismo il cui assetto decisionale e il meccanismo di allocazione delle risorse sono contraddistinti da una spiccata collegialità. In questo, i partiti si collocano nel solco della tradizione politica dominante, che troverà in Max Weber la sistemazione più consona agli sviluppi della società industriale. Nella sua celebre tipologia del potere legittimo, Weber distinguerà – e contrapporrà – il potere legale-razionale, quale architrave della modernità, al potere personale tipico delle società tradizionali, nella veste patrimoniale e/o in quella carismatica. Si sa che Weber ebbe qualche tentennamento, di cui non farà in tempo a pentirsi, sul futuro del potere carismatico. E che nutrì più di qualche perplessità sugli effetti che le rigide maglie della razionalità burocratica avrebbero potuto avere sui mondi vitali più profondi della condizione umana. Ma lo sviluppo del Novecento, nell’industria come nella politica, sarà segnato dall’ethos e dal dominio delle grandi burocrazie collettive. I regimi democratici e quelli autoritari, come le imprese capitalistiche e quelle socialiste, fonderanno la propria crescita sul principio della calcolabilità e riproducibilità – nel tempo e nello spazio – garantiti da un ordinamento legale-razionale. I partiti non saranno da meno. Anzi, di questo meccanismo si faranno, oltreché propugnatori, anche scudo.
Uno degli attributi più importanti del potere corporato, infatti, è quello della responsabilità limitata. Si tratta di un corollario della spersonalizzazione del potere che è a fondamento dell’idea stessa di corporation. Nel costituirsi come entità collettiva, il potere cessa di essere la prerogativa di un singolo. Ne consegue che le scelte, le azioni, i comportamenti di un corpo istituzionale non sono più imputabili direttamente a un determinato individuo. La corporation, per sua natura, agisce in un regime di responsabilità limitata. Un limite che si esplica in due direzioni. In primo luogo, a garanzia dei singoli membri che si trovano ad operare sotto l’ombrello protettivo di un gruppo, che risponde – eventualmente – in solido delle perdite, come dei vantaggi, derivanti dalle azioni dei suoi componenti. Non meno importante è il controllo che, in ragione di questo vincolo collettivo, il gruppo tende a imporre ai comportamenti individuali. Un’autoregolamentazione, più o meno codificata, che è uno dei presupposti della riproduzione nel tempo di una istituzione corporata. In pratica, in un contesto corporativo la responsabilità individuale appare doppiamente limitata, verso l’esterno e verso l’interno.
La vicenda del partito politico come perno dell’ordinamento democratico è, dunque, racchiusa in questo doppio registro, due facce della stessa medaglia: rappresentanza della società di massa attraverso un organismo corporato. È grazie a questa appartenenza dei partiti al ceppo corporativo della tradizione politica occidentale che è stato possibile realizzare quella che, per una fase storica drammatica, era apparsa una missione impossibile: l’integrazione delle masse nello Stato.
Nell’analizzare la crisi attuale dei partiti, risulta subito evidente come siano venute meno le basi sociali della loro forza e coesione. Il deficit di rappresentanza è il fenomeno su cui tutti concordano, e l’appello più comunemente rivolto agli attori politici è di ritrovare un canale più diretto ed efficace di espressione delle domande sociali. Ciò che, invece, si fa difficoltà a comprendere è che ancora più drammatica è la crisi che si realizza sull’altro fronte della vita di partito, e cioè la dissoluzione della sua capacità ordinamentale. Il partito come corpo politico sta cedendo sotto i colpi del fenomeno che sta improntando il nuovo millennio: la personalizzazione del potere.
In una prospettiva weberiana, e kantorowicziana, sarebbe più appropriato parlare di ri-personalizzazione. Una sorta di «reconquista», da parte dei moderni prìncipi di ogni ordine e grado, dell’autonomia – di rappresentanza e decisione – cui avevano abdicato a favore del secondo corpo, quello del potere spersonalizzato e collettivizzato. Con una novità importante, rispetto al passato. Nella tipologia weberiana, potere patrimoniale e potere carismatico si presentavano come appartenenti a contesti diversi, e si riproducevano con logiche molto differenti. Un tratto tipico dell’autorità carismatica era quello di contrapporsi alla routine e alla conservazione dei regimi tradizionali basati sul controllo patrimoniale. Nei processi contemporanei di personalizzazione politica, assistiamo invece, frequentemente, all’unione di patrimonio e carisma, con una sinergia dei due fattori. Ciò è dovuto anche alle profonde trasformazioni che i due termini hanno subìto rispetto alla classificazione sociologica degli inizi del Novecento.
Nell’accezione contemporanea di carisma, siamo certo lontani dalla definizione weberiana di un sentimento basato sulla «devozione alla eccezionale santità, eroismo o carattere di un individuo, e ai princìpi normativi e ordinamentali da lui incarnati». Al più, il carisma dei nostri leader riesce ad ispirare nell’elettorato un sentimento di fiducia, talora di entusiasmo e – a fasi alterne – di approvazione per le politiche che propone. Qualità che, molto prosaicamente, si condensano nell’attitudine a «bucare lo schermo». Una dote fondamentale in un’epoca in cui le principali attività di comunicazione politica ruotano intorno alla possibilità di accedere al mezzo televisivo. E agli altri media – dai giornali alla Rete – che ne sono satelliti. Non c’è ascesa di leader, oggi, che non sia strettamente intrecciata al suo successo mediatico. Un rapporto tanto più decisivo perché basato sul medesimo linguaggio. Il messaggio personalizzante del leader si sposa alle esigenze della media logic, divenuta, nel tempo, sempre più focalizzata sul protagonismo – nel bene e nel male – del singolo individuo.
Sviluppatosi originariamente come arena di discussione critica sui principali eventi di interesse pubblico, il sistema dei media tende oggi a privilegiare la notiziabilità legata a personalità di spicco, meglio fungibili per le crescenti esigenze di spettacolarizzazione di un pubblico di massa. In questa chiave, la personalizzazione politica può essere anche vista, in parte, come un adeguamento agli imperativi dell’ambiente comunicativo. Se l’ascesa dei partiti corporati era stata, in larga misura, dovuta al loro controllo capillare dei principali circuiti di comunicazione territoriale, la massmedializzazione delle reti e dei codici di circolazione delle informazioni e dei simboli ha reso molti di quei circuiti obsoleti. Promuovendo l’ascesa dei leader di partito nelle vesti di comunicatori carismatici.
La personalizzazione della comunicazione di partito rafforza il leader verso l’esterno, trasformandolo nel principale depositario del richiamo elettorale. Ma ne consolida anche il primato nei confronti dell’organizzazione interna, che diventa sempre più subalterna al capo. Sia nell’elaborazione della piattaforma di partito, che spetta al leader comunicare efficacemente, sia nella concreta implementazione degli obiettivi di policy, soprattutto se il partito è al governo. In questo caso, infatti, il trend della personalizzazione comunicativa si salda a quello della personalizzazione decisionale, con il peso crescente dei ruoli monocratici, che si tratti di presidente, semipresidente o primo ministro. Con una saldatura delle due funzioni del leader, quella di comunicatore e quella di decisore.
Ma un passo avanti ancora più importante, per la trasformazione della natura originaria del partito come corporazione, avviene se il peso mediatico del leader come comunicatore si fonde con il suo controllo delle principali leve di finanziamento dell’organizzazione. Quando cioè la personalizzazione carismatica si unisce a quella patrimoniale. Il precedente che ha fatto storia è rappresentato dal third party con cui il miliardario texano Ross Perot tentò, nel 1992, la scalata alla Casa Bianca. Oltre ad aver creato ex novo la rete di club sul territorio, Perot investì ingentissime risorse finanziarie nell’acquisto di spazi televisivi che gestì in totale autonomia, con il format degli infomercials. Bypassando il dibattito e l’analisi critica delle proprie proposte, trasformate in un messaggio unidirezionale formulato con un utilizzo professionale delle tecniche pubblicitarie. Il modello ideato da Perot ispirò e spianò la strada alla creazione, pochi mesi dopo, di Forza Italia.
Nell’analisi del successo di Silvio Berlusconi si tende a sottolineare la sua piena disponibilità del proprio network televisivo, unita alle indubbie doti di grande comunicatore e alla conoscenza dei palinsesti maturata in anni di esperienza imprenditoriale nel campo. Ma non meno importante, per la riuscita di una operazione così complessa e in tempi così brevi, si rivelò l’utilizzo della penetrazione territoriale di due importanti società facenti capo al Cavaliere. Mediolanum e Publitalia offrirono «chiavi in mano» al nascente partito una leva di quadri aziendali già inseriti in una line gerarchica e, al tempo stesso, dotati di un background particolarmente qualificato per la nuova impresa berlusconiana. Esperti di relazioni pubbliche e in contatto con segmenti chiave del mondo imprenditoriale e commerciale, i nuovi professionisti provenienti dal mondo della grande azienda disponevano di un know-how, tecnologico e organizzativo, del tutto inedito nel panorama politico italiano. In linea con le tendenze alla specializzazione delineate nelle analisi più lungimiranti sulla trasformazione dell’organizzazione di partito, e in contrasto con l’immagine del vecchio ceto politico finito sotto processo o in contumacia.
L’ampiezza e la solidità del controllo patrimoniale sull’organizzazione registrato con Forza Italia rappresentano un caso limite, o, più precisamente, idealtipico della personalizzazione del partito. Dando luogo a quella fusione tra partito e persona nota, appunto, come partito personale. In altri casi, l’elemento carismatico o quello patrimoniale possono svolgere un ruolo meno determinante, rendendo il processo di trasformazione meno radicale e duraturo. È importante, però, sottolineare che le risorse finanziarie e/o aziendali non costituiscono l’unico asset patrimoniale a disposizione di un leader intenzionato a formare un proprio partito, o ad appropriarsi di uno già esistente. Un ruolo altrettanto influente può essere svolto da risorse istituzionali cui il leader abbia accesso, a livello sia locale che centrale.
Nel primo caso, il riferimento è ai circuiti notabiliari, incentrati sul gatekeeping di risorse territoriali che, in origine, erano prevalentemente legate a una posizione di prestigio sociale e che, col tempo, sempre più dipendono dall’occupazione di cariche consiliari o assessorili negli enti locali, o in strutture associative di tipo sindacale o cooperativo. Col passaggio dal cosiddetto clientelismo verticale – basato su una relazione a due – a quello orizzontale, che consente di raggiungere un numero più ampio di clienti-elettori e di inquadrarli in dinamiche relazionali sufficientemente stabili. In origine, il clientelismo orizzontale faceva capo alle organizzazioni di partito che, dal centro, controllavano il flusso delle risorse verso la periferia. Dopo lo smottamento di Tangentopoli, molti potentati locali hanno avuto l’occasione – e la tentazione – di mettersi in proprio, cercando in qualche caso di sbarcare anche sulla scena nazionale. Complice un sistema elettorale che premiava formaz...

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