Poseidone
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Poseidone

La forza del profondo

Salvatore Renna, AA.VV., Salvatore Renna

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Poseidone

La forza del profondo

Salvatore Renna, AA.VV., Salvatore Renna

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Le profondità del mare erano il regno di una delle più antiche e importanti divinità del pantheon greco. Un dio iracondo, suscettibile e terribilmente vendicativo, le cui avversità causarono morte, dolore e infinite peregrinazioni; un dio ambiguo come l'elemento in cui si muoveva, testardo ed esigente, libidinoso e vorace, da temere e venerare con abbondanti sacrifici: Poseidone. Nato due volte, come gli altri fratelli divini, inghiottito appena venuto al mondo dal padre Crono e poi vomitato grazie alla ribellione del fratello Zeus, dominava incontrastato sull'infinito specchio del mare. Ma in che modo arrivò a sovraintendere al suo regno? È il dio stesso a raccontare nei versi omerici come, molto tempo prima, furono assegnate le diverse sfere di competenza: a Ade gli inferi, a Zeus il cielo etereo e a Poseidone la distesa marina, mentre terra e Olimpo restarono comuni a tutti. E i Greci lo adorarono lungo tutto l'arco della loro storia, placando la sua ira, adulandolo con infinite offerte e soprattutto raccontandone le vendette, le sofferenze e gli amori.

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Información

Editorial
Pelago
Año
2022
ISBN
9791255010425

Il racconto del mito

La Fontana del Nettuno di Piazza del Popolo venne ultimata nel 1823 su progetto di Giuseppe Valadier e Giovanni Ceccarini. Elemento centrale è Nettuno con il tridente nella mano destra e, ai suoi piedi, due statue di tritoni appoggiati a delfini.
La Fontana del Nettuno di Piazza del Popolo venne ultimata nel 1823 su progetto di Giuseppe Valadier e Giovanni Ceccarini. Elemento centrale è Nettuno con il tridente nella mano destra e, ai suoi piedi, due statue di tritoni appoggiati a delfini.
In memoria di Antonio Aloni

Il regno del mare

Chi oggi sogna la Grecia davanti a una carta geografica, o chi decide di attraversarla assaporandone il sole accecante in un cielo sempre azzurro, la brezza sottile sul ponte di una nave e il ritmo lento che la vita assume tra le isole, sarà subito colpito dalla centralità del mare. La sua presenza riesce a incunearsi nelle zone più lontane dalle onde, sino alle cime delle più alte montagne: talvolta forte e possente come al Pireo ateniese o tra le Cicladi, talvolta solo un accenno – un odore, una lastra blu in lontananza – come al Tempio di Delfi, che una lunga pianura di ulivi separa dalla baia di Itea. Se si avvicina in aereo a questa terra un tempo popolata di dèi ed eroi, l’osservatore che rivolge lo sguardo verso il basso è colpito dalla forza del blu. La terra sembra voler strappare piccoli spazi all’eterna distesa d’acqua salata, come se non potesse arginarne lo strapotere, come se non riuscisse a rassegnarsi al dominio del blu marino sul giallo riarso, del regno liquido e mutevole su quello immobile e battuto dal sole.
Una sensazione non molto diversa da questa la provarono gli antichi che vissero e resero mitica quella parte del mondo. Dalle opere più arcaiche giunte sino a noi il regno del mare viene caratterizzato come chiaramente distinto, diverso e opposto al resto del paesaggio sin dal momento della creazione. Quando nella Teogonia Esiodo racconta la nascita del mondo, leggiamo come Gaia, la terra, generò sia Urano, il cielo, sia Ponto, «il mare infecondo, di gonfiore furente». E questo fu il centro geografico e simbolico attorno al quale ruotò tutta la civiltà greca. Alcuni secoli dopo Esiodo, Platone, nel Fedone, tratteggia bene l’importanza marittima quando, riferendosi a tutti i Greci, scrive che «noi, dal Fasi fino alle colonne d’Ercole, abitiamo solo una piccola parte della terra, vivendo intorno al mare come formiche o rane». Questo infatti non solo rese i Greci marinai valenti nei commerci con porti lontani e nelle battaglie navali, ma essi modellarono sulle sue rive alcuni dei più importanti momenti mitici e rituali. Era il mare, per esempio, l’elemento capace di eliminare le impurità che minacciavano di contaminare l’intera società e in cui venivano dispersi quegli oggetti di cui si desiderava la completa sparizione.
Pur essendo percepito nella sua unità, il mare era ritenuto ambivalente, in grado di essere benevolo e sinistro al tempo stesso. Sebbene attorno a esso ruotassero le principali attività economiche del popolo greco, la sua forza travolgente e la sua capacità di distruggere lo rendevano una minaccia incombente e costante. Nell’infinita superficie ricoperta dalle acque, navi, persone e ogni sorta di beni potevano essere inghiottiti e mai più restituiti. L’oscurità che si stendeva sotto l’acqua celava un regno sconosciuto, terribile e minaccioso. Questa duplice natura emerge nel famoso Biasimo delle donne di Simonide, poeta della seconda metà del VII secolo a.C. che rinforza il topos misogino della differente e inferiore natura femminile, descrivendo così il tipo di donna che Zeus ha creato dal mare: «Un’altra poi il dio la creò dal mare, con duplici pensieri; un giorno, infatti, ride e non fa che rallegrarsi; […] un altro, non si tollera, né a guardarla negli occhi, né ad andarle vicino, ma dà in ismanie ed è inavvicinabile. […] E come il mare sta spesso immobile, innocuo, grande gioia per i marinai, nella stagione d’estate, e spesso invece infuria sballottato da flutti che risuonano cupi, così ad esso somiglia moltissimo una donna siffatta nell’indole: mutevole natura ha infatti il mare».
Una delle più grandi facoltà possedute dagli antichi Greci fu quella di riconoscere le espressioni del divino nei diversi elementi della natura. Già due secoli fa il grande filologo Karl Otfried Müller notava come nel complesso della mitologia greca «ogni mito deve accadere in un luogo specifico». Non solo sono infinite le fonti d’acqua, gli incroci e i monti in cui per secoli la tradizione mitica ha riconosciuto e ribadito l’origine di un evento mitico, ma anche quegli elementi naturali che oggi non possiedono alcun afflato religioso, per noi figli razionalisti della scienza moderna, erano invece le sedi dove vivevano e operavano alcune entità superiori come le Ninfe e, ovviamente, gli dèi: da questo punto di vista l’intero edificio della mitologia può essere considerato un immenso testo che dialogava, plasmava e veniva a sua volta condizionato dal mondo naturale. Il mare, s’intuisce, non poteva rimanere escluso da questa costante risemantizzazione simbolica della realtà fisica. Lungo tutto l’arco della loro storia i Greci lo popolarono di alcune tra le più straordinarie creature nate dalla loro fantasia. Come le cinquanta Nereidi, figlie di quel Nereo generato dal mare stesso, alcune delle quali – Calma, Ondaferma, Generosa, Salvatrice – assistevano benevole i marinai in navigazione, o le tremila Oceanine, nate da Oceano e Teti, che secondo Esiodo «gli abissi del mare hanno in custodia, prole radiosa di dee», per non menzionare le celebri Sirene, il cui canto tentò Ulisse.
Le profondità del mare – e, vedremo, anche della terra – erano però il regno di una delle più antiche e importanti divinità del pantheon greco. Un dio iracondo, suscettibile e terribilmente vendicativo, le cui avversità causarono morte, dolore e infinite peregrinazioni; un dio ambiguo come l’elemento in cui si muoveva, testardo ed esigente, libidinoso e vorace, da temere e placare con abbondanti sacrifici e non trascurabile da chi viaggiava in mare. Sull’infinito regno marino dominava sovrano il figlio di Crono e fratello di Zeus: Poseidone.

All’origine del mondo greco

Per narrare le origini di Poseidone è necessario volgere lo sguardo agli albori del mondo greco e ad alcune scoperte che hanno segnato radicalmente la nostra percezione dell’antico. Per anni infatti i primordi della civiltà greca furono avvolti dal mistero di una scrittura apparentemente indecifrabile: la Lineare B. Scoperta su alcune tavolette di argilla che il caso volle fossero cotte in un incendio migliaia di anni fa, questa scrittura venne alla luce sul finire del XIX secolo insieme alla sua sorella, la Lineare A. Entrambe emersero dagli scavi che un giovane curatore museale e archeologo inglese, Arthur Evans, stava conducendo sull’isola di Creta. Questi, in realtà, non scoprì solo un modo di scrivere, ma i resti di una civiltà imponente che aveva conosciuto una grande fioritura tra il XVIII e il XIV secolo a.C., ma le cui origini risalivano ai due secoli precedenti. L’impatto delle scoperte rivoluzionò l’intero assetto storiografico greco: dopo Evans, infatti, non sembrava più possibile considerare i Micenei come il primo popolo greco, primato che ora spettava ai Minoici, antichi abitatori di Creta che solo successivamente erano stati conquistati dagli antenati di Agamennone, re di Micene.
Una delle più grandi facoltà possedute dagli antichi Greci fu quella di riconoscere le espressioni del divino nei diversi elementi della natura. Già due secoli fa il grande filologo Karl Otfried Müller notava come nel complesso della mitologia greca «ogni mito deve accadere in un luogo specifico».
Ma la scienza, si sa, procede per dinamiche distruttive. Per poter comprendere in profondità, ciò che sembra consolidato dev’essere abbattuto e qualcosa di simile accadde alla superiorità minoica, strenuamente difesa da Evans. Quando nel 1939 Carl Blegen, guidato da un’attenta lettura dei poemi omerici, giunse a scoprire l’enorme complesso palaziale di Pilo, nel Peloponneso, la tesi del suo predecessore subì un colpo tremendo. Non era infatti possibile conciliare cronologicamente una potenza come quella che chiaramente mostrava di essere esistita a Pilo col presunto e contemporaneo dominio minoico sulla Grecia intera. Oltre a ciò, dalla polvere del palazzo di Pilo emersero numerose tavolette su cui compariva la medesima Lineare B trovata a Creta. La presenza di un grande centro come quello di Pilo dimostrava dunque come i Minoici non potevano aver dominato l’intero mondo greco.
Le due scritture, però, continuavano a rimanere un mistero indecifrato: di cosa trattava quella scrittura così simile a un geroglifico egizio? Trovavano già spazio tra i suoi caratteri le storie di dèi ed eroi? Purtroppo la nostra risposta è, anche dopo molti anni, soltanto parziale. Delle due scritture una è rimasta un mistero. Nonostante gli infiniti sforzi e la costante dedizione dedicatagli per una vita intera dal suo scopritore, nessuno ha ancora scoperto come funzioni e cosa significhi la Lineare A. Diversa sorte, invece, ha avuto la sua gemella Lineare B, la cui scoperta si può senza dubbio considerare tra le più straordinarie del XX secolo. È il primo luglio del 1952 quando una breve comunicazione radio della BBC annuncia non solo la decifrazione della scrittura ma anche la sua natura: la lingua delle tavolette è greco. Dietro il microfono c’è Michael Ventris, architetto e filologo dilettante, che dal suo primo incontro con quella scrittura misteriosa si dedica alla sua decifrazione, sino al conseguimento del risultato.
Ma difficilmente scoperte di tale portata vengono condotte in solitaria: poco tempo dopo il classicista di Cambridge John Chadwick, che, oltre a essere un grecista, aveva trascorso gli anni della guerra a decriptare codici militari, offre il suo aiuto al giovane architetto geniale e la Lineare B cessa definitivamente di rappresentare un mistero. Nel 1956 i due pubblicano Documents in Mycenaean Greek, segnando inesorabilmente la storia del mondo classico: nel Peloponneso e a Creta, intorno al XIV secolo a.C., si parlava già un greco non così lontano da quello di Omero.
Cosa raccontano dunque quelle tavolette? Chi sperava in una nuova letteratura, o per lo meno in una fase della letteratura greca antecedente a quella omerica, rimase e rimane tutt’oggi deluso. I documenti redatti in Lineare B altro non sono che registrazioni d’archivio: lunghi e noiosi elenchi di offerte, beni, merci e persone, che se da un lato permettono di ricostruire l’economia e l’assetto di un’importante società antica, dall’altro nulla dicono sulle paure, le speranze e le credenze che da sempre l’uomo ha affidato alla rappresentazione letteraria. Le ragioni di questa mancanza sono molteplici. Non è da escludere che le opere letterarie esistessero, ma che fossero redatte su supporti più pregiati e deperibili, distrutti dai millenni trascorsi, mentre i più intransigenti sostengono che se nulla è stato trovato è semplicemente perché nulla c’era. Vana sembra invece la speranza che quelle terre restituiscano frammenti di storie divine ed eroiche, il cui primato cronologico resta saldamente nelle mani di Omero.
Nonostante questa mancanza le tavolette restituiscono le tracce di un pantheon, ricostruibile proprio a partire da quelle offerte alle divinità così dettagliatamente registrate. E queste divinità sono il secondo forte trait d’union che fa della società micenea la diretta antenata di quella greca arcaica e classica. Tra le dediche votive si ritrovano infatti i nomi delle principali divinità che Omero consacrerà nei suoi poemi: Zeus, Artemide, Atena, Dioniso, Hermes e, naturalmente, Poseidone. Come sottolineato da Silvia Romani, omofonia non significa però identità: «Gli dèi delle tavolette sono poco più che nomi ed epiteti, semplici destinatari delle offerte dei fedeli: nomi senza storia quindi, e divinità senza mito, costretti, per nostro piacere, a indossare l’abito delle grandi divinità olimpiche, che sta loro stretto, come i vestiti di seconda mano». Eppure, ai nostri occhi così attaccati alle briciole che ci restano del mondo antico, la storia di Poseidone parte necessariamente da quel mondo lontano e scoperto da poco, dal suo nome registrato su alcune delle tavolette e dalle offerte che gli furono consacrate.
Il nome, dunque: in miceneo esso è lo stesso omerico, Poseidaon, mentre in altri dialetti ha forma Poteidaon, ed è nome composto. La prima parte, potei-, è la forma d’invocazione di potis, “signore”, mentre la sillaba da- significa “terra”, come ben esemplificato dal nome Demetra, la cui forma antica Da- mater significa appunto “madre della terra”. L’etimologia può essere spiegata in due modi: da un lato, come si vedrà, una versione del mito vedeva Poseidone innamorato di Demetra, per cui non stupisce l’accostamento alla dea delle messi. Dall’altro, però, i primi passi mossi da Poseidone nel pantheon greco da noi ricostruibile ne enfatizzano il legame con la terra, tanto che il suo nome è generalmente interpretato come “signore della terra”. È questa la caratteristica che maggiormente lo distingue dal Poseidone d’età omerica e classica: mentre in queste fasi egli è sia “scuotitore della terra” – come lo descrivono gli epiteti enosigeo e enoscitonio – sia “sovrano dei mari”, nella fase micenea del suo culto è la terra il suo principale elemento, mentre non v’è menzione di un suo potere sulle acque marine.
L’evoluzione della divinità e degli elementi su cui esercitava il suo potere rispose ai cambiamenti che vissero coloro che lo veneravano, autori delle testimonianze a cui ci oggi ci affidiamo. Mentre quella micenea era infatti una società basata sulla terra e la sua coltivazione, l’espandersi dei commerci marittimi e la successiva e crescente importanza delle attività legate al mare allargarono la sfera di competenza del dio dei terremoti a quella delle acque. Il collegamento non fu simbolicamente casuale. Si credeva infatti che i terremoti fossero causati dall’agitarsi sotterraneo di correnti d’acqua, ragion per cui fu facile assegnare al signore di queste correnti il dominio su tutto il regno acquatico. Così l’autore dell’inno a Poseidone, che la tradizione individua in Omero, poté scrivere «comincio a cantare Poseidone, dio possente, scuotitore della terra e del limpido mare, dio marino che regna sull’Elicona e sull’ampia Ege. Un duplice privilegio ti riconobbero gli dèi, o Enosigeo: d’esser domatore di cavalli, e salvatore di navi».
Le profondità del mare – e, vedremo, anche della terra – erano però il regno di una delle più antiche e importanti divinità del pantheon greco. Un dio iracondo, suscettibile e terribilmente vendicativo, le cui avversità causarono morte, dolore e infinite peregrinazioni; un dio ambiguo come l’elemento in cui si muoveva, testardo ed esigente, libidinoso e vorace, da temere e placare con abbondanti sacrifici e non trascurabile da chi viaggiava in mare. Sull’infinito regno marino dominava sovrano il figlio di Crono e fratello di Zeus: Poseidone.
Tra le divinità micenee Poseidone ha una posizione di assoluto rilievo. Se si pensa alla minore importanza ricoperta nelle età seguenti, la sua appare come la storia di una progressiva decadenza, un costante declassamento che ha forse fomentato la sua terribile ira. Giungere a considerazioni di portata generale partendo da esempi circoscritti sarebbe fuorviante, ma la preminenza del dio in uno dei più importanti centri micenei come Pilo è un dato forte e inoppugnabile. Le tavolette ci dicono che nessun’altra divinità ha ricevut...

Índice

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Giulio Guidorizzi
  6. Il racconto del mito di Salvatore Renna
  7. Genealogia
  8. Variazioni sul mito di Salvatore Renna
  9. Antologia
  10. Per saperne di più
  11. Piano dell’opera
Estilos de citas para Poseidone

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Renna, S. (2022). Poseidone ([edition unavailable]). Pelago. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3470946/poseidone-la-forza-del-profondo-pdf (Original work published 2022)

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Renna, Salvatore. (2022) 2022. Poseidone. [Edition unavailable]. Pelago. https://www.perlego.com/book/3470946/poseidone-la-forza-del-profondo-pdf.

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Renna, S. (2022) Poseidone. [edition unavailable]. Pelago. Available at: https://www.perlego.com/book/3470946/poseidone-la-forza-del-profondo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Renna, Salvatore. Poseidone. [edition unavailable]. Pelago, 2022. Web. 15 Oct. 2022.