III.
LE DEVENIR DU CORPS
IL DIVENIRE DEL CORPO
IL CORPO GLORIOSO :
IL MARTIRE SULLA SCENA GESUITICA
(XVII SECOLO)
BRUNA FILIPPI
Si potrebbe ritenere vivente solo il teatro del nostro tempo, quello cioè di cui possiamo constatare e misurare per esperienza diretta e partecipata la sua capacità di essere emozionante e comunicante. Il teatro è però per sua natura un fenomeno complesso che si consuma nel costruire un evento, in quel preciso momento e spazio in cui appunto il teatro vive. In tal senso anche un teatro lontano nel tempo e che appartiene al passato può e deve essere colto in quanto evento, nelle concrete azioni che lo costituiscono e nei pensieri che le animano, nelle espressioni degli attori e nelle fascinazioni degli spettatori. In questa prospettiva possiamo allora interrogare anche il teatro barocco dei Gesuiti, ricostituendo nei segni e nei significati, nel tipo di relazioni che instaura e negli effetti che provoca, quel preciso momento in cui appunto il teatro è in vita. La natura apologetica del teatro dei Gesuiti, usato come arma di rinnovamento religioso dalla Riforma cattolica, nonché come strumento di acculturazione religiosa nelle lontane terre di missione, assegna inevitabilmente all’evento spettacolare una precisa funzione persuasiva e il dovere di raggiungere il massimo di efficacia. E’ la sua capacità di convincere e di divenire ‘teatro di conversione’ ogni qual volta che si produce a far sì che questo teatro trovi e sviluppi una sua ragione d’essere: la rappresentazione edificante delle vite dei santi e dei martiri sulle scene dei collegi deve diventare esempio e modello di virtù cristiana sia per gli allievi-attori che incarnano i personaggi, che per gli spettatori che assistono al dispiegarsi di questi destini esemplari. Sottomesso alle esigenze e alle necessità dottrinali, questo teatro religioso ha saputo costruire un’enorme e raffinata macchina retorica proprio per perseguire il suo fine edificante, ragione e motore di tutta l’attività teatrale gesuitica. Ci si potrebbe allora chiedere quali erano i dispositivi retorici e le soluzioni teatrali che i drammaturghi gesuiti proponevano ai loro contemporanei? Quali forme e modi rappresentativi venivano considerati efficaci per raggiungere l’obiettivo edificante di questo teatro?
Per cercare di rispondere a questi quesiti, disponiamo di una documentazione eterogenea ma assai ampia sull’attività teatrale dei Gesuiti di Roma, in grado di fornirci alcuni indizi significativi rispetto ai modi e alle circostanze della ‘messa in rappresentazione’ delle loro tragedie cristiane. Benché i testi drammatici non venissero pubblicati che raramente e solo in caso di acclamato successo o di elevata qualità letteraria, le raccolte degli scenari seicenteschi distribuiti prima delle rappresentazioni, i trattati di poetica e di retorica che i maestri di retorica affiancavano alla loro produzione drammatica, nonché le segnalazioni dell’attività teatrale reperibili nelle fonti istituzionali della Compagnia di Gesù, ci permettono non solo di ricostituire il panorama della produzione spettacolare ma anche di investigare gli aspetti formali e performativi relativi all’avvenimento, ovvero alla vita concreta di questo teatro.
LA SCENA DELLA GLORIA
Il teatro allestito nel Collegio Romano, il collegio voluto dal suo fondatore S. Ignazio di Loyola (1491–1556) come luogo di sperimentazione ed elaborazione del modello pedagogico gesuitico, sul finire del Cinquecento e nella prima metà del Seicento ha cristallizzato alcune soluzioni drammatiche, divenute poi costanti caratteristiche della drammaturgia gesuitica barocca.
Una grande profusione di vite di santi e di storie di martiri caratterizza le tragedie cristiane gesuitiche nel corso del XVII secolo. L’analisi comparata degli scenari ci mostra come la scena finale del martirio, malgrado la diversità delle situazioni e delle soluzioni, si avvalga sempre di un identico dispositivo scenico: subito dopo la morte, un’irruzione di luce invade il luogo sacrificale. Con l’illuminazione del patibolo, che prolunga e sottolinea il momento della morte sacrificale, s’inserisce così il senso religioso del dramma che è quello di coronare la morte del martire con la manifestazione della ‘gloria’ di Dio.
L’ultima scena del Sigismondo (1617), viene infatti esplicitata così nello scenario: «S. Mauritio mostra a S. Avito il pozzo, dove fu gettato Sigismondo e quivi si veggono molti lumi, scoprendosi dalla gloria del luogo della morte, la gloria che ha in Cielo ».1 Ugualmente, nell’ultima scena dell’ Ermenegildo del padre Sforza Pallavicino (1607–1667), rappresentata nel 1644 e riallestita nel 1668 al Seminario Romano, Igonda, moglie di Ermenegildo, mentre si sta recando alla torre nella quale il suo sposo era stato ucciso, assalita dal rimorso di aver cagionato la sua morte, « vede lumi intorno alla torre e ode musiche celesti ».2
Questa soluzione rappresentativa propone il senso primario e vetero-testamentario della manifestazione della ‘gloria’ di Dio, che si trova nei libri dell’Esodo o di Ezechiele, in cui la gloria divina si evidenzia sotto forma di nube o di luce. L’irruzione della luce sul luogo sacrificale è quindi la soluzione scenica di un concetto teologico complesso: ‘mette in luce’ appunto il legame fondamentale di cooperazione fra Dio e l’uomo, per il quale l’atto sacrificale passa nella ‘scena’ del soprannaturale. Questa commistione fra il piano e il gesto terreno del martirio e un superiore senso e livello divino, caratterizza non solo le tragedie cristiane ma è un elemento tipico della tradizione tragica antica. E però, nella cultura classica, il collegamento tra l’umano e il divino non ha soltanto una valenza differente ma si esplicita con dispositivi scenici diversamente orientati: il deus ex machina scioglie il nodo drammatico scendendo in scena, mentre la macchina della ‘gloria’ che il teatro cristiano moderno introduce e diffonde ampiamente serve piuttosto a rivelare e indicare una direzione d’ascesa. Nella tradizione del teatro occidentale, il termine ‘gloria’, che è rimasto immutato dall’epoca barocca fino alla fine dell’Ottocento, sta infatti ad indicare l’apparizione maestosa della divinità o la glorificazione dell’eroe e può riferirsi sia alla ‘macchina’ che all’apparizione divina.
La dilatazione scenica lungo l’asse verticale cielo-terra che la ‘gloria’ produce, istituisce nel teatro religioso la comunicazione fra due poli, evidenziando così i due movimenti che instaurano e definiscono la relazione fra l’uomo e Dio: da Dio verso l’uomo ma soprattutto dall’uomo verso Dio. E’nell’evidenza rappresentativa di questa tensione verticale che si indica il doppio senso della comunicazione, nella quale l’uomo riconosce la gloria di Dio e in quella, a sua volta, la gloria dell’uomo – mediante l’elezione e la sofferenza – viene ricompensata e trova il suo senso.
E’ proprio grazie a questa relazione fondamentale, elemento caratterizzante le tragedie dei martiri rappresentate dai Gesuiti, che possiamo senz’altro inscrivere la tradizione delle tragedie cristiane seicentesche fra le numerose ‘tragedie a lieto fine’ dell’epoca barocca.3 Infatti, sebbene la vicenda si concluda con la morte dell’eroe, essa colloca la fine luttuosa in una visione escatologica in cui la morte è concepita cristianamente come apertura e prolungamento sulla salvezza eterna. Si tratta di un lieto fine in cui a prevalere non è la dimensione del piacevole o dell’agnizione finale a sorpresa, bensì la lettura provvidenzialistica della storia, che trasforma le sconfitte in gloria; come viene anche esplicitato nel finale dell’ Ermenegildo di Sforza Pallavicino:
O gran prodigi tuoi, Signore Celeste!
Sconfitte e prigioni rendi vittorie,
Pene in piacer trasformi, infamie in glorie,
Morte in Eternità, tragedie in festa.4
Questo stilema rappresentativo è il nodo e il cuore della ‘funzione edificante’ delle tragedie gesuitiche, fondate sulla esemplarità degli atti del personaggio protagonista e sull’efficacia che devono avere sullo spettatore: questi è infatti chiamato – scena dopo scena ovvero atto dopo atto – a ripercorrere le tappe di una sua autentica conversione ovvero a ritrovare le ragioni della propria fede.
LA VISIONE DEL MARTIRIO
Se dunque la scena della ‘gloria’ si dà il compito di coronare il gesto sacrificale con l’istituzione della relazione divina, il gesto supremo del sacrificio del martire che la provoca e la supporta non sembra essere tuttavia di facile realizzazione scenica. Infatti, la scena della morte del martire costituisce per i drammaturghi gesuiti un elemento problematico che mette in causa lo stesso statuto rappresentativo del loro teatro. Ci si chiede cioè come sia possibile rappresentare sulla scena l’evento dell’uccisione, la morte esemplare. E’ sufficiente evocarla o sarà necessario mostrarla?
La rappresentatività della morte in scena è un nodo problematico molto dibattuto dai teorici del teatro cinquecentesco, che si rivela essere però anche una chiave di volta della specificità della drammaturgia gesuitica. La generazione dei drammaturghi del Collegio Romano della prima metà del Seicento, nei loro trattati poetici e di riflessione teorica sulla tragedia, non si dimentica di dare una valenza di primo piano all’opportunità o meno della ‘visibilità’ del gesto sacrificale.
Alessandro Donati (1584–1640), autore della tragedia Pirimalus sull’opera di evangelizzazione in Oriente di S. Francesco Saverio (1506–1552) e rappresentata al Collegio Romano nel marzo del 1622, in occasione della festa della sua canonizzazione e del fondatore della Compagnia di Gesù S. Ignazio di Loyola, ha redatto nel 1631 una Ars poetica. 5
Nel capitolo in cui si parla del ruolo drammatico della passione – definita peraltro come perturbatio fabula per sottolineare così la sua funzione di produrre un mutamento da uno stato all’altro – si sofferma sulla convenienza o meno di rappresentare delle uccisioni in scena. Dapprima, considerando Orazio un interprete di Aristotele (384–322 A.C.), riferisce come questo autore dell’antichità ritenga più adatto alla scena l’utilizzo di messaggeri cui si dà il compito di raccontare uccisioni avvenute altrove. Quindi Alessandro Donati confuta questa posizione, peraltro riproposta e condivisa anche da Lodovico Castelvetro (1505–1571), avanzando l’ipotesi che ad Aristotele stesso non fossero sufficienti le semplici parole dei messaggeri per rendere chiare ed evidenti agli spettatori le uccisioni. L’autore gesuita ritiene infatti che la stessa pratica scenica dei greci fosse di...