1. Il con-fine del letterario
Vivere, esistere, forse raccontare. Tradurre vuol dire trascrivere i silenzi del vissuto e i suoi rumori, traslare le sue voci e forme in un piano che sfugge; perchĂ© vita e biografia sono un libro con testo a fronte, ma a separarle câĂš un candido vuoto. Lâesistenza e la sua grafia sono un incontro vis-a-vis, un confronto de viso: entitĂ divise da tratti di penna. Hanno il marchio (mark) della maschera (mask), e sono dunque divise dai tratti di penna. Sfoggiano a tratti uniformi disegnate, uniformi di-segni non sempre uniformi, tratteggiate da penne a volte in debito di inchiostro. Parlo di quel prezioso inchiostro chiamato memoria: una memoria a cui ritornare, ma pure un rimembrare da cui ripartire.
Ă un non-sense biografico-artistico, questa connessione tra le impalcature segrete di unâopera dâarte e gli scheletri nascosti di unâesistenza sempre ri-velata in maniera opaca, il motivo per cui la scrittura, che Ăš una specie del genere traduzione, mostra a volte tra le sue pieghe la presenza spettrale della vita. Ecco perchĂ©, credo, un labirinto testuale da cui «nessun viaggiatore Ăš mai ritornato», il Finnegans Wake di James Joyce, a suo modo una «traduzione infinita» si quasi conclude con una lunga parola splendida, un vocabolo sospeso tra la memoria del vissuto e lâimmaginazione del non detto, un verbo magico e inventato che ci parla proprio di noi stessi: mememormee. Rappresenta un memento mori ma anche una paurosa memoria materna. Ă un meme se vogliamo, e anche il memo di un mutare mummificato (mummy); ma pure il silenzio di un mimo muto (mummer)! Ci ricorda Momo, il figlio della notte, o il Momo del Candelaio di Bruno; ma Ăš comprensibilmente piĂč narcisista di entrambi poichĂ© discorre sempre e soltanto di sĂ© (me me more me), quasi a scongiurare che «di me dovrai averne sempre di piĂč» dunque «ammirami», malgrado a volte soltanto a partire dallo sprofondo di un irrecuperabile passato (ormai) che puĂČ riemergere «in memoria di me». Questa Ăš forse la sua ultima passione (amor mio), o il definitivo atto di morte (me mor).
Il sipario sui rapporti tra il vivere e lo scrivere non cala mai in letteratura, sebbene la promiscua relazione si declini a volte anche al fine di mostrare con la penna le proprie penne â quasi convinti che Wilde non scherzasse quando ammonĂŹ che il primo dovere nella vita Ăš quello di assumere una posa, e quale sia il secondo nessuno lâha ancora scoperto.
Ma tramutare la vita in nero-su-bianco Ăš per natura anche ciĂČ che fanno i grandi scrittori. Per esempio, nellâultimo scambio dellâautointervista che conclude la meravigliosa e allucinata quadrilogia Lanark di Alasdair Gray, che Ăš poi una delle saghe romanzesche piĂč fantasiose e al contempo piĂč autobiografiche di sempre, ci capita di leggere:
D. Quindi il tempo passato a scrivere Lanark per tutti quegli anni Ăš stato speso bene?
R. Non del tutto. Passare metĂ della vita a trasformare la tua anima in inchiostro tipografico Ăš uno strano modo di vivere. Mi stupisce pensare ai diari di quando ero studente, in cui mettevo tutto in terza persona come fase intermedia prima di passare alla prosa narrativa. Sono certo che le pantere e le anatre, se in salute, fanno vite migliori, ma avrei causato mali maggiori se fossi stato un banchiere, un agente di borsa, un pubblicitario, un fabbricatore dâarmi o uno spacciatore.
Trasformare lâanima in inchiostro tipografico vuol dire tradurla e mutarla, ma anche formarla e forgiarla, in entrambi i sensi, cioĂš plasmarla e contraffarla. Farla contro, contrapporla, ma a cosa? Al suo opposto? PuĂČ forse darsi che lâinchiostro sia il contrario dellâanima? O Ăš solo un suo specchio oscuro? Eppure le grigie sfumature della metafora di Gray appaiono alquanto appropriate al continuo processo traduttivo a cui ci sottopone lâesistere: in tutte le sue forme, di resistenza, di cambiamento, e di ri-esistenza.
Umberto Eco ha suggerito come la traduzione sia una «specie» appartenente al «genere» interpretazione. Ă unâaffermazione interessante per tanti differenti motivi, innanzitutto perchĂ© chiama in causa una terminologia scientifica e non linguistica o letteraria. Se possiamo parlare di traduzione in termini di specie, probabilmente dovremmo concludere che, come tutte le specie, Ăš soggetta a evoluzione ma anche a estinzione. Parlare di interpretazione in termini di genere, poi, la rende un fattore insindacabilmente umano: come a dire che il genere umano Ăš contraddistinto dal gene traduttivo. Interpretare Ăš infatti nella nostra genetica, e lo dimostra obliquamente anche lâaffermazione di Lotman secondo cui, per esempio, possiamo parlare di cultura in termini di «memoria non ereditaria».
Lâinterpretazione sarebbe dunque un universale della mente? Gli esseri umani sono esseri per natura interpretanti, come indica la nostra innata tendenza a decifrare lâaltro. Ma a ben vedere, qualcosa di simile avviene per certi versi anche con le intelligenze artificiali. Persino i robot e i computer non possono esimersi dal dovere di interpretare, dal compito di fare connessioni; il che getta ombre sinistre sul significato dellâespressione «forme di vita». Ma se lâinterpretazione non Ăš vita, di certo Ăš una specie del genere vita. E, al contempo, si configura sempre come una forma di «scrittura interiore».
Tradurre, interpretare, cambiare. Ă sempre Eco a suggerire che tra i primi utilizzi del termine traslatio câĂš proprio lâaccezione di cambiamento; di slittamento metaforico. Tuttavia, questo dato di fatto non viene facilmente digerito dal senso comune, che ci predispone ad accettare con non poco scetticismo la sola idea secondo cui tradurre significhi non giĂ interpretare, ma anche cambiare. Chi di noi non mostrerebbe un qualche disappunto se, nellâacquistare in libreria un libro tradotto, il libraio venisse a complimentarsi con noi per lâottima interpretazione del testo che abbiamo acquistato? Ancor peggio se ci venisse detto, e senza ironia alcuna: «Davvero una bella versione modificata dellâoriginale quella che state acquistando!». Proviamo dunque a partire dalla prospettiva umana indicata da Eco per tentare di dirimere lâimpasse e accettare come possibile lâimpossibilitĂ del paradosso: poichĂ© se tradurre Ăš quel che siamo, ciĂČ accade perchĂ© cambiare continuamente, e dunque divenire altri e al contempo altro da noi stessi, Ăš lâinesorabile destino della nostra natura umana condivisa.
Quando in Irlanda del Nord il giovane poeta e attivista dellâIRA Bobby Sands â morente per scelta, ma affamato per volontĂ politica da un governo che la storia non assolverĂ â fu eletto al parlamento di Westminster il 9 aprile del 1981, era steso su un letto dellâospedale carcerario di Long Kesh, istituzione conosciuta anche col nome The Maze, il labirinto. Un labirinto per lui, e per molti altri, purtroppo senza uscita. Era stato tradotto dalla galera allâospedale dopo diciassette giorni di sciopero della fame, il 23 di marzo. Aveva giĂ perduto piĂč di otto chili e veniva da quasi cinque anni di strenua, eroica resistenza alle condizioni estreme imposte da quei british che Joyce, piĂč di mezzo secolo prima, aveva chiamato brutish.
Nel suo letto, quando vennero proclamati i risultati delle elezioni, Sands era protetto da un pigiama imbottito, per evitare che le ossa provate gli uscissero dal corpo scheletrico. Uno scheletro nascosto oramai soltanto dalla pelle. Eppure, proprio su quello scheletro si reggevano il suo corpo e il suo animo liberi.
A meno di mezzo miglio di distanza, i compagni rimasti in cella, alcuni dei quali lo avrebbero seguito in quella scelta finale, gridarono a squarciagola Tiocfaidh ĂĄr lĂĄ! Tiocfaidh ĂĄr lĂĄ! («Il nostro giorno verrĂ !» in irlandese). Un giorno che non Ăš ancora venuto, se non nel senso macabro della dipartita. Quellâurlo traduceva una speranza che il presente si traducesse non nel futuro, ma in un futuro; che si trasformasse in un solo modo: la fine dellâoccupazione straniera sul proprio suolo. Eccoli, fusi assieme, il fine e la fine della vita del giovanissimo onorevole Robert Sands.
Il suo fine-vita fu tradotto in un grido di libertĂ perchĂ© la sua era stata una vita-con-fine: al confine, con un fine, e con una fine; la quale, perĂČ, fu un inizio di quel futuro da lui immaginato ma non ancora del tutto sotto i nostri occhi. Eppure, a quel finale dobbiamo la rinascita, qualche anno dopo, di un processo di pace in Irlanda del Nord che fuoriusciva proprio da un processo di violenza, e da un processo alla violenza. PerchĂ© come Joyce o Bloom per lui aveva predetto: «Lâamore Ăš il contrario dellâodio»; e ciĂČ dopo che Joyce aveva definito Dio, per bocca di Stephen Dedalus, personaggio il cui nome prende in prestito da Stefano protomartire, «un grido per strada». Forse era quello stesso Dio che un altro Stefano, poeta altrettanto eretico ma forse piĂč rosso, aveva visto seduto «su una panchina».
William Blake spiega nei suoi proverbi sempre meno letti che «qualunque cosa sia possibile credere Ăš unâimmagine della verità », il che ricorda un verso di Tom Waits: everything you can think of is true. questo perchĂ© la veritĂ profonda appartiene al sogno, non al visibile. Ă parte di un orizzonte che ancora non esiste. Nel Libro dei Numeri leggiamo: «Il Signore disse: âAscoltate ora le mie parole; se vi Ăš tra di voi qualche profeta, io, il Signore, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sognoâ». Una sorta di comunicazione onirica, diciamo, tra maestro e adepto, simile a quella che avviene tra Dracula (non a caso chiamato spesso Master, nel capolavoro del dublinese Stoker) e la sua vittima Mina Harker. E questâultima chi Ăš, poi, se non «una che presta orecchio» (to hark = «ascoltare»)?
Come in Blake e in Bruno, anche qui siamo in un campo sfu...