Il racconto del mito
La morte, lo specchio e lâamore
La storia di Narciso Ăš considerata, tra le centinaia che ci ha tramandato lâantichitĂ greca e romana, quella che piĂč ha lasciato il segno, per un paio di millenni, nella cultura europea (e oggi globale), e in ciĂČ sembra entrare in competizione con quella di altri personaggi piĂč noti della religione e della âmitologiaâ della Grecia antica, come Ulisse, Medea, Edipo, Eracle o altri. Questa tradizione plurisecolare, come un âgrande Codiceâ, si Ăš diffusa per millenni dapprima nel continente europeo, e poi in tutto il mondo occidentale, in quantitĂ e dimensioni che trovano pochi riscontri, nella storia della cultura e delle letterature comparate. Cercheremo dunque di seguirne le tracce, dalle sue prime manifestazioni ai nostri giorni.
Una prima osservazione da fare, Ăš che, anche se la cosa sembra sorprendente, questa storia appare in tempi relativamente recenti, nella cultura greca: la celebre menzione del narciso in Sofocle (Edipo a Colono, vv. 681-685; scritta e rappresentata postuma intorno agli anni 406-401 a.C.), spesso citata come testimonianza o fonte antica sul âmito di Narcisoâ, non ha nulla a che vedere con il giovane cacciatore e la sua triste storia, cosĂŹ come la menzione del narciso nellâInno a Demetra, (v. 8, VI secolo, o al massimo VII secolo a.C.) parla esclusivamente del fiore, e non del personaggio. Si potrebbe dunque suggerire che su questo terreno nasce e si sviluppa «il narciso che, qualche secolo piĂč tardi, al contrario di quanto racconta la leggenda, darĂ origine al ragazzo dallo stesso nome» come scrisse in un suo eccellente saggio, Françoise Frontisi-Ducroux (1997, p. 239).
Detto questo, possiamo cominciare una sistematica analisi dei testi antichi che parlano del fanciullo e del suo triste destino. Come vedremo, questi testi sono piuttosto scarsi, e nessuno di essi sembra appartenere alla cultura greca arcaica e âclassicaâ, che si conclude, convenzionalmente, con la morte di Alessandro il Grande (323 a.C.).
Fonti erratiche: Nonno di Panopoli
Vicino a Mileto, in Asia Minore, câĂš un monte chiamato Latmos (oggi BeáčŁparmak daÄ, in Turchia), ai piedi del quale Eracle aveva fondato Eraclea, una delle tante cittĂ che portavano il suo nome. Tanto che questa era denominata âEraclea al Latmosâ. Ancor prima, sembra, dunque in tempi antichissimi, dentro una grotta alle pendici di questo monte, la dea Selene (la Luna) si sarebbe unita col giovane e bellissimo Endimione, e avrebbe generato un figlio di nome Narciso. Endimione, comâĂš noto, rimase come un eterno Dormiente in quella grotta, condannato per sempre a un sonno senza fine, parodia beffarda dellâimmortalitĂ . E la povera Selene (lâimprobabile madre di Narciso, secondo questa versione) avrebbe passato i suoi giorni immortali a contemplare nel sonno la bellezza del suo partner per sempre addormentato.
Lâinfelice figlio della Luna, giovinetto bello come suo padre, era destinato a innamorarsi della propria immagine riflessa in una fonte, fino a morire a causa di quella terribile illusione, come in un sogno trasformatosi in incubo: cosĂŹ si legge in Nonno di Panopoli, poeta egiziano vissuto nel V secolo d.C. (vedi Antologia 1). Non Ăš chiaro, in questa breve e tardiva versione, se Narciso sia morto per annegamento, nelle acque di quella sorgente, o per qualche altra ragione: in tutti i casi, la fonte viene chiamata «assassina», phonĂe (Nonno, Dionisiache, 11, 323), il che fa pensare che con quella morte essa abbia avuto a che fare.
Gli studiosi di Nonno sono abbastanza concordi nel ritenere questa versione della storia di Narciso una pura invenzione del poeta greco-egiziano, e discutono sul problema se egli avesse conoscenza della lingua latina e del poeta Ovidio. In tutti i casi, nel mondo ellenistico della Siria (per esempio ad Antiochia sullâOronte), il âmitoâ del cacciatore Narciso, associato ad Adone, era rappresentato alla fine del V secolo in mosaici nelle ville patrizie, sembra nella versione ovidiana.
Altre fonti: il Silente di OropĂČs
In una regione chiamata Graia (dal cui aggettivo sarebbe derivato il nome latino e poi europeo della Grecia, graikĂČs = graecus), a OropĂČs, ai confini tra la Beozia e lâAttica, câĂš (e ci sono tuttâora i resti) un santuario dedicato allâindovino Anfiarao, che fu inghiottito dalla terra col suo cocchio al tempo dei Sette a Tebe, poco dopo la morte di Edipo, diciamo nel XIII secolo a.C. Presso il suo santuario si trovava (al tempo di Strabone, I secolo a.C. e I secolo d.C.) il monumento funebre di un Narcisso (o Narcitto) di Eretria (la cittĂ sullo stretto dellâisola Eubea), figlio di Amarinto, e non di Endimione, che fu ucciso da un personaggio di cui non sappiamo il nome (Evippo?), nĂ© lâetĂ . Dal sangue di Narciso sparso in questa occasione spuntarono i fiori che porteranno il suo nome, dei quali, si dice, le Erinni per prime presero ad adornarsi, intrecciando corone (vedi Antologia 4). Gli abitanti del luogo eressero dunque un monumento funebre allâinfelice giovane, e chiunque si trovasse a passarvi vicino, doveva osservare un silenzio rituale (non ne sappiamo il perchĂ©), per cui la tomba era chiamata il Sepolcro (mnĂšma) di Narciso il Silente (SighelĂČs).
Vale la pena di ricordare che da quelle parti vi sono il golfo di Micaletto (-sso) e il villaggio di Ramnunte, che darĂ il nome al demo attico dove sorgeva un famoso tempio di Nemesis, la Punizione o Vendetta, chiamato cosĂŹ perchĂ© vi abbonda lâarbusto detto rhĂ mnos (Ranno Spaccasassi, RhĂ mnus Pumila). Per questo, la NĂšmesis veniva chiamata per antonomasia, âRhamnusiaâ, e sarĂ questa divinitĂ , non Eros, a punire un diverso Narciso nella versione di Ovidio, che peraltro Ăš situata in una diversa collocazione geografica. Nel tempio di questa dea minore, in etĂ storica fu collocata una statua alta 5 metri, opera del grande Fidia o di un suo allievo, di nome Agoracrito (Plin. 36, 16-17).
Conone: lâingrato efebo di Tespie
Un âmitografoâ di etĂ cesariana e augustea (I secolo a.C. e I secolo d.C.), di cui sappiamo poco o nulla, Conone di Atene, la cui opera Ăš giunta a noi nel riassunto del Patriarca Fozio (IX secolo d.C.), o di qualcuno dei suoi segretari, ci fornisce una versione di Narciso â certamente anteriore a Ovidio â che ci parla di un giovane ingrato che non si concedeva a nessuno dei suoi amanti, in nome del quale gli abitanti di Tespie in Beozia, alle falde del monte Elicona, avevano istituito il famoso culto di Eros. I tratti distintivi che si ricavano da questo testo, non piĂč lungo di una diecina di righe, sono:
a) il rifiuto degli amanti, in un contesto esclusivamente pederotico, da parte del giovane Narciso, del quale non sono precisati i genitori;
b) il nome dellâunico tra i tanti âerastiâ, cioĂš maschi innamorati di lui, che continua nellâamore senza speranza, Aminia (AmeinĂas); e poi
c) unâinformazione esclusiva: Narciso manda allâamante una spada, xĂphos, e lo sfida a una prova assurda: «se mi ami, dimostralo uccidendoti con questa»; Aminia in effetti, si uccide;
d) questo atto di colpevole hĂœbris offende il dio Eros, che gli ispira il pentimento per il gesto compiuto e lâassurdo auto-innamoramento, alla vista della propria immagine nel riflesso della fonte;
e) infine abbiamo il suicidio, che dal verbo usato (diakhrĂ o) e dal fatto che il fiore nasca dal sangue di Narciso, potrebbe essere commesso con unâarma da taglio, forse la stessa spada (ma questa Ăš una semplice illazione) con la quale si era ucciso il povero Aminia.
Non sono precisati dati che ci permettano una cronologia; si dice solo che i cittadini di Tespie praticarono con intensitĂ anche maggiore, sia in pubblico sia in privato, il giĂ esistente culto cittadino di Eros, il dio dellâamore.
Una cosa che mi sembra interessante, Ăš il fatto che la presenza di Narciso nel sito del culto di Eros a Tespie sia documentata in modo inoppugnabile da una rara iscrizione del II secolo dellâera cristiana, in relazione con un esplicito âGiardino di Narcisoâ, NarkĂssou KĂšpos. Incisa intorno al 124 d.C. Ăš la dedica fatta collocare in quel giardino dallâimperatore Adriano, che offre il trofeo di unâorsa a Eros, figlio di Afrodite Cipride, pregando il dio di concedergli in cambio la benevolenza in faccende dâamore (Iscrizioni Greche, Beozia, Tespie, IG VII 1828). Si tratta di una piccola poesia in otto versi falecei, di buona fattura (vedi Antologia 5 bis), che documenta storicamente lâesistenza del culto di Eros e di un giardino dedicato a Narciso alle falde dellâElicona, scritta da un imperatore coltissimo, che certamente aveva presente la versione dominante, quella di Ovidio, ma forse conosceva anche qualche altra versione, piĂč simile a questa tespiese.
Narciso nel recente Papiro di Ossirinco (P.Oxy. 69, 2006)
Dodici anni or sono o poco piĂč (2005), venne pubblicato da W.B. Henry un nuovo papiro, databile circa al VI secolo d.C., contenente pochi versi in metro elegiaco, dove sono riconoscibili tre personaggi del mito greco, Asteria, Adone e Narciso, che hanno in comune solo il fatto di aver tutti e tre subito una metamorfosi, o meglio, la prima subĂŹ una metamorfosi, gli altri due diedero origine a fiori (la rosa rossa e il narciso), e solo lâultimo sembra aver dato il nome al fiore spuntato dopo la sua morte.
Se il personaggio femminile della Titanide Asteria, sorella di Latona, anche lei amata da Zeus e trasformata in quaglia, non ci dice quasi nulla, i nomi di Adone e di Narciso sono diventati addirittura proverbiali, per cui anche le persone di media o poca cultura capiscono che cosa si intende quando si dice di qualcuno: «quello Ăš un Adone», o «quello Ăš un Narciso», e sul secondo personaggio Ăš stato costruito un termine, ânarcisismoâ (NarziĂmus, Narcissisme, Narcisism) che anche chi fosse digiuno di cultura âclassicaâ capisce immediatamente, dopo che Sigmund Freud e gli psicanalisti ne hanno fatto un campo di ricerca teorica e di studio talmente vasto, che il termine Ăš uscito dalla cerchia degli addetti ai lavori. Al punto che si Ăš potuto parlare «dei due miti istitutivi della psicanalisi: Edipo e Narciso», e tutti, piĂč o meno, capiscono di che cosa si tratti. Per chi segue il melodramma operistico, basterĂ citare la celebre aria per basso «Non piĂč andrai, farfallone amoroso», dalle Nozze di Figaro di Mozart, su libretto di Lorenzo Da Ponte in lingua italiana, atto I°, dove si canta «delle belle turbando il riposo / Narcisetto, Adoncino dâamor» (1786).
Nella attuale comunicazione para-scientifica (Wiki, blogs, etc.) ci si Ăš affrettati ad affermare che questo testo papiraceo, attribuito sulle prime a Partenio di Nicea (che operĂČ a Roma negli anni successivi al 79 a.C.) sarebbe piĂč antico di una generazione rispetto a Ovidio, e forse anche rispetto al racconto di Conone. Se si prendono le ipotesi per certezze, cosa che avviene regolarmente nellâelaborazione anonima della rete, Ăš facile trasformare semplici illazioni in dati di fatto, per cui oggi Ăš necessaria una attenzione ancor maggiore.
In realtĂ , se si esaminano i pochi versi del papiro in confronto con gli esametri di Partenio che sono pervenuti a noi, Ăš facile constatare che la differenza di stile impedisce di pensare che si tratti di versi del poeta di Nicea (oggi Ä°znik, Bitinia, Turchia). Il papiro Ăš del VI secolo, di ambiente greco-egiziano, e sembra contenere esercizi in metro elegiaco, una sorta di elenco riassuntivo di alcuni miti di metamorfosi, ma nulla ci permette di pensare che siano opera di un autore piĂč antico di Ovidio. Piuttosto si possono riscontrare singolari tratti stilistici che fanno pensare alla dizione dellâepica greca fiorita piĂč tardi in Egitto, il che farebbe escludere lâipotesi di Partenio di Nicea, e farebbe pensare invece a un esercizio, piĂč o meno scolastico, di qualche compositore egiziano che conosceva bene la produzione di Nonno di Panopoli. In ogni caso, nellâedizione minore di Partenio curata nel 2007 da una specialista come Jane L. Lighthfoot per la Collezione Loeb, il frammento non compare, pur conoscendo lâautrice lâesistenza del papiro, che cita.
Comunque stiano le cose, il breve frammento elegiaco del Papiro di Ossirinco 4711 non apporta nessun dato informativo nuovo o diverso da ciĂČ che si trova nelle altre fonti e nella versione letteraria ampliata da Ovidio. I tratti riconoscibili sono:
a) la bellezza straordinaria;
b) il rifiuto (degli amanti?);
c) lâauto-innamoramento per unâimmagine onirica.
Anche eloquenti sono i tratti mancanti, le âassenzeâ: nulla traspare da questo scarno e manchevole frammento, sul modo di morire del protagonista (arma da taglio, consunzione o annegamento?), e nulla ci viene detto sullâidentitĂ maschile o femminile del partner. Sappiamo solo che il Soggetto (direi, quasi certamente Narciso) Ăš associato con altri due protagonisti di metamorfosi, ma non ci sono nemmeno cenni che permettano di riconoscere quale collocazione geografica potesse avere la vicenda, dunque non sappiamo se si parli del Narciso anatolico nato sul monte Latmos (ipotesi che escluderei facilmente), o del Silente euboico di OropĂČs figlio di Amarinto, o del Narciso beotico e della sua vicenda tespiese, vuoi nella versione âcononianaâ (vedi Antologia 5), vuoi in quella ovidiana (vedi Antologia 6).
La versione di Ovidio, che diventa âclassicaâ
Narciso, nella versione Ovidiana delle Metamorfosi (III 339-510), occupa una trattazione poetica di circa 171 versi, esametri dattilici di squisita fattura, mentre anche nei Fasti troviamo un breve cenno al giovane che era al tempo stesso non alter et alter, «non altro e altro» (Fasti V, v. 226). Questa elaborazione, una sorta di âepillioâ inserito in un poema di XV libri che conta molte migliaia di versi, quasi 12.000, ebbe un grande successo, nel mondo romano, tanto che nei pochi anni successivi alla sua diffusione, si moltiplicarono le immagini pittoriche, soprattutto nel contesto degli affreschi e mosaici pompeiani, in una quantitĂ decisamente fuori dal comune.
Il successo fu immediato: pochi decenni dopo, lâidea di un tipo che ama la propria faccia vista in uno specchio dâacqua, era giĂ proverbiale, per esempio in un epigramma buffo del poeta satirico di etĂ neroniana (56-684) Lucillio (vedi Antologia 6 bis).
Nel III secolo ritroviamo il nostro eroe anche in un mosaico di Antiochia (Casa del Menandro, Antakya, odierna Turchia), identificato con certezza da una didascalia, NARKICOC, mentre Ăš intento a trafiggere addirittura un leone, anche qui, non a caso, associato con Adone.
Dal punto di vista delle informazioni narrative, possiamo notare nella versione ovidiana numerosi tratti aggiuntivi. Abbiamo infatti, comâĂš prevedibile in un rifacimento cosĂŹ ampio:
1) la precisazione genealogica dei nomi del padre, che qui Ăš il fiume Cefiso (non piĂč un Amarinto, e men che meno il celebre Endimione), e della madre, la Ninfa Liriope, nome peraltro del tutto sconosciuto allâonomastica greca;
2) la presenza, al momento della nascita, di un indovino famoso, il celebre profeta Tiresia tebano, che peraltro solo in Ovidio Ú associato con Narciso e con sua madre; la sua ambigua profezia Ú destinata a rimanere famosa: «vivrà felice fino alla vecchiaia, se non conoscerà se stesso!»;
3) la descrizione del giovinetto, del quale si precisa la grande bellezza, lâet...