Le ateniesi
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Le ateniesi

Alessandro Barbero

  1. 216 pages
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Le ateniesi

Alessandro Barbero

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Atene, 411 a.C. Siamo in campagna, appena fuori dalle porte della cittĂ , dove, in due casette adiacenti, abitano due vecchi reduci di guerra, Trasillo e Polemone. Anni prima hanno combattuto insieme nella ingloriosa battaglia di Mantinea, che ha visto gli Ateniesi sbaragliati dagli Spartani, sono sopravvissuti e ora vivono lavorando la terra e senza mai decidersi a trovare un marito per le loro due figlie, Glicera e Charis, che perĂČ iniziano a mordere un po' il freno.

Per i due vecchi l'unica cosa che conta Ăš la politica. Atene ha inventato la democrazia ma deve difenderla, i ricchi complottano per instaurare la tirannide: anche il vicino Eubulo, grande proprietario che si ritira in una villa poco distante quando le fatiche della vita nella polis richiedono un po' di riposo, Ăš guardato con sospetto. Ma Charis e Glicera pensano che i padri vivano fuori dal mondo: per loro il giovane Cimone, figlio di Eubulo, ricco, disinvolto e arrogante, Ăš un oggetto di sogni segreti.

È cosĂŹ che, quando tutti gli uomini si radunano in cittĂ  per la prima rappresentazione di una commedia di Aristofane, le ragazze violano tutte le regole di una societĂ  patriarcale e accettano di entrare in casa di Cimone, lontane dagli occhi severi dei padri. Ma mentre in teatro l'ateniese Lisistrata e la spartana LampitĂČ decretano il primo, incredibile sciopero delle donne contro gli uomini per invocare la fine di tutte le guerre, la notte nella villa di Eubulo prende una piega drammatica.

Con la sua straordinaria capacitĂ  di far rivivere per noi la storia tra le pagine, Alessandro Barbero compie un'operazione affascinante e spregiudicata: mette in scena nell'Atene classica un dramma sinistramente attuale e al tempo stesso porta sul palcoscenico una commedia antica facendoci divertire e appassionare come se fossimo i suoi primi spettatori.

Le Ateniesi Ăš un romanzo sorprendente, a tratti durissimo, che narra con potenza visionaria la lotta di classe, l'eterna deriva di sopraffazione degli uomini sulle donne, l'innocenza e la testardaggine di queste ultime, la necessitĂ  per gli uni e le altre di molto coraggio per cambiare il corso della storia.

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Informations

Éditeur
Mondadori
Année
2015
ISBN
9788852067563

1

Sono passati sette anni. Siamo in campagna, appena fuori dalle mura di Atene, ed ù inverno. Dovete immaginare i campi brulli, gli ulivi nodosi, i fichi senza foglie, e due casette una vicina all’altra, con le porte sprangate, e il fumo che esce dal buco nel tetto. Qui vivono i due vecchi, Trasillo e Polemone: se la sono cavata tutt’e due, alla fine, anche se Trasillo ha perso l’uso d’un braccio, e l’amico ha in faccia una cicatrice che gli attraversa la bocca. Sono invecchiati in fretta, in questi anni, dopo una vita passata a spaccarsi la schiena nei campi, con gli affanni della guerra che non finisce mai, e le tristezze in famiglia: tutt’e due sono rimasti vedovi. Gli rimane una sola gioia, le figlie: ne hanno una ciascuno, Trasillo ha Glicera e Polemone ha Charis, e ormai le ragazze sono in età da marito. Tante volte si sono detti: che peccato che uno di noi non abbia un maschio! Si sposerebbero, e saremmo a posto per sempre. Invece bisognerà cercare dei generi che se le porteranno via, e nessuno dei due ha tanta voglia di pensarci.
Ah, dimenticavo: quell’altra casa che si intravvede in fondo alla strada, quella grande, col recinto e il cancello, mezzo nascosta fra gli ulivi, appartiene a un altro ateniese, ma non un povero come i nostri. Lui Ăš uno dei “grossi”, un ricco che vive in cittĂ , e in campagna ci viene solo a sorvegliare i lavori: Eubulo. Lui un figlio maschio ce l’ha, Cimone; quello sĂŹ che sarebbe un bel partito, ma non c’ù neanche da pensarci, Glicera e Charis sono troppo povere per lui. Negli ultimi anni i vecchi hanno dovuto vendere parte della terra, non hanno piĂč neanche uno schiavo: la guerra sta rovinando tutti, anche se i politici continuano a promettere che presto le cose andranno meglio, e il popolo continua a votarli, credendo a tutte le promesse. Ecco, mi pare di aver detto tutto, adesso la nostra storia puĂČ cominciare. Attenzione, la porta di Polemone si sta aprendo...
Charis si affacciĂČ alla porta, annusĂČ l’aria e rabbrividĂŹ. Il cielo era grigio e basso, e tutto quel che si vedeva era bagnato: durante la notte era piovuto. La ragazza si avvolse piĂč strettamente nel mantello e uscĂŹ in mezzo al fango. Sulla testa reggeva in equilibrio un’anfora vuota. Come tutte le mattine affrontĂČ, a piedi nudi, i dieci minuti di cammino che separavano casa sua dalla fontana. Era una fontana di paese, scavata direttamente nella roccia, ma l’acqua usciva da una testa di leone in bronzo. Tanto tempo prima c’era stato un leone intero, che reggeva fra le zampe una vasca per lavare; ma l’anno in cui Charis era nata gli Spartani avevano invaso l’Attica e s’erano spinti fin lĂŹ, e oltre a tagliare le viti e gli ulivi si erano portati via il leone di bronzo. Charis ricordava benissimo che quando era bambina la fontana non esisteva piĂč, c’era solo un filo d’acqua che sgorgava dalla roccia. Poi la comunitĂ  aveva deciso di ricostruirla e gli abitanti si erano tassati, ma soldi ce n’erano pochi: del leone avevano installato soltanto la testa, con la canna dell’acqua che usciva dalla gola.
Alla fontana un gruppo di donne perdeva tempo chiacchierando, in attesa che le anfore si riempissero. La maggior parte erano schiave, e Charis le conosceva solo di vista; l’unica con cui aveva un po’ piĂč di amicizia era la Moca, la schiava tracia che stava in casa di Eubulo. Charis andĂČ a posare in terra l’anfora accanto alla sua. La Moca era una donna matura, e secondo i vicini aveva la lingua troppo lunga; dicevano anche che sapeva certi incantesimi della sua gente, ed era disposta a farli provare per un po’ di soldi, ma Charis, quando aveva sentito gli adulti che ne parlavano e ridevano, non aveva mai capito di che cosa si trattasse davvero.
«Che giornata!» commentĂČ la tracia, accennando al cielo gravido di pioggia.
«Puoi dirlo» assentÏ Charis. «Mio padre stamattina si alza, guarda fuori: piove, Ú la benedizione degli dÚi! Era tutto contento. Io per me ne farei proprio a meno.»
«Lavorate fuori, oggi?»
«Ha deciso di cominciare a potare la vite. Proprio oggi, ma ti pare? Dice che Ăš giĂ  in ritardo» comunicĂČ Charis, rassegnata. In una giornata come quella, lei se ne sarebbe stata cosĂŹ volentieri in casa a scaldarsi al fuoco; ma i vecchi vogliono far tutto a modo loro, e in famiglia non si discute, si obbedisce.
«Guarda, arriva la tua vicina» annunciĂČ Moca. Charis si voltĂČ: Glicera arrivava un po’ affannata, i capelli mal pettinati che sfuggivano a ciocche dal fazzoletto, sostenendo con una mano l’anfora in equilibrio sulla testa.
«Che giornata!» disse subito, mentre posava l’anfora. Le altre risero.
«Ti sei alzata tardi?» domandĂČ Charis.
«Non me ne parlare! Mio padre si Ú rigirato tutta la notte, per la fregola di andare nella vigna. È ora di potare, non riesce a pensare ad altro.»
Moca rise.
«Be’, Ăš proprio vero, dove va un cane va anche l’altro.» Il greco lo sapeva male, ma i proverbi li aveva imparati tutti.
«Vacci piano col tuo cane, o mio padre ti farĂ  frustare» esclamĂČ Glicera; ma rideva.
Intanto era arrivato il turno di Moca, poi quello di Charis. Riempite le anfore, rimasero ad attendere che toccasse anche a Glicera; le donne che erano arrivate per prime ripartivano tutte insieme, azzittite sotto il peso.
«Si torna?» disse Glicera, quando anche la sua anfora fu colma.
«Dai» acconsentirono le altre, senza entusiasmo. Dovettero inginocchiarsi per riuscire a caricare le anfore sulla testa, poi si rialzarono barcollando.
«Da noi oggi c’ù lavoro doppio» disse Moca dopo un po’. «Il figlio del padrone viene a vedere uno stallone nuovo, mangerĂ  qui con gli amici.»
«Finita la vita comoda!» scherzĂČ Glicera.
«Cosa vuoi, ogni tanto ci tocca!» borbottĂČ la tracia. «Siamo giĂ  fortunati che il padrone vecchio dorme quasi sempre in cittĂ .»
Continuarono a scherzare finchĂ© Moca non fu sparita sulla strada fiancheggiata di ulivi che portava alla proprietĂ  di Eubulo. Glicera e Charis ripresero il cammino. LĂŹ il fango, meno battuto, era piĂč profondo, i piedi nudi affondavano fino alle caviglie.
«Ma tu non sei stufa di lavorare come una schiava?» se ne uscĂŹ all’improvviso Glicera.
Charis, affannata sotto il peso, le gettĂČ un’occhiata stupita. Che discorsi: lavorare Ăš il destino degli umani, suo padre glielo diceva sempre. Se non ti andava di lavorare, dovevi nascere fra gli dĂši. Una volta, a dire il vero, Charis aveva obiettato che i ricchi non lavorano. Suo padre aveva fatto una faccia strana. «Se il popolo aprisse gli occhi, vedi che lavorerebbero anche loro» aveva borbottato. A Charis i discorsi di suo padre non interessavano tanto, e non aveva piĂč ascoltato.
Glicera, perĂČ, insisteva, si vedeva che stava seguendo un suo pensiero. Era sempre stata lei, delle due, quella che faceva le domande. Quando i loro corpi di bambine avevano cominciato a cambiare, era lei che aveva chiesto a Charis, una volta, di lasciarsi toccare quei seni che le erano spuntati sul petto, e di toccarle i suoi. Lo avevano fatto due o tre volte, in cantina, al buio.
«No, dico sul serio. Io non sono nata per fare questa vita – e neanche tu» concesse Glicera.
«E cosa vuoi farci?» obiettĂČ l’altra.
«Vuoi che te lo dica? Voglio sposare un uomo che non mi faccia piĂč lavorare come una bestia da soma.»
«Sarebbe bello!» rise Charis. «Sposare un cavaliere. E a casa, dare ordini alle schiave.»
Continuarono a ridacchiare per un po’, mentre sguazzavano nel fango.
«Con tuo padre hai mai parlato di quando ti sposerai?» chiese Charis alla fine. Glicera scosse la testa.
«Ci ho provato, ma non Ăš cosa. Lo sai com’ù fatto. Dice che quando sarĂ  ora ci penserĂ .»
Tutt’e due tacquero, assorte. Quando sarĂ  ora: e cioĂš quando? Uomini dell’etĂ  adatta, in cittĂ  non ce n’erano poi cosĂŹ tanti. Con tutti i giovani che erano morti in guerra, specialmente durante la maledetta spedizione di Sicilia: un’intera flotta era partita tre anni prima, e non era piĂč tornata. E ancora adesso, in troppi servivano al fronte e sulla flotta: e intanto le ragazze rimaste a casa crescevano – e la giovinezza sfiorisce presto...
Alle loro spalle esplose un nitrito formidabile. Glicera e Charis si fermarono stupite. SeguĂŹ un altro nitrito, e un altro, cosĂŹ disperato che pareva stessero cercando di scannare un cavallo, o di trascinarlo verso il lupo.
Le amiche si guardarono.
«Sarà lo stallone nuovo che diceva Moca. Andiamo a vedere?» propose Glicera.
Charis aveva paura dei cavalli, ma non voleva ammetterlo.
«Andiamo» acconsentÏ, senza entusiasmo.
Ormai erano sul viottolo che portava alle loro case; appoggiarono a terra le anfore e tornarono indietro di corsa. Mentre si avvicinavano alla proprietà di Eubulo sentirono voci rotte di uomini mescolarsi ai nitriti, e poi un fracasso di legna che si spezzava. Scavalcato un muretto a secco, attraversarono l’uliveto e arrivarono alle spalle della grande casa, dove una tettoia e una serie di recinti ospitavano i cavalli del padrone. Dentro uno dei recinti uno stallone bianco, schiumante di rabbia, correva avanti e indietro lungo la staccionata già mezzo demolita; al di là, due cavalle assistevano innervosite, scuotendo le criniere. Due uomini si tenevano a prudente distanza, imprecando inutilmente contro il cavallo. Arrivando in mezzo a loro, Glicera e Charis riconobbero due schiavi della casa.
«State lontane, che Ú pericoloso!» grugnÏ uno dei due.
Lo stallone danzava intorno alla staccionata, e dal suo corpo lucido di sudore emanava una tale violenza che le ragazze non avevano bisogno di farselo dire. Piene di curiositĂ , rimasero a guardare mentre la bestia si apriva un varco nello steccato e irrompeva nel secondo recinto con un nitrito di trionfo. Una delle cavalle si allontanĂČ al trotto, poi si voltĂČ e si fermĂČ a guardare, battendosi le cosce con la coda. L’altra fece qualche passo incerto, poi si fermĂČ, coi fianchi che pulsavano. Lo stallone si avvicinĂČ ed ecco, mentre i due schiavi si incitavano a vicenda a intervenire – ma nessuno dei due si muoveva –, sotto di lui qualcosa cominciĂČ ad allungarsi. Charis e Glicera rimasero incantate a fissare quell’appendice che si gonfiava fino a raggiungere le dimensioni di un braccio umano, mentre il cavallo si avvicinava trotterellando alla giumenta immobile.
«Ma Ăš il suo pĂ©os?» sussurrĂČ Charis, che quasi non ci credeva.
A Glicera scappava da ridere.
«Certo! Non l’hai mai visto?»
Charis fece segno di no, sbarrando gli occhi.
«E lei sta lÏ a aspettarlo!»
Poi s’accorse che gli schiavi le guardavano sogghignando, e sentĂŹ che dicevano qualcosa in una lingua che nessuna delle due capiva. Seccata, Charis voltĂČ le spalle.
«Andiamo via, non c’ù niente da vedere» disse forte.
S’erano appena allontanate che entrambe scoppiarono a ridere come due pazze.
«Hai visto quelli lÏ che faccia che facevano?»
Un cavaliere proveniente dalla grande casa le sorpassĂČ al galoppo, schizzando fango. Era Cimone, il figlio del vicino. Cavalcava bene, frustando il cavallo. Senza bisogno di dirselo, le ragazze tornarono un’altra volta sui loro passi, per vedere cosa sarebbe successo. L’acqua poteva aspettare.
Cimone era smontato e stava insultando gli schiavi, che ascoltavano a testa bassa. Lo stallone s’era staccato dalla giumenta, e si guardava intorno istupidito. La cavalla si allontanĂČ di qualche passo, si scrollĂČ, poi si diresse alla tettoia e cominciĂČ a masticar paglia. Uno degli schiavi tolse il morso e la briglia al cavallo con cui era arrivato il padrone.
«Dà qua!»
Cimone glieli strappĂČ di mano, attraversĂČ il varco nello steccato e si avvicinĂČ allo stallone. Placata, la bestia lo guardĂČ arrivare senza capire. Il ragazzo gli accarezzĂČ la testa e il collo, passĂČ la briglia e sistemĂČ il morso in bocca. Teneva il frustino sottobraccio. A casa ti farĂČ vedere io, pensĂČ. Si aggrappĂČ alla criniera con tutt’e due le mani e saltĂČ in groppa. Il cavallo, innervosito, sgroppĂČ due o tre volte, ma Cimone ci sapeva fare, anche senza sella. Sentendo il morso che gli lacerava le gengive, lo stallone provĂČ ancora a ribellarsi, ma poi confusamente capĂŹ che era meglio obbedire. Tirando le redini e stringendo le ginocchia, il ragazzo costrinse il cavallo a rimanere immobile. Ecco, cosĂŹ va bene, impara chi comanda. E adesso a casa.
Solo allora si accorse che c’er...

Table des matiĂšres

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. Le Ateniesi
  4. Prologo. Mantinea, 418 a.C.
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Capitolo 21
  26. Capitolo 22
  27. Capitolo 23
  28. Capitolo 24
  29. Copyright
Normes de citation pour Le ateniesi

APA 6 Citation

Barbero, A. (2015). Le ateniesi ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3296948/le-ateniesi-pdf (Original work published 2015)

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Barbero, Alessandro. (2015) 2015. Le Ateniesi. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3296948/le-ateniesi-pdf.

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Barbero, A. (2015) Le ateniesi. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3296948/le-ateniesi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Barbero, Alessandro. Le Ateniesi. [edition unavailable]. Mondadori, 2015. Web. 15 Oct. 2022.