Cronaca di una morte annunciata
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Cronaca di una morte annunciata

Gabriel GarcĂ­a MĂĄrquez, Dario Puccini

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Cronaca di una morte annunciata

Gabriel GarcĂ­a MĂĄrquez, Dario Puccini

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Santiago Nasar morirà. I gemelli Vicario hanno già affilato i loro coltelli nel negozio di Faustino Santos. A Manaure, "villaggio bruciato dal sale dei Caraibi", lo sanno tutti: presto i fratelli della bella quanto svanita Ángela vendicheranno l'onore di quella verginità rubatale in modo misterioso dall'aitante Santiago, ricco rampollo della locale colonia araba. Tutti lo sanno, ma nessuno fa alcunché per impedirlo: non la madre della vittima designata, non il parroco, non l'alcalde, neppure una delle numerose fanciulle che spasimano per il Nasar. E cosÏ la morte annunciata lo sorprende nel fulgore di una splendida mattinata tropicale. Ma non per agguato o per trappola: un destino bizzarro e crudele fa sÏ che la fine di Santiago si compia per un concorso di fatalità ed equivoci, mentre gli stessi assassini fanno di tutto perché qualcuno impedisca loro l'esecuzione.
Basato su un fatto reale, Cronaca di una morte annunciata venne pubblicato nel 1981 (un anno prima del Nobel a GarcĂ­a MĂĄrquez) e, pur nella brevitĂ , rappresenta uno dei vertici della sua narrativa: un romanzo magistrale che sa fondere i toni della tragedia antica con il ritmo di una detective story in una grandiosa allegoria dell'assurditĂ  della vita, l'apoteosi della fatalitĂ .

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Informations

Éditeur
Mondadori
Année
2010
ISBN
9788852010743

Cronaca di una morte annunciata

La caza de amor es de altanerĂ­a.
La caccia d’amore ù caccia di falconeria.
GIL VICENTE
Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzĂČ alle 5 e 30 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare un bosco di higuerones sotto una pioggerella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma al risveglio si sentĂŹ inzaccherato da capo a piedi di cacca d’uccelli. «Sognava sempre alberi» mi disse sua madre, PlĂĄcida Linero, rievocando ventisette anni dopo i particolari di quel lunedĂŹ ingrato. «La settimana prima aveva sognato di viaggiare da solo su un aereo di carta stagnola che volava senza mai trovare ostacoli in mezzo ai mandorli» mi disse. PlĂĄcida Linero godeva di una ben meritata fama di sicura interprete dei sogni altrui, a patto che glieli raccontassero a digiuno, ma non aveva avvertito il minimo segno di malaugurio in quei due sogni di suo figlio, nĂ© negli altri sogni con alberi che lui le aveva raccontato nei giorni che precedettero la sua morte.
Neppure Santiago Nasar riconobbe il presagio. Aveva dormito poco e male, senza nemmeno spogliarsi, e si svegliĂČ con il mal di testa e con un sedimento di limatura di rame sul palato. Li interpretĂČ come inconvenienti naturali della grande festa di nozze che si era prolungata fin oltre la mezzanotte. Di piĂč: le numerose persone che incontrĂČ da quando uscĂŹ di casa alle 6 e 05 fino a quando venne squartato come un maiale un’ora dopo lo ricordavano un po’ insonnolito ma di buonumore, e a tutti fece notare in modo casuale che era una bella giornata. Nessuno avrebbe giurato che alludesse alle condizioni del tempo. Molti coincidevano nel ricordare che era una mattina scintillante percorsa da una brezza marina che arrivava attraverso i bananeti, come era logico che fosse in un normale febbraio di quell’epoca. La maggioranza, perĂČ, era concorde nel dire che c’era un tempo funereo, con un cielo torbido e basso e un denso odore di acque stagnanti, e che nel momento della disgrazia stava cadendo una pioggerella minuta come quella che Santiago Nasar aveva visto nel bosco del suo sogno. Io mi stavo rimettendo dai bagordi delle nozze nel grembo apostolico di MarĂ­a Alejandrina Cervantes, e mi svegliai a stento con il baccano delle campane che suonavano a martello, perchĂ© pensai che le avevano scatenate in onore del vescovo.
Santiago Nasar indossĂČ un paio di pantaloni e una camicia di lino bianco non inamidati, uguali a quelli che s’era messo il giorno prima per le nozze. Era un abbigliamento da grande occasione. Se non fosse stato per l’arrivo del vescovo avrebbe indossato il vestito cachi e gli stivali da cavallo con cui andava ogni lunedĂŹ al Divino Rostro, la fattoria con allevamento di bestiame che aveva ereditato da suo padre e che amministrava con molto senno anche se con poca fortuna. In campagna portava alla cintura una 357 Magnum, i cui proiettili blindati, a quanto diceva lui, potevano spaccare un cavallo a metĂ . In epoca di pernici portava anche la sua attrezzatura da falconeria. Nell’armadio teneva inoltre un fucile 30,06 Mannlicher-Schönauer, un fucile 300 Holland Magnum, un 22 Hornet con doppio mirino telescopico e una Winchester a ripetizione. Dormiva sempre come aveva dormito suo padre, con l’arma nascosta dentro la federa del cuscino, ma quel giorno prima di lasciare la casa ne tolse via i proiettili e la mise nel cassetto del comodino. «Non la lasciava mai carica» mi disse sua madre. Io lo sapevo, e sapevo anche che riponeva le armi in un posto e nascondeva le munizioni in un altro molto appartato, in modo che nessuno, neanche per sbaglio, cedesse alla tentazione di caricarle dentro casa. Era una saggia abitudine che suo padre aveva imposto da quando una mattina una domestica aveva scosso il cuscino per togliere la federa, e la pistola aveva lasciato partire un colpo urtando contro il pavimento. La pallottola distrusse l’armadio della camera, attraversĂČ la parete del salotto, passĂČ con fracasso di guerra per la sala da pranzo della casa vicina e ridusse in polvere di gesso un santo a grandezza naturale sull’altare maggiore della chiesa, all’altro estremo della piazza. Santiago Nasar, che a quel tempo era molto piccolo, non dimenticĂČ mai la lezione di quella disavventura.
L’ultima immagine che sua madre conservava di lui era quella del suo passaggio fugace in camera da letto. L’aveva svegliata mentre cercava di trovare a tentoni un’aspirina nell’armadietto del bagno, e lei accese la luce e lo vide comparire sulla porta con il bicchiere d’acqua in mano, come l’avrebbe ricordato per sempre. Santiago Nasar le raccontĂČ allora il sogno, ma lei non fece caso agli alberi.
“Tutti i sogni con uccelli sono di buon augurio” disse.
Lo vide dalla stessa amaca e nella stessa posizione in cui la trovai prostrata dalle ultime luci della vecchiaia, quando tornai in questo paese dimenticato per cercare di ricomporre con tante schegge sparse lo specchio rotto della memoria. A stento riusciva a distinguere le forme in piena luce, e teneva foglie medicinali sulle tempie per il mal di testa eterno che le aveva lasciato il figlio l’ultima volta che era passato per la sua camera. Era distesa sul fianco, aggrappata alle corde d’agave del capezzale dell’amaca per cercare di tirarsi su, e c’era nella penombra l’odore di battistero che mi aveva sorpreso la mattina del delitto.
Appena comparvi sul vano della porta mi confuse con il ricordo di Santiago Nasar. «Era proprio lÏ» mi disse. «Aveva il vestito di lino bianco lavato con sola acqua, perchĂ© aveva la pelle cosĂŹ delicata che non sopportava il rumore dell’amido.» Rimase per un bel po’ seduta sull’amaca, masticando semi di cardamina, finchĂ© le svanĂŹ l’illusione che suo figlio fosse tornato. Allora sospirĂČ: «È stato l’uomo della mia vita».
Io lo rividi nella sua memoria. Aveva compiuto ventun anni l’ultima settimana di gennaio, era agile e pallido, e aveva le palpebre arabe e i capelli ricciuti di suo padre. Era il figlio unico di un matrimonio di convenienza che non ebbe un solo istante di felicitĂ , ma lui sembrava felice con suo padre finchĂ© questi era morto d’improvviso, tre anni prima, e continuĂČ a sembrarlo con la madre solitaria fino al lunedĂŹ della sua morte. Da lei aveva ereditato l’istinto. Da suo padre aveva imparato fin da piccolissimo la padronanza delle armi da fuoco, l’amore per i cavalli e per l’addestramento degli uccelli da preda, ma da lui imparĂČ anche le buone arti del coraggio e della prudenza. Parlavano arabo tra loro, ma non in presenza di PlĂĄcida Linero perchĂ© non si sentisse esclusa. Non si erano mai visti armati in paese, e l’unica volta che esibirono i loro falchi ammaestrati fu per dare una dimostrazione di falconeria in un bazar di beneficenza. La morte di suo padre lo aveva costretto ad abbandonare gli studi al termine della scuola secondaria, per farsi carico dell’azienda di famiglia. Di suo, Santiago Nasar era allegro e pacifico, e di cuore spensierato.
Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, sua madre credette che si fosse sbagliato di data quando lo vide vestito di bianco. «Gli ricordai che era lunedÏ» mi disse. Ma lui le spiegĂČ che si era vestito in abito da cerimonia nel caso avesse avuto l’occasione di baciare l’anello al vescovo. Lei non mostrĂČ il minimo segno d’interesse.
“Non scenderà neppure dal battello” gli disse. “Manderà una benedizione di convenienza, come sempre, e se ne tornerà da dove ù venuto. Odia questo paese.”
Santiago Nasar sapeva che era vero, ma i fasti della chiesa gli provocavano un’attrazione irresistibile. «È come il cinema» mi aveva detto una volta. A sua madre, invece, l’unica cosa che premeva dell’arrivo del vescovo era che il figlio non si bagnasse sotto la pioggia, perchĂ© l’aveva sentito starnutire mentre dormiva. Gli consigliĂČ di portare un ombrello, ma lui le fece un cenno di saluto con la mano e uscĂŹ dalla stanza. Fu l’ultima volta che lo vide.
Victoria GuzmĂĄn, la cuoca, era sicura che non aveva piovuto nĂ© quel giorno, nĂ© in tutto il mese di febbraio. «Al contrario» mi disse quando andai a trovarla, poco prima della sua morte. «Il sole picchiava piĂč presto che in agosto.» Stava squartando tre conigli per il pranzo, circondata da cani ansimanti, quando Santiago Nasar entrĂČ in cucina. «Si alzava sempre con un viso da nottataccia» ricordava senza amore Victoria GuzmĂĄn. Sua figlia, Divina Flor, che cominciava appena a fiorire, servĂŹ a Santiago Nasar un tazzone di caffĂš rustico con uno schizzo d’alcol di canna, come faceva tutti i lunedĂŹ, per aiutarlo a smaltire il peso della notte precedente. La cucina enorme, con il sussurro del fuoco e le galline addormentate sulle grucce, pareva respirare col fiato sospeso. Santiago Nasar masticĂČ un’altra aspirina e si sedette a bere a lunghi sorsi la tazza di caffĂš, pensando lentamente, senza staccare lo sguardo dalle due donne che sbudellavano i conigli sul fornello. Nonostante l’etĂ , Victoria GuzmĂĄn si conservava bene. La ragazzina, ancora un po’ selvatica, sembrava soffocata dall’impeto delle sue ghiandole. Santiago Nasar l’afferrĂČ per il polso quando lei gli si avvicinĂČ per ritirare la tazza vuota.
“Sei già in età da prendere il morso” le disse.
Victoria GuzmĂĄn gli mostrĂČ il coltello insanguinato.
“Lasciala perdere, bianco” gli ordinĂČ con serietĂ . “Di quest’acqua non berrai finchĂ© io camperĂČ.”
Era stata sedotta da Ibrahim Nasar nella pienezza dell’adolescenza. L’aveva amata in segreto per vari anni nelle stalle della fattoria, e se la portĂČ a servire in casa quando gli venne meno l’affetto. Divina Flor, che era figlia d’un marito piĂč recente, si sapeva destinata al letto furtivo di Santiago Nasar, e questa idea le provocava un’ansia prematura. «Non s’ù piĂč visto nascere un altro uomo come quello» mi disse, grassa e appassita, circondata dai figli di altri amori. «Era identico a suo padre» le replicĂČ Victoria GuzmĂĄn. «Una merda.» Ma non potĂ© eludere una rapida raffica di spavento nel ricordare l’orrore di Santiago Nasar quando lei strappĂČ alle radici le viscere di un coniglio e gettĂČ ai cani le trippe fumiganti.
“Non essere bestiale” le disse. “Pensa se fosse un essere umano.”
A Victoria GuzmĂĄn furono necessari vent’anni per riuscire a capire come un uomo abituato ad ammazzare animali inermi manifestasse d’improvviso un simile orrore. «Dio Santo» esclamĂČ spaventata, «allora quel fatto fu una vera rivelazione!» Eppure, aveva tanta rabbia arretrata in corpo la mattina del delitto, che continuĂČ a dare in pasto ai cani le viscere degli altri conigli, soltanto per amareggiare la colazione di Santiago Nasar. Fu allora che l’intero paese si svegliĂČ con un brivido al muggito del battello a vapore su cui arrivava il vescovo.
La casa era un antico magazzino a due piani, con pareti di rozzi tavoloni e un tetto di zinco a due spioventi, dal quale i corvi spiavano i rifiuti del porto. Era stato costruito ai tempi in cui il fiume era cosĂŹ generoso che numerose chiatte di mare, e persino alcune navi d’altura, si avventuravano fin lĂŹ attraverso i pantani dell’estuario. Quando era giunto Ibrahim Nasar con gli ultimi arabi, alla fine delle guerre civili, non arrivavano piĂč le navi di mare a causa dei mutamenti del fiume, e il magazzino era rimasto in disuso. Ibrahim Nasar lo comprĂČ a poco prezzo per avviare un’agenzia d’importazioni che non avviĂČ mai, e solo quando stava per sposarsi lo trasformĂČ in una casa. Al pianoterra aprĂŹ una sala che serviva a tutto, e vi costruĂŹ in fondo una scuderia per quattro animali, le stanze di servizio, e una cucina da casa di campagna con finestre verso il porto da cui entrava a ogni ora la pestilenza delle acque. L’unico pezzo che lasciĂČ al suo posto nella sala fu una scala a chiocciola recuperata da qualche naufragio. Al secondo piano, dove prima c’erano gli uffici della dogana, ricavĂČ due vaste stanze da letto e cinque camerette per i molti figli che pensava d’avere, e costruĂŹ un balcone di legno sopra i mandorli della piazza, dove PlĂĄcida Linero si sedeva nei pomeriggi di marzo per consolarsi della propria solitudine. Sulla facciata conservĂČ la porta principale e le fece accanto due portefinestre con balaustre di legno tornito. ConservĂČ anche la porta posteriore, facendola solo un po’ piĂč alta per passarci a cavallo, e mantenne in servizio una parte dell’antico molo. Questa fu sempre la porta di maggior uso, non soltanto perchĂ© era l’accesso naturale alle stalle e alla cucina, ma anche perchĂ© dava sulla via del porto nuovo senza passare per la piazza. La porta della facciata, tranne che in alcune occasioni festive, rimaneva chiusa e sprangata. Tuttavia, fu lĂŹ, e non sulla porta posteriore, che aspettavano Santiago Nasar gli uomini che lo avrebbero ucciso, e fu di lĂ  che egli uscĂŹ ad accogliere il vescovo, sebbene dovesse fare un giro completo attorno alla casa per arrivare al porto.
Nessuno riusciva a spiegarsi tante coincidenze funeste. Il giudice istruttore che venne da Riohacha dovette intuirle senza osare ammetterle, giacchĂ© nell’istruttoria era evidente il suo sforzo di attribuire loro una spiegazione razionale. La porta della piazza vi era citata varie volte con un nome da romanzo d’appendice: “La porta fatale”. In realtĂ , l’unica spiegazione valida sembrava quella di PlĂĄcida Linero, che rispose alla domanda con la sua ragione di madre: «Mio figlio non usciva mai dalla porta di dietro quando era ben vestito». Pareva una veritĂ  cosĂŹ facile, che il giudice la registrĂČ in una nota a margine, ma non la incluse nell’istruttoria.
Victoria GuzmĂĄn, da parte sua, fu molto recisa nella risposta quando dichiarĂČ che nĂ© lei nĂ© sua figlia sapevano che stavano aspettando Santiago Nasar per ucciderlo. Ma nel corso degli anni successivi ammise che tutte e due lo sapevano quando lui entrĂČ nella cucina a prendere il caffĂš. Glielo aveva detto una donna passata dopo le cinque a chiedere in elemosina un po’ di latte. La donna aveva anche rivelato i motivi e il luogo dove lo stavano aspettando. «Non lo misi sull’avviso perchĂ© pensai che erano chiacchiere da ubriachi» mi disse. Tuttavia, quando sua madre era giĂ  morta, Divina Flor mi confessĂČ in un incontro successivo che Victoria GuzmĂĄn non aveva detto niente a Santiago Nasar perchĂ© nel fondo dell’anima voleva che lo uccidessero. Invece lei non lo aveva avvisato perchĂ© allora era solo una bambina impaurita, incapace d’una decisione propria, e si era ancor piĂč spaventata quando lui l’aveva afferrata per il polso con una mano che lei aveva sentito gelida e marmorea, come la mano di un morto.
Santiago Nasar attraversĂČ a lunghi passi la casa in penombra, inseguito dai muggiti di giubilo del battello del vescovo. Divina Flor lo precedette per aprirgli la porta, cercando di non lasciarsi raggiungere in mezzo alle gabbie di uccelli addormentati della sala da pranzo, in mezzo ai mobili di vimini e i vasi di felci appesi nel salotto, ma quando tolse la spranga dalla porta non potĂ© evitare una seconda volta quella mano da sparviero predatore. «Mi strinse tutta la passera» mi disse Divina Flor. «Era quello che faceva sempre quando mi trovava sola negli angoli della casa, perĂČ quel giorno non sentii lo spavento di sempre ma solo una voglia terribile di piangere.» Si fece da parte per lasciarlo uscire, e attraverso la porta socchiusa vide i mandorli della piazza, innevati dal chiarore dell’alba, ma non ebbe coraggio di vedere altro. «Allora cessĂČ il fischio del battello e cominciarono a cantare i galli» mi disse. «Era un chiasso cosĂŹ forte che non si riusciva a credere che ci fossero tanti galli in paese, e pensai che fossero arrivati con il battello del vescovo.» L’unica cosa che potĂ© fare per l’uomo che non sarebbe mai stato suo, fu di lasciare la porta senza spranga, contro gli ordini di PlĂĄcida Linero, in modo che egli potesse rientrare in caso d’emergenza. Qualcuno che non fu mai identificato aveva infilato sotto la porta un foglietto in una busta, nel quale si avvisava Santiago Nasar che lo stavano aspettando per ucciderlo. Gli venivano anche rivelati il luogo e i motivi, e altri particolari molto precisi su quanto si andava mormorando in giro. Il messaggio era in terra quando Santiago Nasar uscĂŹ di casa, ma lui non lo vide, nĂ© lo vide Divina Flor e non lo vide nessuno se non molto tempo dopo che il delitto era stato consumato.
Erano suonate le sei ed erano ancora accese le luci dei lampioni nelle strade. Sui rami dei mandorli, e su alcuni balconi, c’erano ancora le ghirlande colorate delle nozze, e si sarebbe potuto pensare che le avessero messe lì in quel momento in onore del vescovo. Ma la piazza, selciata di mattoni fino all’atrio della chiesa, dove sorgeva il palco della banda musicale, sembrava un letamaio di bottiglie vuote e di ogni genere di rifiuti della baldoria pubblica. Quando Santiago Nasar uscì di casa, varie persone correvano verso il porto, incalzate dai muggiti del battello.
L’unico locale aperto nella piazza era una latteria a lato della chiesa, dove stavano i due uomini che aspettavano Santiago Nasar per ucciderlo. Clotilde Armenta, la padrona del negozio, fu la prima che lo vide nel chiarore dell’alba, ed ebbe l’impressione che fosse vestito d’alluminio. «Pareva giĂ  un fantasma» mi disse. Gli uomini che lo avrebbero ucciso si erano assopiti sulle sedie, stringendo in grembo i coltelli avvolti nei giornali, e Clotilde Armenta trattenne il respiro per non svegliarli.
Erano gemelli: Pedro e Pablo Vicario. Avevano ventiquattro anni, e s’assomigliavano tanto che era difficile distinguerli. «Erano di taglia massiccia ma di buona indole» diceva l’istruttoria. Io, che li conoscevo dalla scuola elementare, avrei scritto la stessa cosa. Quella mattina portavano ancora i vestiti di panno scuro delle nozze, troppo pesanti e formali per i Caraibi, e avevano l’aria devastata da tante ore di stravizi, eppure avevano eseguito il rito quotidiano di radersi. Anche se non avevano smesso di bere fin dalla vigilia della festa, non erano ancora ubriachi al termine delle tre giornate, ma sembravano dei sonnambuli in stato di veglia. Si erano addormentati con le prime brezze dell’alba, dopo quasi tre ore di attesa nel negozio di Clotilde Armenta, e quello era il loro primo sonno dal venerdĂŹ. Si erano a stento svegliati al primo muggito del battello, ma l’istinto li aveva ridestati del tutto quando Santiago Nasar uscĂŹ di casa. Entrambi strinsero il rotolo dei giornali, e Pedro Vicario cominciĂČ ad alzarsi.
“Per l’amor di Dio” mormo...

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